Ossigeno e diete

Al vescovo di Bergamo, la diocesi più colpita dal coronavirus, monsignor Francesco Beschi, è stata posta la domanda sui bisogni delle persone in conseguenza della drammatica situazione in cui sono inserite. In modo laicamente cristiano e cristianamente laico ha sintetizzato la sua analisi nel bisogno di “ossigeno”. Ossigeno in senso fisiologico per i polmoni dei malati curati all’ospedale o in casa; ossigeno nella vita civile, nelle relazioni umane e sociali, nell’economia; ossigeno per l’anima, per i sentimenti interiori e per poter sperare nonostante tutto. Anche uno dei suoi interlocutori, nel dibattito a “otto e mezzo” sull’emittente privata la Sette, Beppe Severgnini, autorevole e brillante giornalista lombardo, la regione clamorosamente e disgraziatamente colpita dal virus, ha parlato di più empatia e meno numeri, di più fiducia e meno bollettini di guerra, di più coraggio e meno rassegnazione.

Sono perfettamente d’accordo su questi bisogni da declinare a livello personale, comunitario, sociale e politico. In questa fase dobbiamo respirare nel corpo (curando al meglio i malati e organizzando al meglio le difese a livello immunitario e sociale) e nell’anima (aprendo i cuori alla solidarietà, alla condivisione, ai migliori sentimenti, alla speranza e costruzione del futuro).

Quando saremo fuori, in tutto o in parte, dall’emergenza, di cosa avremo bisogno? Provo anch’io a sintetizzare con una parola: avremo bisogno di “diete”. Alcune saranno purtroppo imposte in senso proprio dalla miseria e dalla fame che si scateneranno. Altre dovranno essere scelte in senso figurato, ma ugualmente scomodo ed incisivo. Ne elenco di seguito alcune.

Dieta da parte dei pochi che detengono la stragrande maggioranza dei beni, che dovrebbero metterli a disposizione dei molti che soffrono e soffriranno ancor di più; dieta da parte di coloro che puntano al lusso sfrenato e al consumismo spietato, non per chiudere tutti in un’economia di prima necessità, ma per puntare sui bisogni che fanno crescere anche culturalmente e socialmente la comunità: la salvaguardia del territorio, la difesa ambientale, l’ecologia, l’equilibrio degli ecosistemi, la valorizzazione del patrimonio naturalistico ed artistico, l’istruzione permanente, la ricerca scientifica, il miglioramento del sistema socio- sanitario ed assistenziale; dieta di chi lavora nel campo dello spettacolo per abbattere cachet favolosi, che gridano vendetta al cospetto di Dio e degli uomini, abbandonando criteri meramente economicistici e di mercato; dieta nel mondo dello sport con la moralizzazione dei compensi a chi opera in esso, con la potatura e la razionalizzazione delle strutture, degli eventi sportivi e di tutto ciò che vi ruota intorno; dieta nel mondo dell’informazione e dei media, e Dio sa quanto ce ne sia bisogno, non per coartare le libertà di stampa e di conoscenza, ma per sgrossare il circo mediatico fine a se stesso; dieta nel mondo della politica e delle istituzioni, non per impoverire la democrazia, ma per valorizzarla e renderla funzionante e funzionale ai bisogni della gente; dieta nel mondo della Chiesa e delle religioni, per applicare finalmente criteri di equità, giustizia e solidarietà a cominciare da chi predica e crede in questi principi.

Si potrebbe continuare, ma non è il caso di parlare troppo di corda in casa dell’impiccato, anche se la corda non serve ad impiccare nessuno, ma dovrebbe servire a legare i sacchi e a far star meglio tutti.  Si dovranno spendere ed investire enormi risorse pubbliche e private, ma i soldi, senza diete rigoristiche e monetaristiche e con tabelle nutrizionali sviluppiste, non andranno buttati a vanvera e finalizzati non tanto a ricostituire meramente quanto vi era in precedenza, bensì a rifare un modello di società, che superi la pura acquiescenza al liberismo economico, all’economia di mercato, alle privatizzazioni tout court, alla mentalità efficientistica, arrivistica e competitiva a tutti i costi. Le diete alimentari dovrebbero servire a stare meglio, anche se inizialmente fanno soffrire per i sacrifici che impongono. Parlare di sacrifici in un momento in cui siamo tutti sacrificati al massimo, sembra un paradosso, eppure…

 

Presto e bene devono stare insieme

Credo che la luna di miele della gente col governo stia per finire. I segnali che capto dalla “mia prigione” vanno in tal senso. Provvedimenti adottati col contagocce, moduli a go-go, stanziamenti grossi in assoluto ma piccoli in relazione alla problematica da affrontare, tempi troppo lunghi, mascherine che stanno diventando una macabra telenovela, certo qual scollamento tra le esigenze pubbliche della periferia e le risposte che (non) arrivano dal centro, confusione crescente dovuta a incertezze che sono peggio delle brutte certezze,  insofferenza montante verso un quadro normativo di cui non si riesce a trovare il filo.

La situazione non è difficile, è difficilissima al limite dell’impossibile, ma proprio per questo occorre essere concreti e precisi. Si ha invece la sensazione che anziché affrontare i problemi si stia rincorrendoli. Siamo partiti dallo stucchevole presupposto del “prima le persone rispetto ai problemi economici”: va bene, anche se le persone sono toccate dalla malattia ma anche dalle serie prospettive di “miseria”. Ora è stato introdotto un altro criterio di priorità: prima il rilancio dell’economia rispetto ai parametri di bilancio. Su questo discorso Mario Draghi ha dato autorevolmente un inequivocabile “la”: non è poco!

