Il mes non è finito, andate in pace

Come volevasi dimostrare: la montagna europea ha partorito il topone, il compromessone. In politica la ricerca del compromesso è scontata, ma occorre vedere come e perché ci si arriva. Prendo l’esempio della Costituzione Italiana. Forse non è un compromesso? Certamente sì, ma ai livelli più alti, vale a dire partendo dai valori presenti nelle culture di ispirazione cattolica, socialista e liberale. Non è facile mediare in tal senso, ma se si prescinde dai valori, cosa rimane su cui cercare un accordo politico? Gli interessi di bottega: anche se la bottega è grande e prestigiosa, sempre bottega rimane e gli affari che ne escono sono o carta straccia o carta vetrata, roba che dura poco, irrita, fa baccano, ma non costruisce.

In Europa, dove le istituzioni comunitarie non contano e sono spesso ridotte a parodia democratica, gli Stati membri cercano un accordo, non lo trovano, entrano nella bottega dell’Eurogruppo e contrattano su tutto anche sul disastro del coronavirus. C’è chi vince e chi perde? Alla fine perdono tutti, perde soprattutto la Comunità europea. Nel comunicato finale l’Eurogruppo riconosce la necessità di una «strategia coordinata e globale» per far fronte alla pandemia di Covid 19, che costituisce «una sfida senza precedenti con conseguenze socio-economiche molto gravi» e si impegna a fare «tutto il necessario per affrontare questa sfida in uno spirito di solidarietà». Sembra un libro dei sogni: la verità è che il piano approvato, peraltro ancore in attesa del via libera del Consiglio europeo, è solo un primo passo, non ancora sufficiente, per sostenere le economie dei Paesi più colpiti dal virus come Spagna e Italia, che sono anche quelli con minore spazio di manovra fiscale.

Faccio riferimento ai resoconti giornalistici più autorevoli ed attendibili. Il compromesso raggiunto dall’Eurogruppo, che aveva ricevuto il mandato a trovare un accordo con le proposte economiche per rispondere all’emergenza coronavirus dopo il nulla di fatto del Consiglio europeo tra i capi di Stato e di governo del 26 marzo, è composto da 23 punti. L’Europa rende disponibili circa mille miliardi di euro di risorse: 500 miliardi subito, altri 500 miliardi in un futuro prossimo attraverso il lancio di un fondo per la ripresa o Recovery plan con «strumenti finanziari innovativi» non meglio specificati.

L’intesa non ha vincitori e vinti, ma come tutti i compromessi assomiglia piuttosto a un pareggio, dove tutti i Paesi possono portare qualcosa a casa. Il ministro delle Finanze olandese Woepke Hoekstra tira acqua al suo mulino: «C’è una maggioranza contro gli eurobond e la condivisione del debito all’Eurogruppo. È stato fatto questo testo che è «deliberatamente vago» e riguarda gli strumenti finanziari innovativi. Ognuno ci può leggere quello che vuole, ma è importante non ingannare noi stessi: è impossibile leggerci qualcosa che si riferisca ad una condivisione del debito», così afferma con vomitevole cinismo l’olandese assai poco volante.

In pratica, i pilastri dell’accordo tra i ministri europei dell’area economica e finanziaria sono quattro: la Bei, la banca europea degli investimenti, prestatore e garante di fondi e liquidità per le aziende; il Sure, ovvero la nuova formula di cassa integrazione e assicurazione per i lavoratori che possono perdere il lavoro per la grave crisi economica; il Mes, per sfruttare i finanziamenti del fondo al fine di sostenere l’assistenza sanitaria diretta e indiretta così come i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti alla crisi provocata dal Covid 19; infine, è stata accolta la proposta francese di creare un fondo finanziato da obbligazioni comuni per finanziare il rilancio dell’economia: si tratta del fondo per la ripresa economica.

Detta così sembrerebbe una cosa seria e storica:  aiuti per 1.000 miliardi di euro. Il commissario europeo agli affari economici Paolo Gentiloni ha sottolineato che si tratta di «un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese» e per evitare una divergenza tra le economie più colpite dal virus. E non ha tutti i torti.

