Farneticazioni da isolamento

Se è vero che non esiste vera fede senza dubbi, dovrei essere sulla strada giusta del credente: di dubbi ne ho tanti e, in questo periodo stanno diventando sempre più angosciosi. Riguardano il vivere civile e religioso in un doloroso e sconvolgente passaggio epocale come quello che stiamo attraversando in compagnia di un virus, che ci sta mettendo a nudo nelle nostre debolezze e vergogne.

Per certi versi questi interrogativi sono simili a quelli che ci turbarono durante la prigionia di Aldo Moro. Si doveva trattare coi sedicenti rivoluzionari delle brigate rosse oppure si doveva resistere all’attacco schierandosi in strenua difesa del sistema? La ragion di Stato esigeva il sacrificio del prigioniero e fu la morte di Aldo Moro, che non portò peraltro alcun bene alla nostra democrazia, privandola di quella terza fase evolutiva nei rapporti politici della cui mancanza soffriamo tutt’oggi e, forse, soffriremo per sempre.

Il coronavirus ci sta prendendo in ostaggio e noi gli abbiamo dichiarato guerra aperta a tutti i costi, costi quel che costi: una strana ed eticamente sensibile versione della ragion di Stato, che esige l’isolamento di tutti, dalla culla alla bara, la sospensione della vita per difendere la vita, la pausa esistenziale per proteggere l’esistenza.

Il filosofo Massimo Cacciari, nel primo periodo epidemico, sollevò un interrogativo alquanto profondo: per difenderci dalla malattia a livello personale attenzione a non creare i presupposti per il diffondersi di malattie sociali. Si riferiva alla mancanza di lavoro con tutti i conseguenti effetti negativi facilmente immaginabili.  Il discorso si può allargare ad altri mali sociali quali la discriminazione, il razzismo etc. etc. Il primo dopoguerra ci regalò il fascismo, il secondo fu incanalato sui sentieri della democrazia ad opera dei reduci resistenziali. Sarebbe in un certo senso come sperare che il tessuto sociale devastato dalla guerra al coronavirus possa essere ricomposto dai resistenti operatori socio-sanitari impegnati nelle montagne ospedaliere dell’unica vera guerra che conta. Sono loro a tenere alta la fiaccola della solidarietà, mentre noi aspettiamo “l’arrivo degli alleati”, cioè degli scienziati che sbarchino ad Anzio col vaccino.

Oltre tutto vedo in atto una strisciante saldatura tra “ragion di Stato” e “ragion di Chiesa”. Papa Paolo VI fu bloccato davanti alla Brigate rosse, costretto ad emendare il suo appello con l’inserimento dell’espressione “senza condizioni”, che chiudeva ogni spazio residuo di trattativa: si piegò in modo sofferto al partito della rigorosa e frontale guerra al terrorismo. Papa Francesco rischia di rimanere bloccato davanti al coronavirus ed alle regole imposte per sconfiggerlo (?). Come interpretare la sua uscita stradale verso l’adorazione del Crocifisso, se non come il segno di una impossibile sfida agli schemi inglobanti e devitalizzanti del potere, pur assistenziale che sia. Papa Montini si inginocchiò di fronte ai brigatisti per chiedere pietà, papa Bergoglio si inginocchia di fronte al Crocifisso per chiedere pietà di una Chiesa così attendista, ripiegata su se stessa e incapace di incarnare la sfida all’emergenza.

C’è poco da fare, il rischio di una disgregazione sociale post coronavirus lo vedo molto alto. Non saremo più gli stessi, così si dice giustamente. Ma come saremo? Ci rialzeremo in piedi pur con le ossa rotte o rimarremo a terra sani, ma soli e disperati. E chi avrà la capacità di rialzarci? Un commissario unico alla ricostruzione senza anacronistici piani Marshall, senza un De Gasperi a ritessere i rapporti con l’Europa, senza un Palmiro Togliatti a rappresentare i senza lavoro ed i senza diritti, senza un Giorgio La Pira ad interpretare il ruolo di sindaco d’Italia e di ricercatore disperato di pace internazionale? Per oggi le farneticazioni possono terminare qui. Qualcuno penserà che l’isolamento mi stia facendo impazzire: meglio impazzire subito e da solo che collettivamente a babbo morto.

 

La certezza e il diritto di avere tanti dubbi

Il discorso della lotta contro il coronavirus parte, a detta di tutti, dalla priorità assegnabile alla difesa della salute fisica della persona. Innanzitutto però ogni persona non è un’isola, semmai insieme costituiamo un arcipelago. Quindi, la persona va vista in tutte le sue componenti esistenziali e in tutte le sue relazioni umane e sociali. Espongo di seguito i miei atroci dubbi in modo anche assai provocatorio e sconsiglio la lettura non tanto ai deboli di cuore, ma a chi non ha tanta santa pazienza. Invidio chi snocciola certezze etiche, della serie “Siamo in guerra e bisogna ubbidire alle autorità”, “Tutto può succedere in guerra”, “Anche la religione deve cedere il passo”, “Il senso di responsabilità è parte integrante della carità cristiana”. Mi permetto di mettere in discussione tutte queste perentorie affermazioni, dando libero sfogo alla mia anarchia umana e forse anche cristiana. Ecco i miei dubbi, nessuno mi può negare il sacrosanto diritto di averli e di esprimerli a costo di sembrare uno sclerotico bastian contrario. E non mi si chiedano ricette alternative immediate, perché non ne ho.