Tutta la vicenda ha però l’imprescindibile esigenza di adottare tempi strettissimi per le decisioni e per la loro esecuzione: non perdono tempo i medici e gli infermieri negli ospedali, non possono perdere tempo i detentori dei pubblici poteri in materia socio-sanitaria ed economico-finanziaria. Devo ammettere che su questo piano il leader leghista Matteo Salvini (che peraltro farebbe molto bene a pensare ai suoi svarioni culturali, ai suoi strafalcioni etici, ai suoi atti e gesti inqualificabili,  ai suoi miserevoli calcoli politici) non ha torto quando critica il passo lento e felpato del governo. Occorre darsi una mossa, prima che sia troppo tardi. Devono circolare quattrini e non moduli. Il capo della polizia può dire quel che vuole, ma sfornare in pochi giorni quattro diversi moduli, per accompagnare e giustificare le uscite indispensabili da casa, è una colossale “presa per il culo” (chiedo scusa ma la realtà è questa!). A forza di stampare moduli e cestinarli ho ormai esaurito la cartuccia dell’inchiostro e come faccio a uscire per andarne a comprarne una nuova?

Sinceramente non vedo quel fervore d’iniziativa e di presenza sul pezzo che mi sarei aspettato: speriamo che il Presidente della Repubblica non sia costretto ad entrare a gamba tesa, così come fece Sandro Pertini in occasione dei colpevoli ritardi nei soccorsi per il terremoto dell’Irpinia del 1980. Capisco lo smarrimento iniziale, capisco le titubanze nell’adottare provvedimenti drastici e dolorosi, comprendo gli errori di fronte ad una situazione completamente nuova e drammatica. Adesso però basta! Gambe in spalla e pedalare! Paradossalmente è meglio sbagliare per eccesso di zelo che traccheggiare per evitare errori. E poi basta con gli annunci, le interviste, le preoccupazioni comunicative: parola d’ordine è fare. Lasciamo stare la solita latitanza europea, ma anche la macchina del nostro Stato, dopo un’iniziale impressione di relativa prontezza, sta segnando il passo e ha bisogno di una forte scossa. Anche perché la risposta della popolazione è positiva, così come quella di chi opera in prima linea. Se da una parte vedo amministratori regionali e locali interventisti al limite dell’impazienza e a costo di creare confusione, dall’altra parte vedo ministri e ministeriali un po’ troppo rilassati, che fanno le punte ai lapis (spero di sbagliarmi e chiedo scusa, ma l’ansia è tanta…).

Animo, perché qui andiamo tutti a fondo. Se qualcuno non se la sente, è stanco, non ha le idee chiare, si faccia da parte: non lo biasimerei. Se uno ha il coraggio di rimanere in pista deve correre all’impazzata, perché ciononostante rischia sempre di essere in ritardo. Si dice che la politica ha i suoi tempi: nossignori, non c’è tempo! Non ho mai avuto un debole per i decisionisti e per i “fasotutomi”. Stavolta però pensare e fare vanno di pari passo. Non vedo, al momento e purtroppo, cervelli e personalità (a meno che…) capaci di dare direttive esaurienti ed imprimere un movimento dinamico di carattere propulsivo, come il razzo vettore che imprime una forte velocità al satellite. Non servono bacchette magiche, anche perché nessuno le ha, ma non serve nemmeno aspettare un momentino, come diceva un mio collega che metteva le pratiche nel cassetto.

Papa Francesco e il drago

In questi giorni, senza voler peccare di integralismo cattolico (chi mi conosce sa che non è nelle mie corde), è sotto gli occhi di tutti come la personificazione dell’antidoto al coronavirus risieda in papa Francesco, nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi atti, nelle sue preghiere. Lo dico subito, chi teme di contaminarsi, oltre che col coronavirus anche con la religione, interrompa pure la lettura di queste povere righe, perché sto per aprire i rubinetti della poca fede a cui tento disperatamente di fare riferimento in mezzo alla tempesta, senza intravedere nemmeno in lontananza che “il sereno rompe là da ponente, alla montagna”.

Un caro amico mi ha chiesto un commento alla preghiera universale papale davanti al mondo presente-assente nel silenzio di piazza San Pietro. Ci siamo scambiati rapide impressioni e abbiamo concluso con una espressione, che potrebbe sembrare addirittura blasfema: “provocazione a Dio”. Sì, con la sua umile autorevolezza, con il suo nascosto carisma, con il suo cuore così umano, con la sua fede così orizzontale, si è messo in gioco, chiedendo a Dio quello che gli apostoli chiesero a Gesù sulla barca che stava affondando: “Signore, non ti importa che moriamo?”; mettendoci la faccia quale vicario di Cristo; tentando di costruire rapidamente e coraggiosamente un ponte fra cielo e terra. In quella preghiera c’era tutta la realtà e la storia della Chiesa: la parola evangelica, la devozione verso i simboli e le icone, la forza dei sacramenti, la nostalgica osservanza dei riti, la preghiera formulata in latino (tradizione) e italiano (concilio), l’adorazione tradizionale al Santissimo Sacramento, il perdono e la benedizione di tutto e di tutti, la lontananza dalla eclatante cattiveria del mondo, la vicinanza alla nascosta carità degli uomini credenti e non credenti, la condivisione del dolore e la prospettazione della salvezza.

La mattina dopo, quasi a chiedere perdono a Dio ed agli uomini, per questa sfida orante e supplichevole, quasi a chiarire che la sera precedente non aveva voluto esagerare con atteggiamenti di stampo religioso, ha fatto l’elogio dell’anticlericalismo, autoproponendosi ed autoproclamandosi non capo inflessibile e forte di una Chiesa infallibile nella sua dottrina e nel suo “libro”, ma pastore dolce e debole di un gregge sempre più allo sbando ed alla ricerca della vita vera.