Ma ci sono due equivoci di fondo: rimane un concetto limitato e limitante dell’uso del Mes, il cosiddetto “fondo salvastati”, confinato a sostegni per l’emergenza sanitaria, cioè aiuti di mera sussistenza; la ripresa economica rimane a mezz’aria senza una condivisione finanziaria e con strumenti tutti da inventare. Occorrerebbe una spinta eccezionale e ci si accontenta di una seppur robusta spintarella, bisognerebbe andare tutti in una stessa direzione, mentre invece ognuno va per i fatti suoi, senza rompere i rapporti, ma senza buttare il cuore oltre l’ostacolo.

Punto cruciale dell’accordo è l’uso del Meccanismo europeo di stabilità o fondo salva Stati. Per i Paesi del Nord, il Mes era lo strumento principale a cui attingere per far fronte alla crisi del coronavirus. L’Olanda avrebbe voluto legare le linee di credito a una forte condizionalità, cioè prestiti in cambio di riforme e rigidi controlli, come è avvenuto in passato per la Grecia. La Germania era più morbida e fin dalla vigilia, attraverso il suo ministro delle Finanze Olaf Scholz, aveva aperto alla non condizionalità delle linee di credito del Mes, escludendo quindi qualsiasi intervento della Troika, cioè la supervisione di Commissione Ue, Bce e Fmi, in caso di aiuti, ma con erogazioni limitate. In pratica, se non ho capito male, il fondo viene liberalizzato, ma fortemente contenuto fino a metterne in discussione la capacità effettiva di rispondere alle esigenze finanziarie dei Paesi più colpiti.

Vi è poi la vaghezza del Fondo per la ripresa economica, l’impegno cioè a lavorare «su un fondo di recupero per preparare e sostenere la ripresa, fornendo finanziamenti attraverso il bilancio dell’Ue a programmi progettati per rilanciare l’economia in linea con le priorità europee e garantire la solidarietà dell’Ue con gli Stati membri più colpiti. Tale fondo sarebbe temporaneo, mirato e commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi. Gli eurobond, fortemente voluti dall’Italia ma respinti da Olanda e Germania, non compaiono mai nel testo. Però non vengono esclusi del tutto. Indicando il lancio di strumenti innovativi, si lascia infatti la porta aperta alla possibilità di creare prodotti di debito europeo, garantiti quindi dall’Unione e non più da un singolo Paese. L’Eurogruppo scrive che i nuovi strumenti avranno una durata limitata nel tempo e saranno alimentati con misure «innovative». Non si dice però quali siano. Se ne parlerà nei prossimi mesi. Ma il tempo in questo momento è la variabile cruciale.

Purtroppo il bicchiere mezzo pieno in Italia sta dando adito a polemiche politiche piuttosto squallide, creando un clima di scontro, che sicuramente non farà bene al prosieguo delle trattative in sede europea. Senza la bottega europea non possiamo fare. Cerchiamo di entrarvi senza riserve mentali sovraniste presenti nei maggiorenti dell’opposizione e in certi esponenti pentastellati della maggioranza, ma con la dovuta convinzione valoriale, la necessaria credibilità esperienziale e l’auspicabile autorevolezza professionale e politica, pretendendo e meritando rispetto. Non siamo gli accattoni che scialacquano le elemosine, abbiamo i nostri gravi problemi (e chi non ne ha?). Saremo capaci di comportarci non da clienti insoddisfatti, ma da soci compartecipi? La posta è altissima, rendiamocene conto.

 