È difesa della persona isolarla per poterla curare, al punto da vietarle ogni e qualsiasi contatto con le persone della sua famiglia, al punto da lasciarla morire sola come un cane, al punto da impedirle ogni e qualsiasi corrispondenza religiosa, al punto da seppellirla anonimamente, prima in un reparto ospedaliero e poi in un cimitero? La migliore risposta me l’ha fornita un amico dopo la morte della moglie: “Caro Ennio, ti ringrazio delle tue parole di conforto, lo sapevamo che poteva succedere repentinamente, ma non poterla vedere e dirle che io l’amavo più della mia vita sarà una tristezza che mi porterò fino alla fine dei miei giorni, ciao e grazie”.

È difesa della persona spargere a piene mani un folle panico, costringendo le persone ad una sorta di quarantena indiscriminata e generalizzata, bombardandola di notizie contrastanti e di suggerimenti pedanti e contraddittori? Oltre che multare i trasgressori del coprifuoco non sarebbe il caso di multare i media che stanno facendo affari d’oro seminando zizzania in un vomitevole circo della paura? La Rai, anziché torturarci con il sacrosanto invito a rimanere in casa, non svolgerebbe meglio il suo compito di servizio pubblico cercando di offrire sane occasioni culturali, pescando il meglio nei suoi abbondanti archivi: ci aiuterebbe ad allentare la tensione e a puntare su discorsi positivi.

È difesa della persona snocciolare dati più o meno significativi in una apocalittica escalation informativa, che non serve a niente se non ad auto-elogiare lor signori, che, in realtà, brancolano nel buio più fitto e a dimostrare di avere sotto controllo una situazione che non si sa da che parte prendere e che sfugge da tutte le parti?

È difesa della persona ascoltare le vuote dissertazioni scientifiche in un dibattito surreale fra addetti ai lavori, che esibiscono soltanto ipotesi astratte per non ammettere umilmente di non avere spiegazioni e ricette plausibili? Se non sanno cosa dire, se ne stiano zitti. Sono capaci di andare sulla luna, ma mi sembra siano rimasti là.

È difesa della persona sparare provvedimenti a salve in una girandola di conferenze stampa senza riuscire ad affrontare i problemi più semplici e banali, quali la disponibilità di mascherine, la possibilità di eseguire tamponi su larga scala e la disinfestazione delle strade?

È difesa della persona incensare gli operatori sanitari (tutti vediamo che sono commoventi nella loro dedizione al limite dell’eroico e li ringraziamo) dietro i quali nascondere le falle di un sistema bello in teoria, ma precario in pratica, che si sta rivelando insufficiente a fronteggiare le emergenze? E cosa deve fare il sistema sanitario se non è capace di affrontare le emergenze? Non è forse questa la sua perpetua e continua vocazione?

È difesa della persona distruggere i rapporti sociali, desertificare il territorio, come si fa nella cura del tumore con la chemioterapia? Non c’è la sensazione che si stiano sparando cannonate alle mosche per devastanti e pericolose che siano? Non ci stiamo predisponendo ad infettarci con i virus sociali dell’egoismo, della guerra tra poveri, dell’escalation dei senza lavoro?

È difesa della persona chiudere il mondo per lavori in corso, in attesa che i progettisti dicano di quali lavori abbiamo bisogno, se sia possibile eseguirli ed a cosa possano effettivamente servire? Il mondo non lo si può fermare pena una catastrofe planetaria.

È difesa della persona confinare la comunità cristiana, la Chiesa, costringendola a “pregare in casa”, ma vietandole di fatto di esercitare il proprio mestiere, di aiutare chi è nell’estremo bisogno, lasciando al papa l’impossibile compito di garantire la libertà religiosa sospesa nel vuoto di una guerra senza nemico e senza esercito?

È difesa della persona gridare al lupo senza trovare un filo internazionale per individuarlo e combatterlo insieme? Ci si sta muovendo in ordine sparso. L’Italia sta facendo da apripista. Armiamoci e partite!

È difesa della persona quella che Vittorio Sgarbi ha definito fin dall’inizio una colossale “presa per il culo”? Se intendeva negare la gravità della situazione si è sbagliato alla grande. Se voleva stigmatizzare la presuntuosa ignoranza del comando generale, dello stato maggiore, dell’intendenza etc., forse non si è sbagliato di molto. Se immaginava lo sparpagliamento delle truppe senza guida ha mirato giusto. Se ipotizzava il casino totale che ne sarebbe uscito, gli do la patente da profeta.

A chi mi chiede come reagisco personalmente a questa situazione rispondo: senza troppa convinzione, resto in casa, leggo, prego, scrivo (finché resisterò, poi si vedrà…) e cerco di coltivare al meglio i miei sentimenti e di fare anche un po’ di autocritica. Non mi si dica, per cortesia, che questo è un modo di essere cittadini modello e financo di fare Chiesa. Il cristianesimo è l’arte dell’impossibile e non dell’accontentarsi del possibile. Ciò che stiamo facendo forse è solo un modo di fare i cazzi propri, bloccati da una paura fottuta, con l’alibi di non poter fare niente di più. Pregare, leggere, scrivere fa comunque bene e mi sta aiutando a rimodulare tanti atteggiamenti forse troppo schematici: da questa esperienza emergenziale viene infatti l’invito a volersi bene col cuore e non col buonismo, senza rinunciare al diritto di critica.  È quanto ho fatto sopra in modo implacabile.