La domenica immediatamente successiva ha sottolineato il pianto sincero di Gesù davanti al dolore umano quale unica, paradossale ed efficace risposta divina al grido sofferente dei suoi figli: la domenica del pianto, con la chiara allusione alla situazione tragica che stiamo vivendo, con la paura che cresce, con le difficoltà che si stanno concretizzando, col dramma di chi assiste in lontananza alla morte altrui, con la battaglia a mani nude di chi prova a difendere la vita. Con quel pianto e il successivo grido di battaglia (Lazzaro vieni fuori!) Gesù compie la risurrezione dei cuori, dopo aver tolto dall’animo umano la pietra tombale dell’egoismo, che lo chiude nella morte. Dulcis in fundo, in coda all’Angelus domenicale, il solito delicato invito a pregare per lui, accompagnato questa volta da un rassicurante “io prego per voi”.

Scrivendo ad una cara amica ho recentemente confessato il mio crescente senso di solitudine: io sono fatto così, non riesco ad alleggerire la tensione, prendo tutto sul serio, con ansia al limite dell’angoscia. Non riesco a cambiarmi e quindi spero solo di reggere con l’aiuto di Dio e l’amorevole pazienza di chi, nonostante il mio egoismo, mi vuole bene. Faccio fatica a leggere, perché il pensiero va sempre nella stessa direzione; mi sfogo a scrivere e insisto a pregare. Cerco di vedere poco la televisione e di navigare poco su internet: tutto infatti è coronavirus, visto peraltro con accanimento informativo. Arriva qualche telefonata dai cugini e dagli amici, che serve a costringermi a parlare, a sentirmi vivo. Fitto e importante è il mio rapporto pressoché quotidiano con un meraviglioso cugino/fratello. Quanti ricordi, quanti scambi di idee ed esperienze, quanta comunanza di valori, quanta solidarietà!

Allora, caro papa Francesco, mi aggrappo a te, mi attacco alla tua forte fragilità, alla tua calda umanità, alla tua rassicurante fede, alla tua attenzione ai poveri, alla tua impostazione esistenziale ed ecclesiale; vicino a te mi sento più sicuro. Non hai la presunzione di avere la verità in tasca: hai fatto riferimento all’appello del segretario generale delle Nazioni Unite per chiedere la fine di ogni e qualsiasi focolaio di guerra. Più laico di così, più anticlericale di così, più universalmente umano di così (anche in questo momento non ti accontenti, come noi, di esorcizzare il coronavirus, pensi agli immigrati, alle vittime delle guerre, alle case di riposo, alle caserme, alle carceri), più buono di così (chiedi a Dio il perdono per tutti). Se il Padre eterno non ascolta te, siamo veramente perduti. Ma tu non sei il vicario di Cristo? E allora, un briciolo di fiducia e di speranza possiamo averla. E se ti sei fatto sentire in alto loco, hai fatto benissimo: “Signore, non ti importa che moriamo?”. Anche Giobbe si spazientì: “Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?”. Anche Gesù sulla croce si sentì solo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Quindi…

 

Francesi e italiani, vicinanza emotiva

Conoscevo una persona che aveva rapporti alquanto litigiosi con la moglie al punto da soprannominarla “Francia”. La simpatica trovata la dice lunga sulla difficile coesistenza pacifica coi cugini francesi. La storia è ricca di contrasti tra Italia e Francia anche a livello di convivenza europea: i governanti francesi, e Macron non è da meno, hanno sempre cercato alleanze tattiche con la povera Italia, salvo strizzare l’occhio alla ricca Germania tentando di sfruttarne opportunisticamente la scia. Tenere i piedi in due paia di scarpe è un comportamento deplorevole, nel quale i francesi si sono dimostrati maestri.

Basterà il coronavirus a convertirli ad una strategia lineare e coerente a livello europeo?  Macron ha dichiarato: «La Francia è al fianco dell’Italia. L’Europa smetta di essere egoista. L’Ue rischia di morire se non agisce. Con Conte e Sanchez diciamo: debito comune e aumento del bilancio». Il Presidente francese ha accettato di rispondere a una serie di domande scritte di Stampa, Repubblica e Corriere della Sera nella prima intervista a media stranieri da quando è cominciata l’emergenza sanitaria, nel momento cruciale in cui l’Europa si divide sulla risposta da dare alla crisi.

Gli è stato chiesto: “Con il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte avete chiesto al Consiglio europeo la creazione di eurobond per fronteggiare una crisi epocale. Germania e Olanda hanno fatto blocco. C’è un rischio d’implosione dell’eurozona e dell’Unione europea?”. Macron ha risposto: «Con Giuseppe Conte, Pedro Sanchez e altri sei capi di Stato e di governo, abbiamo indirizzato, prima del Consiglio europeo, una lettera a Charles Michel per inviare un messaggio chiaro: non supereremo questa crisi senza una solidarietà europea forte, a livello sanitario e di bilancio. Questo è il punto di partenza. Gli strumenti vengono in seguito e dobbiamo essere aperti a questo proposito: può trattarsi di una capacità di indebitamento comune, quale che sia il suo nome, oppure di un aumento del bilancio dell’Unione europea per permettere un sostegno reale ai paesi più colpiti da questa crisi Dieci Paesi dell’eurozona, rappresentanti del 60 % del suo PIL, hanno esplicitamente sostenuto quest’idea, è la prima volta! Alcuni Paesi, tra cui la Germania, hanno espresso le loro reticenze. Abbiamo deciso di continuare questo fondamentale dibattito, al più elevato livello politico, nelle prossime settimane. Non possiamo abbandonare questa battaglia. Preferisco un’Europa che accetti divergenze e dibattiti piuttosto che un’unità di facciata che conduce all’immobilismo. Se l’Europa può morire, è nel non agire. Come Giuseppe Conte, non voglio un’Europa del minimo comune denominatore. Il momento è storico: la Francia si batterà per un’Europa della solidarietà, della sovranità e dell’avvenire».