È sempre l’ora dei pavesini burocratici

Mi trovavo per impegni professionali nell’anticamera della Commissione Tributaria di secondo grado di Parma (la Corte d’Appello del fisco) e partecipavo al gossip di attesa, vertente sulle solite lamentele riguardanti la complessità degli adempimenti fiscali per il contribuente e la loro scarsissima chiarezza. Teneva banco un esperto professionista di Milano, il quale, ad un certo punto, stupì tutti con una rivelazione dal sapore scandalistico. In riferimento al contenuto delle risoluzioni del Ministero delle Finanze (le risposte che gli uffici centrali danno ai quesiti dei contribuenti singoli o associati) chiese ai presenti se conoscessero il perché di tanta ambiguità e di così poca chiarezza. Nessuno ebbe una risposta pronta e questo pretenzioso commercialista sputò la sua motivazione: «Dal momento che le risoluzioni vengono redatte da funzionari di alto livello, responsabili di quanto affermano, esisterebbe una norma ovviamente segreta, una sorta di patto corporativo in base al quale verrebbero introdotti nel corpo delle risposte espressioni ambigue, parole contraddittorie, incisi fuorvianti in modo da rendere interpretabile in modi diversi il testo e da evitare quindi spiacevoli responsabilità ai funzionari stessi. Questi quindi solleverebbero comunque un po’ di polvere per coprirsi le spalle da errori o da leggerezze interpretative».  Tutti i presenti rimasero di stucco. Anch’io non reagii, la discussione cadde, ma il dubbio rimase ed ogni volta che leggevo una risoluzione ministeriale poco chiara mi ricordavo di quell’illustre signore: l’aveva sparata grossa, ma forse non era andato lontano dalla verità.

Sarà così anche nell’applicazione delle disposizioni di legge anticoronavirus e per agevolare i soggetti danneggiati da questa terribile e lunga emergenza? Se il buon (brutto) giorno si vede dal mattino, abbiamo cominciato sfornando in pochi giorni ben quattro versioni dei moduli con cui il cittadino deve giustificare le sue eventuali uscite in deroga al lockdown. Poi il sito internet dell’Inps è andato in tilt nel recepire le numerose domande di accesso al poco più che simbolico aiuto di seicento euro per i lavoratori autonomi in difficoltà: alla faccia della informatizzazione dei servizi pubblici. Tutta colpa di quei maledetti computer che ci rovinano la vita?

Dovevo registrare un importante e consistente atto di una cooperativa ed era fortunatamente appena stato approvato un provvedimento di legge agevolativo, che prevedeva la registrazione di un simile atto a tassa fissa anziché proporzionale. Diedi l’incarico al collega che si occupava dei rapporti burocratici con gli uffici fiscali, dopo averlo opportunamente indottrinato sulla novità di legge introdotta. Dopo un’ora ritornò deluso e imbarazzato: l’addetto all’operazione non aveva accettato di registrare l’atto a tassa fissa misconoscendo la norma agevolativa. Andai allora di persona, assieme al direttore della cooperativa interessata, all’ufficio competente per verificare il caso e ottenni un reiterato quanto ingiustificato diniego: l’impiegato non conosceva il testo della norma; glielo feci leggere, ma affermò di darne una interpretazione restrittiva che escludeva il caso in questione. Abbandonai il reparto, ma non mollai l’osso, anche se il responsabile della cooperativa fremeva per l’eventuale perdita di tempo che rischiava di essere più dannosa del pagamento non dovuto di una somma, peraltro notevole, richiesta in sede di registrazione. Mi recai dal direttore dell’ufficio, che gentilmente e tempestivamente mi ricevette (era già un primo piccolo passo avanti). Spiegai l’oggetto del contendere, consegnai il testo della norma di legge: lo lesse e rilesse per alcuni minuti e me lo restituì dichiarando onestamente che avevo ragione nella mia richiesta di trattamento agevolato. A quel punto fiutando quanto avrebbe potuto succedere chiesi la cortesia al direttore di chiamare al citofono il suo sottoposto per fornirgli l’indicazione necessaria. Niente da fare: l’addetto alla registrazione non si voleva convincere e allora…il direttore fu costretto a scendere al piano per parlargli direttamente e, solo dopo aver impartito un ordine ufficiale con tanto di assunzione di responsabilità, riuscì a sbloccare la situazione. La mia testardaggine ebbe la meglio sulla presuntuosa ignoranza di un burocrate di bassa lega.

Mi auguro vivamente che non si debbano fare trafile simili per ottenere i prestiti agevolati varati con apposito decreto dal governo per le imprese in chiare e gravi difficoltà finanziarie. Sarebbe una beffa dopo il danno. Non ci giurerei comunque sui tempi brevi dell’erogazione, nel groviglio di rimpalli tra banche ed Ente di Stato fornitore delle consistenti garanzie.  Non voglio fare il menagramo, ma l’esperienza purtroppo mi insegna.