 

 

 

 

 

 

L’arte di approcciare l’arte

Esistono due modi di intendere e vivere la cultura: l’ostentazione di una mera erudizione che punta ad apparire al di fuori della realtà; l’impegno ad approfondire il pensiero per meglio porsi di fronte alla realtà. Nel primo caso si fugge dalla realtà della vita per farne una raffinata e snobistica parodia, nel secondo caso per cultura si dovrebbe intendere quanto concorre alla formazione dell’individuo sul piano intellettuale e morale e all’acquisizione della consapevolezza del ruolo che gli compete nella società o più comunemente il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze acquisite tramite lo studio, ai fini di una specifica preparazione in uno o più campi del sapere e del vivere.

Questa premessa dovrebbe servire a cogliere il senso di due fatti di pur diversa natura e portata. Da una parte il discorso di “Parma 2020 capitale della cultura”, dall’altra parte la sospensione delle procedure culturali a causa dell’emergenza coronavirus. Cosa voglio dire? Abbiamo la tendenza a esaltarci o a deprimerci sulla base della presenza o dell’assenza della pur importantissima ritualità culturale, come se la cultura dovesse prescindere dalla realtà o prevalere su di essa, asservendola a sé invece di influenzarla positivamente.

Con tutto il rispetto per chi ha lavorato per programmare e sta lavorando per allestire i numerosi (troppi) eventi riconducibili alla celebrazione di Parma, faccio fatica a intravedere un disegno di vera crescita culturale al di là dell’enfasi sulle potenzialità parmensi. Tento di fare un esempio per spiegarmi. Cosa produce una sbornia museale? Una sorta di obbligo ad ammirare l’opera d’arte, ma non serve a creare nella gente la capacità di porsi di fronte all’opera d’arte per cavarne un messaggio veramente culturale.

Durante la mia lunga e bella esperienza all’interno della commissione teatrale del Regio di Parma ebbi l’occasione di incrociare episodicamente il professor Luigi Magnani, noto critico d’arte. Avevamo programmato un’insistita incursione nelle opere del cosiddetto “primo Verdi”: pensavamo di fare un’operazione culturale interessante proponendo al pubblico il Verdi minore, tutto da scoprire nelle sue affascinanti premesse alla produzione musicale matura. Mi gelò il sangue, complimentandosi ironicamente per queste scelte d’avanguardia, annotando acutamente, come stessimo portando acqua al mulino della genericità e superficialità critica. Disse fuori dai denti (cito a senso): «Andrà a finire al Regio come spesso succede nei musei: il superficiale visitatore di pinacoteche si sofferma a lungo davanti ad un quadro “di scuola” e passa velocemente oltre davanti al capolavoro. Grave sintomo di impreparazione ed incompetenza, ma anche e soprattutto di carenza educativa in materia artistica».

Faccio un secondo esempio per il coronavirus: è certo molto negativo che l’educazione artistica subisca una brusca sforbiciata a causa delle concomitanti proibizioni delle gite scolastiche e chiusura dei musei al pubblico. Ma siamo proprio sicuri che sia un disastro? Cerchiamo di essere (pro)positivi. Perché non pensare di rimettere in circolo le risorse forzatamente risparmiate, promuovendo qualche corsetto extra-curriculare in cui insegnare l’arte di approcciare l’arte. Lo si fa, se non erro, nelle università degli anziani. Le agenzie turistiche non ne saranno immediatamente soddisfatte o rimborsate, ma alla lunga il turismo troverà comunque un alimento più nutriente e sostanzioso e soprattutto i giovani ne ricaveranno qualche utile elemento di formazione culturale in progress.

A volte tutto il mal non vien per nuocere: il discorso può valere per lanciare lo smart working, che viene tradotto come “lavoro agile” e consiste nel poter lavorare da casa. Nel resto d’Europa è una pratica consolidata ma in Italia, anche se ne sentiamo parlare ormai da anni, solo meno del 5% dei lavoratori può affermare di poter lavorare davvero da casa. La nuova emergenza sanitaria ha portato il tema in prima pagina e ha legittimato e instaurato uno smart working de facto che sta salvando numerose imprese del Settentrione. Non potrebbe succedere così anche per una sorta di “smart making culture”. Pensiamoci…

 

Fantasia, scienza e fede

La fantasia non manca: nei momenti difficili può servire a trovare inedite soluzioni ai problemi emergenti, ma può anche essere occasione per evadere dalla realtà alla ricerca di fuorvianti e pericolose spiegazioni. In materia di coronavirus ne stanno circolando due di carattere dietrologico. Siamo ad un mix fra film dell’orrore e film di fantascienza. Le ho prese superficialmente, amaramente e provocatoriamente in considerazione solo perché partono da un dato eticamente e politicamente estremo, ma interessante e paradossalmente plausibile: il fine giustifica il virus.

Non sto impazzendo di coronavirus, sto solo spostando il discorso sui massimi sistemi, consapevole dei rischi, ma altrettanto desideroso di guardare oltre il naso dell’emergenza. Si sa che la guerra ha un suo volto di carattere batteriologico: le grandi potenze hanno laboratori impegnati a predisporre armi chimiche distruttive. Sono già state utilizzate e non si può escludere che lo siano anche in futuro. Quando si scherza col fuoco ci si può anche scottare e, secondo qualcuno, il coronavirus potrebbe essere una devastante scottatura. Dice un noto aforisma di Pietro Metastasio: “Voce dal sen sfuggita poi richiamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì”. Se vale per le parole, figuriamoci se non può valere per i virus.

Il coronavirus quale tragico incidente di percorso, tanto come succede per le fughe di radioattività dalle centrali nucleari. Un clamoroso autogol cinese. C’è però una versione ben più maligna: non si tratterebbe di un pazzesco errore, ma di una scelta estrema contro qualcuno: nel caso specifico contro la Cina che sta spadroneggiando nel mondo. Quindi un attacco batteriologico in piena regola contro lo strapotere cinese. Ad opera di chi? Non c’è che l’imbarazzo della scelta: in molti avrebbero il movente per un simile delitto. Insomma il virus verrebbe da un laboratorio o per un tragico e fatale errore o per una apocalittica scelta bellicosa.