Finalmente!? Staremo a vedere. Resta il problema di ottenere un cambio radicale di indirizzo da parte della Ue, rimane il forte rischio di una vergognosa spaccatura con i Paesi rigoristi ancorati ad una visione manichea ed egoistica, che nemmeno la tragedia sanitaria comune riesce a scalfire. La tentazione di mandare al diavolo i sedicenti primi della classe è forte, ma purtroppo l’Italia non può, oserei dire non deve, pensare di fare da sola. Non riesco a capire quale siano le motivazioni dell’atteggiamento reticente di certi Paesi, tra i quali spicca la Germania. Forse l’idea di poter essere risparmiati dalla pandemia? Forse il pensiero della formica che non vuole aiutare la cicala nemmeno quando sta morendo? Forse la paura di essere trascinati nel gorgo di un sistema finanziario alla deriva? Forse l’illusione di salvarsi isolando le mele ammaccate se non marce?

Fatto sta che i perbenisti hanno preso tempo e persino il presidente della Repubblica Italiana, seppure con il garbo e lo stile che lo contraddistinguono, ha dovuto fare pressing dicendo: «La risposta collettiva che il popolo italiano sta dando all’emergenza è oggetto di ammirazione anche all’estero, come ho potuto constatare nei tanti colloqui telefonici con Capi di Stato stranieri. Anche di questo avverto il dovere di rendervi conto: molti Capi di Stato, d’Europa e non soltanto, hanno espresso la loro vicinanza all’Italia. Da diversi dei loro Stati sono giunti sostegni concreti. Tutti mi hanno detto che i loro Paesi hanno preso decisioni seguendo le scelte fatte in Italia in questa emergenza. Nell’Unione Europea la Banca Centrale e la Commissione, nei giorni scorsi, hanno assunto importanti e positive decisioni finanziarie ed economiche, sostenute dal Parlamento Europeo. Non lo ha ancora fatto il Consiglio dei capi dei governi nazionali. Ci si attende che questo avvenga concretamente nei prossimi giorni. Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse».

Cosa posso aggiungere? Niente, se non l’auspicio che almeno “i poveri” sappiano fare veramente fronte comune per costringere “i ricchi” a ragionare. Temo però che qualche povero possa correre a raccattare le briciole che cadono dalle tavole più o meno imbandite. Spero tuttavia che qualche ricco capisca come a tavola si stia bene quando si va d’accordo, diversamente il cibo, prima o poi, può andare di traverso.

 

 

Quando i debiti salvano l’economia

Il premier Conte e altri otto leader europei, tra i quali il presidente francese Emmanuel Macron, hanno firmato una lettera congiunta per chiedere alla Unione europea la creazione dei “Coronabond” per fronteggiare la crisi economica dovuta alla pandemia. La missiva è stata siglata da Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio e Lussemburgo. La lettera dei nove leader europei indirizzata al presidente del Consiglio d’Europa, il belga Charles Michel, chiede in sostanza l’adozione di misure urgenti per contrastare l’emergenza coronavirus e crea di fatto un fronte contrapposto a quello del rigore rappresentato da Germania e Olanda.

“Dobbiamo riconoscere – scrivono i leader – la gravità della situazione e la necessità di un’ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona. In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da un’istituzione dell’Ue per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia”.

Ecco allora che la sfida posta dall’emergenza sanitaria e l’arrivo dei “corona bond”, emessi eventualmente dalla Banca Europea per gli Investimenti, per finanziarie tutte le spese destinate all’emergenza da non includere nel deficit, potrebbe riaprire la strada agli Eurobond, costituendone un “antenato” ed un precedente importante per disegnare il futuro dell’Unione fiscale.

I coronabond diventerebbero il veicolo comune per raccogliere le risorse finanziarie al minor costo possibile, superando le difficoltà dei Paesi più deboli e più indebitati, che singolarmente farebbero fatica a trovare le risorse monetarie se non a prezzi esorbitanti. Speriamo che i Paesi cosiddetti rigoristi, vale a dire i difensori intransigenti di una finanza pubblica austera, comprendano che quando la casa brucia non si può dissertare sul chi debba spegnere l’incendio e a chi spetti sostenerne i costi.

Da parte sua l’ex presidente della Bce in un intervento sul Financial Times suggerisce ai governi di intervenire subito a sostegno dell’economia, perché perdere tempo potrebbe significare sprofondare in una recessione dalla quale sarebbe molto difficile venir fuori. Tutte le risorse devono essere mobilitate per proteggere le imprese e i lavoratori, comprese quelle del settore finanziario.