Ricordo, durante un convegno in cui tenni una relazione in materia fiscale, di avere inventato di sana pianta il “ministero del buon senso” e di avervi fatto riferimento nelle risposte ai quesiti che mi venivano posti: operazione rischiosa, ma altrettanto proficua in mezzo ad uno strabiliante ginepraio di norme, interpretazioni e sentenze. Al convegno precedente un giovane ed alto funzionario ministeriale, interpellato su una norma piuttosto controversa, non aveva azzardato una risposta e fin qui la cosa poteva essere spiegabile: fu la motivazione ad irritarmi al limite dell’aperta e pubblica contestazione. Sostenne che prima di rispondere, avrebbe dovuto avere il tempo per valutare l’impatto economico della sua risposta: della serie, il ministero non applica le leggi secondo i dettami del legislatore, ma a seconda della convenienza per le casse erariali. Se il ministro fosse stato presente, avrebbe fatto una colossale ramanzina al suo “fervoroso” funzionario per essere andato ben oltre i limiti del suo stato giuridico oltre che del buon senso di cui, durante la mia vita professionale, non finii mai di chiedere l’applicazione.

Speriamo che l’emergenza coronavirus abbia smorzato i bollenti spiriti della burocrazia e consigliato atteggiamenti di buon senso in linea con le necessità del momento: certe mentalità temo che non cadranno nemmeno sotto i colpi del terribile virus. Virus per virus, chi la spunterà? Dando una sbrigativa occhiata ai rinvii disposti per i versamenti e gli adempimenti fiscali e contributivi, mi sono immediatamente incavolato: non ci si capisce niente in mezzo a rinvii diversificati per imposta e per territorio. Alla fine, se un soggetto vuole stare nel sicuro deve ricorrere al consulente (categoria di persone che non invidio) e allora paradossalmente forse converrebbe osservare le scadenze normali per risparmiare sui costi della consulenza, che rischiano di mangiarsi i vantaggi delle dilazioni di pagamento.

Molto tempo fa il ministro della riforma burocratica Massimo Severo Giannini, dopo qualche tentativo andato a vuoto, vista la difficoltà al limite dell’impossibilità di cambiare le cose, diede le dimissioni preannunciando di voler emigrare negli Usa. Giustamente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo rimproverò aspramente. Avevano ragione entrambi?! Il primo si arrendeva di fronte alla forza degli apparati, il secondo strigliava la politica incapace di superare gli apparati.

Forse non è il caso di emigrare, perché alla nostra demenziale burocrazia gli Usa rispondono con la loro demenziale politica: se in Italia le leggi vengono sostanzialmente disattese dalla lenta e parassitaria macchina burocratica, in America la macchina burocratica applica con sollecitudine leggi sbagliate e contraddittorie. Ognuno ha le sue gatte da pelare. Nel nostro Paese, tutto quanto fatto da una pur debole, confusionaria e discutibile classe politica e di governo a tutti i livelli (anche le poche cose buone e tempestive) rischia comunque di infrangersi contro gli scogli burocratici. Anche la riforma regionale ha finito con l’aggiungere ulteriori catafalchi burocratici (la colorita ed eloquente espressione non è mia e non ricordo da chi venga) alla già pesantissima jungla degli uffici pubblici. Se arriviamo ai comuni le cose peggiorano ulteriormente, perché non conta la vicinanza con il cittadino, ma la professionalità, l’esperienza, la competenza che diminuiscono nettamente andando dal centro verso la periferia. Forse è tutta questione di buon senso. A tal proposito mi viene spontaneo ricordare don Dagnino, un prete che sapeva essere ad un tempo rigoroso e aperto, radicale e dialogante, laico e sacerdote, il quale diede un incoraggiamento sui generis ad un’amica a cui era nato un figlio con un’imperfezioni fisica. «L’important l’è cal g’abia dal bon sens, ‘na roba ca ne’s compra miga dal bodgär», sentenziò con sano realismo umano e religioso di fronte alle ansie di una madre inquieta.