C’è poi una versione leggermente diversa non tanto all’origine ma negli effetti: il virus quale arma per mantenere il controllo sulla società da parte del regime cinese. Una bestiale macchinazione di spaventosa autodifesa di un assetto post-comunista, forte ma sempre fortemente in bilico e quindi bisognoso di cure preventive a livello di paura e panico.

Altra fantasiosa e farneticante ricostruzione pseudo-filosofica riguarderebbe l’invenzione del contagio criminalmente utilizzato da media e governi per imporre eccezionali misure di emergenza, forse per passare dalla globalizzazione di un mondo contaminato alla riscoperta dei sani orti nazionalistici. Tesi deliranti anche se affascinanti, da cui non è poi così facile difendersi.

Alla impura fantasia dovrebbe rispondere il sapere, la difesa dovrebbe consistere nella scienza e qui andiamo nel difficile. Sì, perché la scienza offre relativi strumenti di contrasto al periodico incalzare dei virus, ma non ne trova l’origine, se non in una provocatoria e generica denuncia della suicida opera dell’uomo volta alla distruzione degli ecosistemi. La vendetta della natura contro chi da tempo la sta disturbando e distruggendo. Se fosse così, e sicuramente almeno in parte lo è, per rimettere a posto le cose dopo secoli distruttivi occorreranno secoli costruttivi. Il problema di fondo sarà che mentre la distruzione dà immediati anche se illusori benefici, la ricostruzione lascia intravedere benefici in tempi lunghissimi e sacrifici a breve termine.

La scienza aiuta, ma non può risolvere. Dipende infatti da chi la maneggia. Stiamo aspettando con ansia un vaccino contro il coronavirus: arriverà, se non altro per la concorrenza che si stanno facendo i diversi centri di ricerca e le case farmaceutiche. Passato il virus, gabbato il proposito di cambiare indirizzo. Poi magari arriverà ciclicamente un’altra pandemia e giù a batterci il petto e a scervellarci per trovare un rimedio. Disastro dal sen sfuggito poi richiamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì.

Anche se non trovo contrasto ed incompatibilità tra scienza e fede (mancherebbe altro!), pur con tutto il rispetto per i ricercatori e tutta l’ammirazione e la gratitudine per chi combatte sul campo (è il dato umano più confortante), in questi giorni, a livello di massimi sistemi, preferisco avere fiducia soprattutto in Dio, facendo riferimento al Vangelo e all’episodio della tempesta sedata. Gesù dorme e gli apostoli in barca con lui se la vedono brutta in mezzo ad un’autentica bufera. Lo svegliano e gli dicono in preda al panico: “Maestro, non ti importa che moriamo?”.  Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». Forse abbiamo l’impressione che Dio si stia disinteressando di noi: anche a costo di fare brutta figura gridiamo anche noi: “Non ti importa che moriamo o che la nostra vita sia comunque sconvolta?”. Qualcosa ci risponderà. Ci crediamo forti e indipendenti e siamo tanto deboli e condizionati. E Lui, pur rassicurandoci di non volerci punire, aggiungerà: “Se non vi convertite perirete tutti”.

La drammatica difficoltà del buon samaritano

Oggi il commento ai fatti del giorno si mescola alla riflessione religiosa in un mix drammatico e angosciante. Ho letto quanto scrive Enzo Bianchi davanti alla paralisi ecclesiale conseguente alle disposizioni comportamentali per arginare il dilagante virus. Da una parte l’obbligo civile di rispettare le regole imposte dalle autorità per il bene comune, dall’altra l’imperativo di continuare ad essere, come comunità cristiana, vicini ai fratelli che soffrono e muoiono.

È angosciante pensare ai malati confinati, nella migliore delle ipotesi, nel proprio appartamento o addirittura in una stanza della propria abitazione, ben peggio in una camera ospedaliera, o peggio ancora in un letto di un reparto di terapia intensiva o peggio ancora in una solitaria agonia. La solitudine è rotta dalla presenza dell’eroico personale ospedaliero, costretto ad un lavoro massacrante, a rischiare la pelle per aiutare i malati, a vederli morire, a fare scelte terapeutiche probabilmente drammatiche e paradossali.

L’isolamento riguarda e paralizza i rapporti umani con i propri famigliari, con i propri amici ed anche con la comunità cristiana di appartenenza. Quanti fratelli e quante sorelle sono morti e stanno morendo senza nemmeno “un cane che gli lecchi le ferite”, ancor più soli del povero Lazzaro, senza il conforto delle persone amate, senza il viatico sacramentale, senza un sacerdote che li assolva dai peccati, senza qualcuno che li accompagni nell’ultimo viaggio, persino senza un rito esequiale dopo la morte. Ho pensato a questo e ne sono rimasto letteralmente sconvolto. È il più brutto aspetto di questa tremenda epidemia.

Il paradosso è che la società civile riesce a fare qualcosa tramite le sue strutture pur insufficienti e i suoi operatori pur limitati, mentre la comunità cristiana, la Chiesa, rischia di “pregare in casa”, ma di non aiutare chi è nell’estremo bisogno. Paradossalmente è costretta (?) ad una nuova modalità da buon (?) samaritano: stare dall’altra parte della strada, guardare in lontananza, impietosirsi, pregare, ma non accostare, non soccorrere, non farsi carico.