“Una tragedia di proporzioni bibliche”: è in questi termini che l’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi parla della pandemia da coronavirus. Non solo per la perdita di vite umane, ma anche per le conseguenze economiche. I governi, scrive Draghi, devono mobilitare tutte le risorse disponibili, non importa se il costo è l’aumento del debito pubblico perché l’alternativa, “una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, sarebbe ancora più dannosa per l’economia” e in futuro per la credibilità dei governi.
Agire, agire subito, senza remore per i costi del debito anche perché, “visti i livelli attuali e probabilmente anche futuri dei tassi d’interesse”, rimarranno bassi. “Livelli più elevati di debito pubblico diventeranno una caratteristica economica e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”, ribadisce Draghi, il quale
elogia le azioni intraprese finora dai governi europei, definendole “coraggiose e necessarie” e sicuramente degne di sostegno. Ma non bastano: il costo economico sarà enorme, e inevitabile. “Una profonda recessione è inevitabile”. L’importante è che non diventi la tomba dell’Europa: “è il compito specifico dello Stato – scrive Draghi – utilizzare le proprie risorse per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock dei quali il settore privato non è responsabile, e che non può assorbire”. È sempre successo, e non a caso Draghi cita la Prima Guerra Mondiale. Di fronte a una guerra non resta che una mobilitazione comune. E “come europei” siamo chiamati “a darci supporto l’un l’altro per quella che è, in tutta evidenza, una causa comune”

“In primo luogo bisogna evitare che le persone perdano il loro lavoro”, raccomanda Draghi, altrimenti “emergeremo dalla crisi con un livello di occupazione stabilmente più basso”, e le famiglie faranno fatica a ritrovare un loro equilibrio finanziario. Per questo non è sufficiente rinviare il pagamento delle tasse: bisogna immettere subito liquidità nel sistema, e le banche devono fare la loro parte, “prestando danaro a costo zero alle imprese” per aiutarle a salvare i posti di lavoro. Subito: “i costi dell’esitazione potrebbero essere irreversibili”. La memoria delle sofferenze degli anni 20 “dovrebbe metterci in guardia”.

 

Grande coalizione e piccola politica

Si comincia a parlare di grande coalizione a livello governativo per guidare il Paese oltre l’emergenza in una lunga fase di vera e propria ricostruzione da tutti i punti di vista. Dovrebbe essere normale che in una situazione di gravità e complessità eccezionali si pensi a trovare una certa unità d’intenti, a puntare sulle competenze, a mettere in campo le migliori personalità.

I reiterati appelli all’unità da parte del presidente Mattarella, lasciano intendere che anche lui stia pensando a livello istituzionale ad una simile prospettiva pur continuando a sostenere la compagine ministeriale in carica. È una carta da giocare con grande prudenza, ma con altrettanta convinzione, senza tuttavia indebolire o peggio delegittimare l’attuale governo (sarebbe una conseguenza pazzesca). Lo stato di necessità imporrebbe di prevederla, ma non è detto che la politica si adegui.  Quali sono le perplessità e le difficoltà che una simile evenienza potrebbe incontrare?

Siccome non è possibile e non è nemmeno giusto prescindere dalla politica, bisogna ammettere che i suoi protagonisti non sembrano all’altezza di questa strada: per le faziosità e le strumentalità imperanti e per il basso livello del personale politico. In questi ultimi tempi la politica ha ceduto il passo alla propaganda, l’arte del governare è stata soppiantata dall’abilità del comunicare, l’ancoraggio ai valori forti è stato sacrificato sull’altare del consenso immediato. Questo andazzo si è radicato e non sarà facile sradicarlo.

La classe politica, che non viene selezionata ma improvvisata, salvo qualche rara e per questo ancor più ammirevole eccezione, soffre di una notevole carenza a livello etico, culturale, esperienziale e professionale. La botte dà il vino che ha e quindi i partiti danno i personaggi che annoverano fra le loro fila. Prevalentemente roba di bassa macelleria in un progressivo e impressionante decadimento qualitativo. Non so se il popolo italiano meriti tutto ciò. Forse sì, direttamente o indirettamente lo vuole, interpretando la politica come un arnese ingombrante da usare solo per difendersi egoisticamente dalle proprie paure.

Fare le nozze (grande coalizione) con i fichi secchi (partiti e classe politica attuali) è una gara dura. Non so se il coronavirus, fra le tante disgrazie che sta procurando e procurerà, potrà avere l’effetto di ricondurre la politica a miti consigli e soprattutto a volare alto. Per i miti consigli occorrerebbe un bagno di umiltà molto difficile, per volare alto necessiterebbero ali adatte per non ripiombare immediatamente nelle solite scaramucce. La gravità dei problemi imporrebbe una visione strategica ed una capacità di governo francamente quasi assenti dalla scena. Ho il timore che non basti cambiare gli attori, ma si debbano mutare il copione, il capo-comico e il regista oltre l’intera compagnia.

Il regista dell’operazione non può che essere Sergio Mattarella: ha i poteri costituzionali, la conoscenza politica, l’esperienza istituzionale, la sensibilità umana e culturale, la credibilità popolare. Partiremmo col piede giusto. Il capo-comico? L’unico personaggio del giusto livello, a disposizione della Repubblica, è Mario Draghi: saprebbe calcare la scena interna e internazionale con la dovuta padronanza, non alla ricerca dell’applauso, ma di una strategia economico-sociale. E gli altri attori? Non esistono personaggi emergenti e quindi si dovrebbe ripiegare su criteri selettivi che privilegino la competenza, che non vuol dire solo appartenenza all’establishment, tecnicalità o peggio ancora, burocrazia.

Dulcis in fundo: il copione. Tutto da costruire per affrontare un mondo disastrato ed un sistema, che non potrà più essere quello classicamente liberista e forse nemmeno quello riformista. Il mio compito in classe al momento finisce qui. Tanto per cominciare può bastare. Non penso di essere andato fuori tema. Non credo di avere fatto errori clamorosi. Mi sono fermato sul più bello. Dovremo tutti fare tesoro delle tristissime e cruente esperienze fatte, pensare, riflettere, studiare, rileggere la storia e…credere nella politica.