 

 

 

 

 

Al portafogli non si comanda

Quando è iniziato il periodo emergenziale con tutte le intravedibili conseguenze del caso, mi sono detto: forse è la volta buona per ricominciare a collaborare a livello di partner europei, dopo aver superato annose e incallite diffidenze reciproche. Voglio vedere, pensavo, chi si sfilerà da un patto comunitario per superare le enormi difficoltà che nessuno a casa propria riuscirà ad affrontare autonomamente.

Non sta andando così. Uno straccio di accordo finanziario lo troveranno dopo gli indecenti tira e molla, ma la solidarietà che doveva scattare non è scattata. Ogni Paese europeo ha ottenuto grossi vantaggi nel passato recente e remoto: tutto dimenticato. Vale più che mai, anche in questo caso, la sindrome del beneficiato, che porta a dimenticare e rimuovere dalla propria coscienza i benefici ricevuti. Mia madre mi ha dato un prezioso insegnamento al riguardo: quando ricevi anche il più piccolo aiuto, te ne devi ricordare per tutta la vita per contraccambiarlo nel momento giusto.

Messo da parte lo spirito di collaborazione, si ricade in una logica meramente mercanteggiante in cui trova posto soltanto quel che torna egoisticamente e immediatamente utile. La cosa grave è che la difficoltà a quadrare il cerchio degli aiuti reciproci non dipende forse tanto dalle sfiducie interconnesse (i Paesi del Nord virtuosi e rigorosi, quelle del sud spendaccioni e inaffidabili), ma dai calcoli di pura convenienza a cui non si riesce neanche minimamente a rinunciare.

Scrive Enrico Grazzini su MicroMega: “In Europa, e nell’Eurozona in particolare, si litiga sugli eurobond, le obbligazioni comuni europee che verrebbero garantite con i soldi della Banca centrale europea: la cosa buffa (apparentemente) è però che i soldi non costano nulla alla Bce. La moneta è fatta al 95% di bit che costano zero, e al 5% di carta che costa quasi nulla. Stampare moneta è gratis ma la moneta ha un formidabile potere magico: può fare ripartire l’economia, l’occupazione e i redditi. La Bce potrebbe stampare tutta la moneta necessaria per rilanciare l’economia europea che si avvia verso una recessione a precipizio. Invece è frenata e congelata dalla Germania che ha tutto l’interesse all’austerità monetaria. Infatti, più i Paesi mediterranei cadono in recessione, più i capitali fuggono verso Deutschland. Così lo spread – il differenziale del costo del debito con la Germania – sale per i Paesi più fragili. In questo modo l’economia tedesca può avvantaggiarsi dalla speculazione finanziaria e indebitarsi a tassi negativi o irrisori.
Prima della moneta unica, se i capitali fuggivano verso il marco questo si rivalutava, e la corrispondente svalutazione della lira faceva sì che l’Italia rimanesse a galla grazie all’aumento dell’export. Ora invece, con la moneta unica, la pressione di mercato sui titoli del debito pubblico fa sì che i Paesi periferici dell’euro – come l’Italia – rischiano di non potersi più finanziare e di fallire, o di dovere ricorrere alle “amorevoli cure” della Troika”
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Chiedo scusa per la lunga ma opportuna ed autorevole citazione. Tempo fa mi raccontavano di un personaggio assai ricco e molto avaro. Se qualcuno dei suoi debitori osava chiedergli di mettersi una mano al cuore, lui rispondeva all’interlocutore di mettere la mano al portafogli. Non voglio essere patetico, ma siamo più o meno a questo punto. Il coronavirus ha colpito duro l’Italia, sta colpendo duramente la Spagna e la Francia. Nessuno però è direttamente e/o indirettamente esente da questa tremenda situazione. Nei momenti gravi c’è sempre chi specula o almeno approfitta delle disgrazie altrui. Se, sul piano finanziario, chi sta meglio riesce a sfruttare una sorta di rendita di posizione, sul piano economico e commerciale il discorso è alquanto diverso. Se i deboli si indeboliranno ulteriormente, andranno fuori mercato, non consumeranno e non offriranno opportunità produttive ai ricchi: andrà in crisi l’intero sistema e anche i ricchi piangeranno.