Sinceramente non so se sia richiesto, ai pastori, cioè ai sacerdoti, e ai cristiani che si professano tali, di essere eroicamente a fianco di chi muore a costo di violare i protocolli sanitari e fino al punto di mettere a rischio la propria e l’altrui vita. Certo, Gesù toccava i lebbrosi e li guariva toccandoli e non in lontananza. Forse al mistero della sofferenza si sta sovrapponendo il mistero della carità verso i sofferenti.

Papa Francesco mai come in questo momento è punto di riferimento, capace di esprimere tenerezza e sensibilità umana accompagnata da una limpida visione evangelica: guardando a lui ci sentiamo tutti meno soli, in lui scorgiamo la vicinanza di Dio, la sua presenza orante ai piedi del crocifisso ci rende più sicuri e fiduciosi. Lui ha usato il termine “fantasia” e ha lasciato intendere la necessità del “coraggio”, per invitare i pastori e le loro comunità a non rassegnarsi all’isolamento: diversi stupendi esempi stanno emergendo anche nelle aree più a rischio. Forse è la fine ingloriosa della Chiesa tradizionale e dogmatica ed è l’inizio speranzoso di quella ruspante e calda, che dalle frontiere potrà contaminare e riscaldare il freddo centro istituzionale e gerarchico.

 

Metti un Draghi nel motore

In questi giorni le conversazioni telefoniche diventano ancor più numerose, intense e profonde. Durante una di questa, un colloquio a trecentosessanta gradi con un mio cugino/fratello, ho affrontato, assieme al mio interlocutore, il problema del futuro politico di Mario Draghi.

In uno degli ultimi commenti ai fatti del giorno mi sono permesso di mettere il dito nella piaga della mancanza di leader a livello della politica italiana. Il discorso può essere tranquillamente esteso al mondo intero: checché se ne dica, l’unico vero leader protagonista a tutti gli effetti sulla scena di questo mondo è attualmente papa Francesco. Ce ne stiamo accorgendo. Oggi però non desidero fare uno stucchevole panegirico del Papa, anche perché la sua leadership è talmente evidente da non aver bisogno di sottolineature.

Nel popoloso deserto che chiamiamo politica italiana può avere ancora un ruolo Mario Draghi? Come mai è così defilato e invisibile? Ho provato a ragionarci sopra. Innanzitutto, dopo le estenuanti fatiche europee, avrà pure il diritto di riposarsi, di staccare la spina, di dedicarsi alla famiglia e ai suoi interessi. Il suo carattere schivo ed il suo modo di essere discreto lo stanno mettendo nell’ombra, ma ciò non vuol dire nel dimenticatoio. Sta peraltro dimostrando grande classe nel rimanere fin troppo silenzioso e anche nel non esprimere giudizi sul suo criticatissimo successore alla Bce: le sue riflessioni critiche penso le riserverà sicuramente ai colloqui riservati con le massime cariche dello Stato, che lo vorranno interpellare sul futuro dell’economia in questo drammatico momento.

Nessuno penso osi negare come Mario Draghi rappresenti una risorsa disponibile per il nostro Paese: la sua preparazione, la sua esperienza, il suo stile, la sua competenza non possono andare perduti. E allora, senza cadere nel giochino di chi lo vuol bruciare sparando il suo nome a vanvera ovvero inserendolo nei propri disegni di bassa strategia politica, come potrebbe Draghi continuare ad essere utile all’Italia e all’Europa? Azzardo due ipotesi, la prima di carattere istituzionale, la seconda di tipo governativo.

Draghi potrebbe essere il degno successore di Sergio Mattarella. Se l’attuale presidente della Repubblica ha svolto e sta svolgendo un ruolo unificante per la gente e di equilibrio per la politica, Draghi al Quirinale potrebbe connotare la presidenza di una spinta socio-economica necessaria come il pane. Sull’economia si gioca sempre una partita fondamentale, ma nei prossimi anni probabilmente la partita sarà ancor più necessaria, dura e coraggiosa: lui la potrebbe impostare al meglio senza improprie invasioni di campo, ma imprimendo orientamenti fondamentali alla nostra repubblica.

Una seconda ipotesi potrebbe vederlo non tanto a capo del governo, ma alla responsabilità di ministro plenipotenziario all’economia. Guardando all’attuale governo, pur con il massimo rispetto per Giuseppe Conte e per Roberto Gualtieri, si nota una certa debolezza nel manico economico: questa debolezza potrebbe accentuarsi con l’evoluzione immaginabile nella situazione economico-finanziaria nazionale, europea e mondiale. Da una parte la necessità di ricostruire il tessuto economico nel dopo-coronavirus, dall’altra il bisogno di rilanciare il patto europeo su basi coraggiose di sviluppo, dall’altra ancora la prospettiva di riacquistare un ruolo importante a livello mondiale. Non faccio l’indovino, ma penso ad un equilibrio nella compagine governativa simile a quello che avvenne tra Prodi e Ciampi e che ci consentì di entrare nell’Euro con grande dignità e convinzione. Massimo D’Azeglio durante il Risorgimento disse: “Abbiamo fatto l’Italia, adesso facciamo gli italiani”. Un compito tuttora in sospeso. Mario Draghi potrebbe dire: abbiamo fatto l’Europa, adesso la dobbiamo rifare molto meglio, dobbiamo riformarla e rilanciarla alla grande, facendo sentire tutti cittadini europei. Sono sicuro che Draghi creda in una simile prospettiva. Dio voglia che possa esserne protagonista con le maggiori responsabilità possibili.