Il vizio burocratico a prova di coronavirus

Un’amica mi ha confidato di impiegare parte del tempo di clausura alla riscoperta de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Il suo racconto della peste a Milano è di un’attualità e profondità sconcertanti. Mi permetterei di aggiungere e sottolineare anche il discorso delle “grida” manzoniane, vale a dire le comunicazioni ufficiali (disposizioni, editti, avvisi pubblici) emesse dall’autorità e “gridate” sulla pubblica piazza da apposito banditore. Queste servivano solo a dare una parvenza di ordine e governabilità, ma in realtà erano disattese e lasciavano le cose come stavano, anche perché spesso si rivelavano confuse e inapplicabili.

Non voglio essere spietato, ma, a parte i difetti e le strumentalizzazioni a livello comunicativo, le incertezze e i tentennamenti a livello decisionale, il casino di decreti governativi, ministeriali, regionali e comunali, emanati in conseguenza del coronavirus, sta diventando grottesco: un ginepraio di regole, che cambiano in continuazione, che si sovrappongono, che impongono la compilazione di moduli su moduli, che aggiungono problema a problema. Non mi azzardo a sostenerne la inutilità, ma mi sento in dovere di sottolinearne l’assurda complessità. Abbiamo un presidente del consiglio insigne giurista, un ministro degli interni alto funzionario dello Stato, fior di tecnici a livello centrale e periferico che traducono in disposizioni legali gli indirizzi di governo: alla fine emerge, mi ripeto, un gran casino, che si aggiunge alle drammatiche e tragiche preoccupazioni di tutti. La situazione imporrebbe poche regole chiare e tempestive, mentre abbiamo troppo regole confuse e tardive. Siamo stati forse fin troppo sbrigativi nel bypassare il Parlamento, forse abbiamo bellamente stravolto le fonti del diritto, abbiamo praticamente commissariato tutto e tutti, poi ci blocchiamo con i decreti in mano, ne stiamo facendo un mix ingestibile e ci meravigliamo che la gente continui a”riempire” le strade.

Per la mia collaboratrice famigliare si tratta del terzo modulo che compiliamo insieme: roba da matti. Se è vero che la vena trasgressiva degli italiani non muore nemmeno di fronte al coronavirus è altrettanto vero che mettere sul piatto una pletora di provvedimenti è un portare a nozze chi vuole irresponsabilmente trasgredire agli ordini. Per non parlare della task force messa in campo per i controlli: si parla più di questa che di quella impegnata sul fronte sanitario. Energie e risorse sprecate in un momento di così grave emergenza? Almeno in parte sì. È pur vero che se tutti si comportassero correttamente non ci sarebbe bisogno di simili sguinzagliamenti a livello di controllo e di conseguenti denunce e ammende. Vorrei sapere come fa, umanamente parlando, un poliziotto a verificare che la persona controllata stia effettivamente andando a fare acquisti di generi di prima necessità o di farmaci. Al ritorno potrebbe essergli richiesto di esibire scontrini e merce, ma all’andata? Con tutto il rispetto e la comprensione per le forze dell’ordine, siamo poi sicuri che chi controlla abbia la conoscenza e la preparazione per farlo. Non succederà che partano denunce assurde per poveri cristi sorpresi sulla strada e incapaci di giustificare al meglio la loro presenza?! Di tutto abbiamo bisogno meno che di un contenzioso legale e burocratico a margine della pandemia.

Il coronavirus finirà, almeno si spera, ma non finirà il vizio burocratico del nostro Paese: la mentalità, non tanto di chi governa, ma di chi organizza e gestisce le strutture pubbliche, è irrimediabilmente legata allo sportello dietro cui si annida un cerbero, che ci assilla con moduli, dichiarazioni, procedure e formalità. Non voglio nemmeno pensare al casino che ci sarà per l’assegnazione e la distribuzione dei fondi a sostegno di quanti sono stati danneggiati dalle restrizioni dovute al coronavirus. Non voglio esagerare, ma potrebbe succedere, come per i terremoti: quando arriva un altro terremoto, la gente sta ancora aspettando gli aiuti del precedente.

Molti sostengono a ragione che i fondi stanziati per ora siano pannicelli caldi: forse non hanno tutti i torti. Servono interventi massicci senza guardare alle coperture di bilancio. Cosa potrebbe succedere però? Ottenere a gran voce aiuti dalla Ue, stanziare fondi a tutta canna, chiedere l’aiuto anche dei privati, per poi impantanarsi nelle pastoie burocratiche, mentre ci sarebbe bisogno di grande celerità per rimettere rapidamente in moto la macchina. In questi giorni sono preoccupato, si fa per dire, per la batteria del mio automezzo, costretto all’immobilità nel garage di casa. Quando girerò la chiavetta, probabilmente non andrà in moto e dovrò far intervenire un qualche amico dotato dei cavi per la ricarica o un elettrauto che mi venga a sostituire la batteria stessa. Problema piccolo, seppure fino ad un certo punto. L’ho introdotto per far capire che probabilmente, quando sarà il momento di riavviare il motore dell’economia, potremmo avere le batterie scariche, vale a dire i fondi ancora nella casse in attesa del modulo, della dichiarazione, delle firme, dei controlli etc. etc.

Per chi suona la campana

Quando si è in gravi difficoltà, basta poco per sentirsi risollevati e confortati. Stamani, aprendo il televisore, dopo aver seguito in diretta la messa celebrata a Santa Marta da papa Francesco (un’autentica giornaliera iniezione di fiducia), le trasmissioni di Tv 2000 sono state praticamente aperte dal suono delle campane, che in Belgio riecheggiavano l’inno di Mameli in segno di solidarietà verso il nostro Paese. Mi sono sinceramente commosso: finalmente un piccolo, ma significativo, segno di vicinanza dell’Europa verso l’Italia. Molto più e molto prima degli stanziamenti di carattere finanziario. Cosa sto dicendo? Forse è il caso di andare a prestito da Rodolfo dell’opera Bohème di Giacomo Puccini: Chi son? Sono un poeta.
Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo. Oso rubare il mestiere ad un mio cugino/fratello, lui è veramente un poeta, io solo un apprendista.