Questo discorso è stato ben sintetizzato e provocatoriamente lanciato alla virtuosa Olanda: chi acquisterà in prospettiva i suoi tulipani? Se li mangeranno in casa? Li butteranno in mare? Mio padre, arrivando in modo colorito al dunque della solidarietà, lanciava la sua regola d’oro e sosteneva: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”.

Qualcuno pensa che la durezza dei Paesi nordeuropei sia dovuta a motivazioni politiche interne: la forte presa dei nazionalisti e sovranisti, che lucrerebbero consensi e voti reazionari rispetto ad un’apertura di credito europea verso il sud. Calcoli miopi, quasi vomitevoli. A proposito, come la mette Salvini con questi finti alleati, che gli si ritorcono contro nel momento del bisogno? Forse pensa al tanto peggio tanto meglio per dare la picconata definitiva all’Europa? Qualcuno farnetica minacciando che il nostro Paese possa fare da solo: si sbaglia di grosso. Chi fa da sé, fa per tre, dice un noto proverbio. Preferisco quello che dice: l’unione fa la forza. Questione di gusti…

 

La piccante similitudine delle quindicine

Ho titolato il commento di ieri usando (im)propriamente il termine “casino” riferito alla situazione che costituisce il contesto in cui si inseriscono le restrizioni adottate per il comportamento dei cittadini in chiave anti-coronavirus. Ebbene, nei bordelli italiani ogni 15 giorni “ruotavano” le ragazze (per offrire ai clienti una certa varietà, ma anche per evitare complicazioni sentimentali). E quando arrivava la “nuova quindicina” trovava il modo di farsi vedere in giro per eccitare la fantasia dei maschi del paese…

Proseguo quindi la piccante similitudine (che non vuole essere offensiva, ma soltanto incisiva) alla luce delle novità legislative sfornate dal governo a sostegno delle imprese bastonate dall’emergenza e in piena crisi produttiva, commerciale e fiscale: sembra che siano stati adottati provvedimenti di una certa consistenza a livello di ricorso e sostegno al credito. Bene, speriamo sia terminata la quindicina delle “ragazze” inconcludenti ed iniziata quella delle “ragazze” che eccitano la fantasia delle imprese. La strada è quella della concretezza con iniezioni di fondi e fiducia.

Non mi iscrivo mai al partito dei disfattisti o dei brontoloni, ma il diritto di critica me lo conservo gelosamente e lo esercito generosamente: bisogna smetterla di fare confusione e agire con tempestività e precisione. Adesso si aprirà la partita dei tempi entro cui persone e aziende riusciranno a concretizzare gli aiuti previsti e stanziati. Speriamo che la burocrazia non entri in campo con le solite lungaggini, costruendo intorno agli aiuti il solito ginepraio di cervellotiche e incomprensibili regole applicative, perché il tempo, più che mai, è denaro. Non cominciamo, per pietà, a sfornare moduli a raffica, a tempestare la gente con inutili procedure: danaro fresco prima che sia troppo tardi.

Si parla tanto di fasi: da quanto ho capito, quella dell’emergenza difensiva, quella della convivenza costruttiva, quella della normalizzazione progressiva. Mi sembra inopportuno schematizzare per non creare aspettative azzardate se non colpevoli illusioni. La scienza e la medicina dovranno fare il loro percorso a supporto della battaglia. Speriamo non subentrino paralizzanti competizioni, assurde gelosie, affaristiche manovre. Aspettiamo con fiducia il corso virtuoso della ricerca, della sperimentazione e della auspicabile vaccinazione.

Nella mentalità corrente mi sembra si scontrino due atteggiamenti, magari aggrovigliati o sovrapposti: da una parte la comprensibile voglia di tornare in fretta ad un simulacro di normalità, che renda vivibile l’esistenza alquanto sconquassata, con tutti i rischi di una frettolosa ed irresponsabile fuga dall’emergenza; dall’altra parte la consapevolezza che purtroppo (?) la situazione non sarà più la stessa: anche un eventuale vaccino non potrà passare un colpo di spugna sull’esperienza e sulla sofferenza drammaticamente vissute.