 

Le carte truccate dell’Europa disunita

Mentre a livello nazionale l’emergenza coronavirus sta comportando una importante anche se relativa catena di solidarietà, a livello europeo stanno emergendo le solite differenze e divergenze tra i diversi Paesi. Nel raffronto tra le cifre dell’epidemia si riscontrano degli sbalzi tali da insospettire: l’incidenza del numero dei decessi su quello dei contagiati vede percentuali molto distanti, tali da far pensare che in questa macabra contabilità in Italia si usi un criterio molto più corretto rispetto alle altre nazioni. Nel nostro Paese infatti vengono fatte risalire al coronavirus anche le morti intervenute su soggetti afflitti da altre croniche e gravi patologie; negli altri Stati probabilmente non è così e il coronavirus viene considerato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Anche sul numero dei contagiati insorgono non poche perplessità: già questa quota non tiene conto degli asintomatici, ma soprattutto tiene conto solo dei casi accertati, quindi, se si effettuano meno tamponi e quindi meno controlli, come sembra stia avvenendo negli altri Paesi europei, è ovvio che risulti inferiore la triste quote delle persone colpite dal virus.

Di conseguenza le politiche governative adottate nel resto d’Europa risultano assai più blande e morbide rispetto a quelle adottate in Italia. È pur vero che da noi si è arrivati solo gradualmente a misure rigide, ma la situazione non è mai stata presa sotto gamba. Si poteva intervenire ancor più sbrigativamente, ma nelle prime fasi dell’epidemia, si era condizionati dal rischio di danneggiare fortemente l’andamento economico e quindi si è cercato un difficile equilibrio tra la difesa della salute e la difesa del posto di lavoro. Strada facendo si è capito che bisognava dare priorità assoluta alla guerra contro il contagio a prescindere dagli effetti devastanti sull’economia: prima arginare l’alluvione e poi fare i conti con i danni arrecati.

In secondo luogo emettere immediatamente provvedimenti duri avrebbe creato delle reazioni altrettanto dure al limite della insofferenza nei cittadini, abituati ad un regime di vita libero ed autonomo: non siamo in Cina, dove il regime si può permettere linee di azione cogenti e riesce a mettere in atto meccanismi “persuasivi” molto efficaci. Quindi è stata scelta ed è tuttora in vigore una linea gradualista sempre più rigida e coinvolgente.

Sentivo nei dibattiti, peraltro non sempre utili e seri, che in Francia la cittadinanza sarebbe addirittura ben più allarmata delle pubbliche autorità ed avrebbe spontaneamente adottato comportamenti improntati a grande cautela e rigore. Questo probabilmente sta succedendo anche negli altri Paesi europei: non si capisce se si vogliano evitare allarmismi, preoccupazione ormai purtroppo superata dagli eventi, se si intenda assurdamente fare i primi della classe anche in questa materia o se si desideri difendere un’immagine a scapito della sostanza dell’enorme problema.

L’Unione europea, che mai come in questo caso dovrebbe funzionare da stanza di compensazione e da meccanismo di collaborazione, sta facendo cilecca, non solo e non tanto per le incaute uscite della sua più alta autorità monetaria, ma per la solita sfilacciata e finta concordia: non si vede una netta presa di posizione delle istituzioni europee seguita da gesti ed atti concreti a sostegno di una politica comune contro la pandemia. Si fa, sì e no, il minimo indispensabile, attenti a non disturbare e a non urtare la suscettibilità di nessuno, mentre occorrerebbe rimboccarsi le maniche in tutti i sensi, mandando finalmente in soffitta il rigorismo per aprire una fase nuova di difesa comune e di ripresa solidale.

In Italia, manco a farlo apposta, stanno riprendendo fiato l’antieuropeismo e l’euroscetticismo: forse qualcuno non aspettava altro che di fare il grillo parlante nei confronti dell’Europa unita. Ripiegare sul sovranismo sarebbe oltremodo delinquenziale in questa situazione gravissima e difficilissima. Anche la sfida del coronavirus non si vince da soli: mettiamo tutti le carte in tavola e giochiamo pulito. Questa è l’unica strada plausibile, possibile e utile.

 

 

 

Un Papa fatto in casa

Papa Francesco ha sette anni. Li dimostra? Mantiene tuttora la freschezza della ventata con cui ci ha inondato la sera del 13 marzo 2013. Ha operato tanti cambiamenti nella mentalità della comunità ecclesiale più che nella Chiesa-istituzione. Ha fatto una cosa molto semplice: ha preso in mano il Vangelo ed ha cominciato a declinarlo nelle situazioni mondane al di fuori della Chiesa e nelle situazioni interne ad essa. Il percorso tipico dei Santi, san Francesco in particolare, che prendevano sul serio il messaggio evangelico, senza se e senza ma, e cercavano di incarnarlo nella loro vita.

È partito con una espressione laica e banale: buona sera. Da un papa ci si sarebbe aspettato un clericale “Sia lodato Gesù Cristo”, invece: “Cari fratelli e sorelle…buonasera”. Era l’inizio di un’epoca, si è capito subito che qualcosa di grosso era stato messo in pentola.  Erano talmente tanti i desideri e le aspettative di novità che strada facendo è spuntata qualche delusione: era umanamente ed ecclesialmente inevitabile. Tra l’altro si fa molto in fretta a dimenticare i passi avanti con l’ansia di andare sempre più avanti. E poi, non è tipico aspettarsi tutto da chi promette molto ed accontentarsi del nulla di chi promette poco? Anch’io avrei voluto e vorrei qualcosa di più in tanti campi, soprattutto in quello della morale sessuale, anche se questa morale, considerati i ritardi centenari della Chiesa, me la sono costruita in proprio senza aspettare i pronunciamenti papali. Devo ammettere comunque che è cambiata l’aria che tira, si respira meglio all’interno della Chiesa, ci si vede meglio fuori dalla Chiesa. Si respira Vangelo a pieni polmoni, si vedono con chiarezza i bisogni dei poveri del mondo.