Oltre tutto questo fatto del suono delle campane ha coinciso temporalmente col viaggio di ritorno di un carissimo amico dal Belgio, dove sta faticosamente inserendosi nel mondo del lavoro nel settore culturale: viaggio difficile, per le note barriere alzate nei collegamenti tra i diversi Paesi, obiettivamente rischioso, per i contatti che, pur adottando tutte le possibili precauzioni, inevitabilmente si hanno su aerei e treni, e complicato dalla obbligatoria quarantena successiva al rimpatrio. Ebbene, ho interpretato il suono delle campane come un buon viatico per lui finalmente in arrivo, che ha, speriamo solo temporaneamente, abbandonato un percorso all’estero interessante dal punto di vista culturale e professionale.

Alcune piccole e semplici riflessioni sulla solidarietà, parola tanto abusata quanto tradita. Solidarietà, vocabolario alla mano, è rapporto di comunanza tra i membri di una collettività pronti a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda o, se si vuole, un atteggiamento spontaneo, o concordato, rispondente a una sostanziale convergenza o identità di interessi, idee, sentimenti. Le difficoltà, come detto all’inizio, dovrebbero essere il terreno fertile per far attecchire e crescere questa pianta balsamica: non sempre è purtroppo così, anche se a volte è necessario toccare il fondo della disperazione per far scattare la molla della solidarietà. Sembra essere il caso del coronavirus: non illudiamoci, ma speriamo che la lezione possa insegnarci qualcosa in tal senso, qualcosa che parta dai rapporti più stretti per andare oltre i confini degli Stati e dei continenti.

L’Europa ha bisogno di rilanciarsi su queste basi solidaristiche: smettiamola di irrigidire e burocratizzare i rapporti, usciamo dagli schemi dei forti e dei deboli, interrompiamo la gara a sentirci i primi della classe, abbassiamo le barriere, rimuoviamo i muri, apriamo i porti, collaboriamo senza impantanarci nelle partite di bilancio. L’Europa è nata dalla fantasia politica di alcuni sognatori antifascisti confinati su un’isola, si è costituita ed è cresciuta sulla scommessa di alcuni leader politici democratici e cristiani, capaci di guardare oltre i confini nazionali, poi ci siamo, strada facendo, chiusi e smarriti. Ora siamo tutti confinati e bloccati da una tremenda pandemia e possiamo provare a sognare una Europa dove le campane di un Paese possano suonare l’inno nazionale di un altro Paese, dove il coronavirus suoni le sue trombe di morte, mentre noi suoniamo le nostre campane di vita. Diventiamo tutti campanari in tal senso.

In un paesino della collina parmense vi era un anziano contadino, che fungeva da campanaro della chiesa parrocchiale, un santuario dedicato a santa Lucia: lo faceva con destrezza, passione e dedizione, tali da far presagire una sua possibile morte attaccato alle “sue” campane. Venni a sapere che fu proprio così: lo ritrovarono morto ai piedi della torre campanaria. Vediamo di dare anche noi una simile testimonianza: le campane per risvegliare il senso comune del vivere insieme nella solidarietà fatta istituzione.

Nel frattempo un bentornato di cuore all’amico di cui sopra: lui ha avuto il coraggio di abbattere le barriere in nome della sua cultura e del suo lavoro. Possa anche lui tornare presto, il più presto possibile a suonare le sue campane, in Belgio, in Italia, laddove comunque avrà l’opportunità per farlo proficuamente, culturalmente e professionalmente.

 

 

 

 

Ma l’amore, no

Per alleggerire la tensione mi viene in simpatico soccorso una gustosa gag di mio zio. Affermava con enfasi: «Al gh’arà un bel dir al me dotor… “ormai col malé chì al mora”, parchè mi continuarò a respirär e vedrema chi la vensa». Assomigliamo un po’ tutti allo zio Mario in questo periodo in cui un virus si permette di attentare alla nostra vita, ma lui non sa che noi abbiamo sette vite come i gatti. Al di là della testardaggine respiratoria, che purtroppo non regge (proprio lì il virus infatti ci colpisce), abbiamo altre frecce al nostro arco, poco sanitarie ma molto efficaci.

In un serrato dialogo ho detto al coronavirus: “Caro nemico, tu mi puoi togliere, anzi mi stai togliendo, la serenità d’animo, la voglia di ridere, quel po’ di ottimismo che mi rimaneva. Se proprio insisti, puoi compromettermi la salute fino ad isolarmi in un letto d’ospedale. Vai pure avanti e prenditi anche la mia vita, negandomi persino una sepoltura in terra consacrata. Io però ho due cose che non potrai mai rubarmi. Quali? Te le posso confessare tranquillamente perché contro di esse non puoi fare nulla, sono vaccini che funzionano a prova di bomba e davanti alle quali non ti resterà che arrenderti: avrai l’illusione di avere vinto, ma in realtà avrai sempre e comunque perso la tua schifosa guerra. Si tratta dell’amore che do e ricevo attualmente da una persona in particolare, ma anche da tante altre che mi hanno voluto e mi vogliono bene nonostante i miei limiti e difetti. Se ti piacciono le canzoni, anche se hai già capito benissimo dove voglio arrivare, te ne canticchio una che fa così:

Ma l’amore, no. L’amore mio non può disperdersi nel vento, con le rose. Tanto è forte che non cederà, non sfiorirà! Io lo veglierò, io lo difenderò da tutte quelle insidie velenose che vorrebbero strapparlo al cuor!