Mentre le prime due fasi di cui sopra si misureranno in termini di quindicine di mesi, l’ultima la vivremo, se andrà bene, in quindici anni o più. Non so cosa cambierà, ma prepariamoci a rivedere schemi di ragionamento, sistemi di organizzazione sociale, regimi di mercato, assetti produttivi, rapporti internazionali, etc. etc. Potrebbe essere una epocale opportunità se vissuta in modo positivo, una ulteriore causa di insofferenza e difficoltà se subita in modo negativo. Prepariamoci tutti, perché il bello (almeno speriamo sia così) deve ancora venire: sarà un mondo più giusto ed equo o avremo una società sfilacciata e sbracata? Per tornare alla similitudine iniziale, si aprirà una nuova quindicina, probabilmente di anni. Lasciamo perdere con quali e quanti ruoli e protagonismi. Chi vivrà, vedrà e soprattutto agirà. Dovremo far funzionare la fantasia possibilmente eccitata da una classe di governo caratterizzata, come sostiene Walter Veltroni, dalla competenza: sì, probabilmente alla fame di valori si dovrà rispondere anche con il cibo e il fascino della conoscenza e della capacità realizzativa.

Un casino chiamato lockdown

Vedo grosse difficoltà nelle difficoltà: mi preoccupa lo stato confusionale in cui vivono i cittadini, che si aggiunge allo stato d‘ansia, al limite e spesso oltre il limite dell’angoscia. La gente è presa in mezzo tra la rissosa e parolaia inconcludenza dei governanti a tutti i livelli, il chiacchiericcio morboso dei media e l’altezzoso e contrastato sputasentenze degli esperti.

Il ministero degli Interni dice che si possono, entro certi limiti, portare a spasso i bambini, indicazione subito smentita dal governo e successivamente corretta dal ministero stesso; il presidente della regione Lombardia emette un provvedimento per l’uso obbligatorio di mascherine a carico di quanti escono di casa, disposizione accolta con molto scetticismo e con un garibaldino “obbedisco” da parte del sindaco di Milano; tutti i giorni cambia la distanza di sicurezza da cui tessere rapporti  con le persone: un metro, due metri e chi più ne ha più ne metta; l’Organizzazione mondiale della sanità lascia intendere ciò che in molti (compreso il sottoscritto) temono, vale a dire che la presenza del virus resista nell’aria e che quindi occorra fare attenzione a dove si passa, perché qualcuno in quel punto potrebbe avere sternutito per poi dileguarsi più rapidamente del virus (non ho capito se fosse una fake news cucinata molto bene o una chicca scientificamente buttata nell’agone): sciocchezze comunque per l’Istituto superiore di sanità; il responsabile della protezione civile azzarda un pronostico sulla durata del cosiddetto lockdown, subito tacitato e costretto a fare marcia indietro (ha pisciato fuori dal vaso e ha dovuto pulire immediatamente il pisciatoio). Si tratta solo di alcuni esempi in una serie di tira e molla: una contraddizione al giorno leva la calma di torno. Ma chi li obbliga a parlare se non hanno niente da dire?

In qualsiasi canale televisivo e in qualsiasi momento ci si sintonizzi si parla di coronavirus alla spasmodica ricerca di audience in un tourbillon di voci e di pareri. Sul coronavirus si fa salotto e la tentazione di parteciparvi è grande. Sempre le stesse cose ripetute in modo diverso e condite con l’aggiunta di opinioni speziate, di pareri pepati e di consigli salati. Il palato dello spettatore è sicuramente rovinato.

Se passiamo agli esperti, quelli che le fanno cadere dall’alto, il clima si fa ancor più pesante e minaccioso: ognuno fornisce una versione diversa, con ottimismo o pessimismo a seconda dei casi, ma senza realismo, perché purtroppo nessuno conosce davvero questa tremenda realtà, nelle cause, negli effetti, nei rimedi e nelle soluzioni.

In mezzo a questo traffico impazzito si pretende che il cittadino stia buono e fermo, imperterrito di fronte a chi lo governa, che dà dimostrazione di non avere assolutamente in mano la situazione, davanti alle vetrine mediatiche piene di prodotti adulterati e sofisticati, in religioso ascolto dei sacerdoti del sapere, che balbettano le loro improvvisate analisi.