La mattina del 13 marzo 2020 ho seguito in televisione la celebrazione della messa di papa Francesco a casa santa Marta. Dopo l’offertorio, un ministrante si è avvicinato all’altare per il “lavabo”: il papa dopo essersi brevemente sciacquate le dita ha sussurrato (almeno così mi è parso di capire) un “grazie”. Fatto insolito per gli ingessati riti degli ambienti vaticani, ma anche per tutte le chiese, laddove sembra che la messa debba essere celebrata a prescindere dalla nostra quotidiana umanità.   Dopo sette anni dal richiamato “buona sera” al semplice “grazie”. Il genio della semplicità nei modi, ereditato da papa Giovanni XXIII. Se guardiamo invece al contenuto delle riforme avviate su base conciliare, dobbiamo ripensare a papa Paolo VI.

Sul volto di papa Francesco, oltre il normale invecchiamento dovuto all’età, si scorgono i segni di una fatica improba nel condurre ad unità una Chiesa in parte a lui contraria e ostile. Come Gesù, non profetizza in patria e qualcuno forse lo vorrebbe far fuori dal punto di vista culturale e pastorale. Mi fa tanta tenerezza con quel suo stile semplice e profondo, mi fa tanta paura che possa essere disturbato e tacitato. Stiano però ben attenti i suoi detrattori perché le sue parole non si potranno facilmente dimenticare, stanno lasciando un segno indelebile nelle coscienze di tutti, cristiani e non, credenti e non. E poi, non dimentichiamoci di pregare per lui.

Don Abbondio in Bce

Il mio medico di famiglia, al quale non sarò mai sufficientemente grato per lo spirito di dedizione dimostrato nella cura a me e soprattutto ai miei genitori anziani e molto ammalati, sosteneva, in ossequio agli insegnamenti ricevuti da suo padre pure medico e dai suoi maestri a livelli universitario, che, di fronte anche alla più grave e disperante malattia, non si può e non si deve mai pensare e dire che non c’è niente da fare, c’è sempre qualcosa da fare. Non a caso sua madre, tra il serio e il faceto, definiva il figlio paradossalmente come il medico che non voleva che i propri malati morissero. Atteggiamento esemplare e ammirevole.

Da quanto ho letto nei resoconti di cronaca economica, sembra che Christine Lagarde, presidente della Bce, sia entrata nel negozio di cristalleria europeo contagiato dal coronavirus non con la delicatezza di un elefante, ma ancor peggio, vale a dire con l’incertezza di un pivello o, ancor meglio, con un coraggio alla don Abbondio. «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire queste questioni»: queste le sue parole nel pieno dell’emergenza, che hanno sollevato il polverone e hanno dato una ulteriore botta in testa alle borse già stordite dalla difficilissima situazione economica conseguente alla pandemia in atto. In parole povere: la Bce non può fare niente.

Nessuno pretende la bacchetta magica, ma che la Banca centrale europea non possa fare niente per riequilibrare la situazione finanziaria nelle quotazioni dei titoli di stato dei paesi europei è affermazione grave, irresponsabile e pilatesca.  L’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale in conferenza stampa è riuscito a fare affondare i titoli di Stato italiani ed a fare esplodere lo spread. Le dichiarazioni sopra citate rappresentano l’opposto del draghiano “Whatever it takes” (Credetemi sarà abbastanza) del 2012 quando la Bce si dimostrò pronta a fare tutto il necessario per preservare l’Euro.

Come spiega il Corriere della Sera, i rendimenti dei titoli di Stato italiani sono esplosi dall’1,22% sulle scadenze decennali delle 14:42 fino a un picco dell’1,88% alla fine della conferenza della Lagarde. La presidente Bce ha sostanzialmente detto: non aspettatevi Mario Draghi. Lo ha ammesso: “Avevo detto che speravo di non dover mai fare un ‘whatever it takes’ e non intendo passare alla storia per un ‘whatever it takes due’”. Non era ciò che i mercati si attendevano, non è riuscita per nulla a convincerli di avere il controllo della situazione. Le misure annunciate hanno deluso. Le aspettative dei mercati per le mosse della Banca Centrale Europea sotto la guida Lagarde all’alba di una nuova crisi come quella del 2008 sono state ampiamente disattese, quasi ignorate a guardare l’andamento dei principali listini del Vecchio Continente. Il pacchetto di misure annunciato da Lagarde è stato valutato gravemente insufficiente: un Quantitative Easing aggiuntivo da 120 miliardi in tutto, poco più di 13 miliardi al mese (in media) rispetto al minimo sindacale atteso, i 20 miliardi aggiuntivi a quelli già previsti; tassi che restano fermi, e poi nuove aste per immettere liquidità nel sistema bancario e condizioni più favorevoli per i prestiti mirati alle banche dell’eurozona.

Non sono in grado di affrontare i tecnicismi di funzionamento della Bce, ma resto perplesso dall’atteggiamento del successore di Draghi. Forse ci eravamo abituati “male”, con un governatore centrale che credeva all’Europa e interveniva con garbo, ma con altrettanta decisione a sostegno dell’economia europea. Coloro che si stanno stracciando le vesti e chiedono le dimissioni della Lagarde, dovrebbero però fare un profondo esame di coscienza dal momento che in passato misero in non poco imbarazzo Mario Draghi con attacchi sconsiderati e masochistici. Forse lo andrebbero a riprendere in ginocchio col capo cosparso di cenere.