E l’altra arma? Ancora più potente e invincibile! Si chiama fede in Dio e nel suo amore. Tu pensi di togliermela? Levatelo dalla testa! Ti faccio rispondere nientepopodimeno che da san Paolo, il quale nella sua lettera ai Romani scrive così:

Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.

Nell’opera lirica “La gioconda di Amilcare Ponchielli su libretto di Arrigo Boito, il doge Alvise, scoperto il tradimento della moglie Laura, giura di vendicarsi («Si, morir ella de’!»). Sarà una vendetta terribile, degna di un Badoéro: che le danze (la famosa danza delle ore) della festa gioiscano pure, lì il marito tradito deve vendicare il proprio onore. Decide però di non sporcarsi le mani, sarà lei stessa a darsi la morte con un veleno. Quindi fa convocare Laura e la lusinga nascondendo a malapena la sua ira: egli accenna ironicamente appena al suo tradimento («Bella così madonna, io non v’ho mai veduta»), e Laura, insospettita, gli chiede il motivo di tale comportamento («Dal vostro accento insolito cruda ironia traspira»). Alvise, al massimo dell’ira, la costringe a dire la verità, e poi le urla che morirà subito. Mentre Laura lamenta il suo destino («Morir, morir è troppo orribile»), Alvise le mostra la sua bara. Da fuori risuona una canzone intonata dai gondolieri («La gaia canzone fa l’eco languir e l’ilare suono si muta in sospir»). Alvise la obbliga a bere un veleno prima che il canto giunga alla sua ultima nota, ma di nascosto Gioconda sopraggiunge e convince Laura a bere da un’altra boccetta, che contiene un potente narcotico che «della morte finge il letargo».

Sì, questo è il controveleno fantasioso, efficace e, in un certo senso, sacrificale di Gioconda. Come ti ho detto, io ne ho ben due che si possono mescolare insieme e diventano ancor più potenti ed irresistibili. Sappiti regolare: quel che vale per me, vale per tutti, quindi forse è meglio che tu lasci perdere, ci lasci in pace e non sprechi il tempo in lungo e in largo”.

 

 

La fuffa delle parole e la carità dei gesti

In questi giorni ho partecipato, solo inizialmente, ad un confronto a livello web sulle problematiche ecclesiali “emergenti dall’emergenza”. Ho offerto il mio modestissimo contributo, tentando di esprimere, come un solo interlocutore ha riconosciuto, il turbamento, i sentimenti, gli interrogativi, i dubbi che sono dentro di me di fronte a questa prova quasi insopportabile (vedi precedente commento del 18 marzo). Poi il dibattito, pur interessante e dotto (fin troppo, perché non è questo il momento di esibire preparazione teologica e biblica, ma di aprire il cuore), ha preso una piega intellettualoide, che mi ha sinceramente bloccato. E allora ho preferito appartarmi per non disturbare e per non sembrare patetico.

Però non si può, quando uno sta morendo di fame, fargli un panegirico dietologico, bisogna dargli qualcosa da mangiare perché non muoia di fame. Gesù alla folla che lo seguiva ha offerto pane e pesci, solo dopo si è azzardato a fare il discorso sul pane di vita. In questo momento siamo affamati di salute, attanagliati dalla paura, siamo sempre più angosciati per un morbo che non ci fa solo morire, ma che impone un disumano modo di morire. È questo il punto sconvolgente: sono terrorizzato, come penso in molti, al solo pensiero di essere isolato dalle persone che amo, di non poter comunicare con esse, di essere lasciato umanamente solo a combattere e tragicamente solo a morire.

Il problema è questo: possono la fede, la speranza e la carità, mie, dei miei fratelli e delle mie sorelle, della comunità cristiana, venire in mio soccorso? Non mi interessa se a templi aperti o chiusi, a messe celebrate o immaginate, a carico dei preti o dei laici, a Concilio ignorato o incarnato: seppure in buona fede, queste dissertazioni hanno un sapore farisaico che mi disturba. Ci sarà qualcuno a tenermi la mano mentre soffrirò e morirò? Questo è il problema. Le lezioncine teologiche, bibliche e liturgiche le lascio al dopo-coronavirus, adesso ho bisogno di sopravvivere o di morire con un poco di pace interiore. Qualcuno me la può donare? Canonicamente temo proprio di no: solo papa Francesco dimostra di avere il carisma di cuore e infatti seguo con le lacrime agli occhi le sue omelie da Santa Marta. Mi sento unito a lui anche perché credo si stia caricando di tutte le angosce al fine di presentarle a quel Dio di cui è vicario in terra. Umanamente, amichevolmente e cristianamente, un po’ di pace la trovo solo nelle parole di chi mi ama, di chi mi è in qualche modo vicino. Sarà forse questa la superiorità, teorizzata da san Paolo, della carità su tutto?

Anche la preghiera, in cui tuttavia mi viene spontaneo rifugiarmi, mi appare comunque inadeguata (per colpa mia) a rasserenarmi l’animo, a togliermi dalla disperazione prima ancora di essere disperato. Senza voler esagerare, era in questa drammatica situazione Gesù nell’orto degli ulivi. Poi arrivò un angelo a confortarlo. In quel momento non bastava la preghiera, non era sufficiente la fiducia in Dio, occorreva che una creatura intervenisse in suo aiuto. Quindi prego, ma aspetto che mi vengano accanto due creature in particolare. Mia madre, che prima di morire mi ha promesso di essermi vicina; mio zio Ennio sacerdote che ha promesso con le parole e coi fatti di essere mio protettore. Non uno, ma due angeli. La comunione dei Santi! In questo momento, chiedo scusa a tutti coloro che imbastiscono bei discorsi, il resto è fuffa.