L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione. È quanto afferma una nota del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che, come ben si sa, non sbaglia un colpo.

Il contagio economico che si è esteso alle borse europee fortunatamente starebbe per indurre la Ue a sospendere di fatto il patto di stabilità: la Commissione europea sarebbe pronta a utilizzare la clausola anticrisi 1466/97 sulla sorveglianza dei bilanci che di fatto sospende gli aggiustamenti di bilancio in caso di grave contrazione dell’economia. Dal canto suo la Fed, reagendo a un nuovo crollo di Wall Street, ha annunciato un’iniezione di liquidità di 1500 miliardi nei prossimi giorni. Risultano quindi oltre modo censurabili la presa di posizione e la tattica attendista della Bce. Non voglio scaricare la tensione su Christine Lagarde “promuovendola” a capro espiatorio, ma non posso evitare di rifugiarmi nel noto proverbio secondo il quale “le disgrazie non vengono mai da sole”. Facesse un corso accelerato on line con Mario Draghi: sono sicuro che con delicatezza e serietà le farebbe notare come sia squallido mettersi semplicemente al coperto e come qualcosa di utile si possa fare in mezzo alla bufera dei mercati. Provarci almeno è d’obbligo.

 

Leader carismatico cercasi

Un tempo, quando, durante una discussione che stava prendendo una brutta piega, si voleva cambiare discorso, le persone, affette da schifoso maschilismo, lanciavano l’idea di mettersi a parlare di donne (in che senso lo lascio immaginare). Oggi, affetto da penoso politicismo, provo timidamente a parlare di politica, per due intuibili motivi: per staccare un attimo dalla ossessiva cappa virale che ci opprime e perché la politica non è evasione, ma attenzione a tutto e tutti.

Intenzioni di voto: si accorciano le distanze fra il Partito democratico e la Lega. Secondo l’ultimo sondaggio di Ixè per il programma Cartabianca su Rai Tre, il partito di Nicola Zingaretti è in rimonta, distanziato di soli 4 punti e mezzo da quello di Matteo Salvini. Rispetto alla precedente fotografia, la Lega risulta infatti in calo al 27%, mentre il Pd guadagna mezzo punto e sale al 22,4%. In discesa anche il M5S, al 15,6%. Fratelli d’Italia rimane stabile al 13,4%, Forza Italia in calo al 6,1% così come Italia Viva di Matteo Renzi al 2,6%.

Quanto al grado di fiducia degli italiani nei leader, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte resta saldamente in testa e cresce di due punti rispetto al precedente sondaggio (42%), seguito dalla leader di Fdi Giorgia Meloni che sale al 34%, Salvini stabile al 31%, Zingaretti recupera un punto e sale al 29%. Luigi Di Maio è fermo al 22%. Renzi guadagna un punto e si attesta al 13%, così come Berlusconi che dal 18 arriva al 19%.

Piccoli spostamenti, talora quasi impercettibili, che meritano tuttavia un seppur timido commento. Si va verso un bipolarismo? A destra sembra proprio di sì: Lega, FdI e Forza Italia arrivano al 46,5% e non è poco; a sinistra il discorso è molto più problematico, ma volendo semplificare, includendo il pur riottoso M5S e l’indisponente Renzi, si arriva ad un 48% e non è poco. La partita quindi sembra aperta, nonostante le sbruffonate salviniane e le smanie meloniane. Penso sia sovrastimato il 15/16% dei pentastellati, anche se ultimamente si fanno notare per una certa qual ragionevolezza di governo che fa a pugni con la sguaiatezza di piazza.

Molto più strampalato è il discorso dei cosiddetti leader e il sondaggio assume la natura di un gioco di società (forse sarebbe meglio chiedere addirittura agli intervistati chi vorrebbero buttare giù dalla fatidica torre). I leader non ci sono e, se ci sono, non li vedo. Con tutti i suoi imperdonabili difetti, Berlusconi era un leader. Salvini e Meloni, come leader mi fanno scappare da ridere (o da piangere). Il Pd, dopo la breve e strana parentesi renziana, è alla ricerca di un personaggio di riferimento che sappia rimotivare e rimodulare la sinistra italiana. Pur con tutto il rispetto non ritengo Nicola Zingaretti all’altezza di un tale compito. Sul M5S il discorso è di livello assai più elementare: sono alla ricerca di loro stessi, dopo essersi rapidamente smarriti. Renzi, se mai aveva qualche residua chance leaderistica, se la è sbrigativamente e scriteriatamente giocata con la sciagurata mossa scissionista.

In questo vuoto pneumatico di personaggi in quota, Giuseppe Conte finisce col giganteggiare e la gente lo ha capito. Tuttavia, se gli togliamo la testata d’angolo di Mattarella, la volubile stima conquistata nei rapporti internazionali, la considerazione goduta negli ambienti dalla gerarchia cattolica, resta poco: Conte non brilla di luce propria, anche se faranno molta fatica a toglierlo di mezzo e mi riferisco sia agli avversari che agli alleati. I leader non si inventano, non si improvvisano, li dovrebbero forgiare la storia e la cultura. I due leader degli ultimi decenni, Berlusconi e Prodi, sono stati seppure in diverso modo, improvvisati. Berlusconi sta facendo una bruttissima fine al di là dei suoi enormi demeriti. Prodi è stato diabolicamente bruciato sul rogo dell’elezione a presidente della Repubblica: è diventato un pallido notabile. O la politica ritrova una sua dimensione forte o è costretta a vivacchiare senza identità e senza leader. Speriamo bene.