Come ho già scritto, la tentazione di sentirsi presi per i fondelli e di mandare tutti a quel paese, o se preferite di “buttare il prete nella merda”, è forte e crescente. Ma ci potrebbero essere rischi ben maggiori: di passare cioè da una trasgressione personale a una sorta di rivolta sociale del “tutti contro tutti”, istigata da professionisti della violenza e/o da burattinai di stampo mafioso. Qualcuno sta dicendo che questi ultimi siano già all’opera con distribuzione gratuita di beni di prima necessità, pagati con un certo qual contraccambio di tolleranza o connivenza con i fenomeni mafiosi. È inutile nasconderselo, in Italia c’è la mafia, che va a nozze laddove le pubbliche istituzioni dimostrano la loro debolezza, pronta a coprire i vuoti di Stato con i pieni di delinquenza.

Il governo centrale e le regioni avevano dato l’impressione di partire col piede giusto, ora sembrano in stato confusionale in difesa della loro immagine: sembrano quelle donne, più o meno belle, che reagiscono ai gravi problemi nei rapporti coi loro uomini, truccandosi in modo vistoso e provocante per accalappiare i recalcitranti compagni di avventure in ben altre faccende affaccendati. Fate tutto il possibile, fatelo bene, fatelo in fretta, prima che alla polmonite virale si aggiunga quella sociale in attesa di quella economica. Nessuno pretende miracoli, ma invece della difesa oltranzistica della propria (in)azione, della propria (in)competenza, della propria (in)coscienza, bisognerebbe provare, nei limiti del possibile, a difendere i cittadini dal coronavirus.

I tamponi in difesa dell’europeismo

Tra le forze politiche rappresentate nel parlamento europeo ho da sempre pensato che la più affidabilmente e veramente europeista sia il partito dei Verdi. Li ho anche votati in un paio di elezioni europee. In Italia purtroppo lo spessore culturale e politico di questo movimento si affievolisce. La dimostrazione sta anche nell’iniziativa lanciata da tre esponenti verdi, Sven Giegold, Alexandra Geese e Franziska Brantner: un appello italo-tedesco rivolto alla cancelliera tedesca Angela Merkel e alla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen per spingere sull’emissione dei coronabond. La proposta parte appunto dai tre eurodeputati Verdi tedeschi ed è stata sottoscritta anche da molti eurodeputati, politici e intellettuali italiani come Enrico Letta, Mario Monti, Tito Boeri, Fabrizio Barca, Emma Bonino, Leoluca Orlano, Carlo Feltrinelli, Angelo Bonelli, Gad Lerner, Giulia Maria Crespi e altri. Io, quale signor nessuno, lo firmerei convintamente.

“L’avvento della pandemia del Corona virus è una prova che nessuno di noi in Europa si è mai prima d’ora trovato a dover fronteggiare”, si legge nel testo dell’appello. “L’Italia è stato il primo Paese europeo a essere colpito profondamente da questa pandemia e ha pagato un prezzo elevatissimo, sacrificando un gran numero di vite umane” è la premessa. “Abbiamo bisogno ora di una maggiore solidarietà europea. È un momento cruciale per la cooperazione in Europa. Dobbiamo dimostrare ora di essere una comunità di valori in cui ci si aiuta vicendevolmente e con un destino comune nel quadro di in un mondo globale turbolento. È il momento di compiere con coraggio passi comuni per superare la paura. È il momento dell’unità europea e non della divisione nazionale. Chiediamo quindi ai nostri governi di superare i vecchi schemi di divisione in Europa e nell’Eurozona”.

Quindi la richiesta di dare subito il via ai coronabond: “Auspichiamo quindi l’emissione di European Health Bonds (Titoli Obbligazionari Europei a supporto della Sanità), che abbiano un obbiettivo comune, chiaro, definito e soggiacente a linee guida stipulate congiuntamente. Ciò permetterebbe di sostenerne l’intero onere congiuntamente e democraticamente”.

Due brevi riflessioni di seguito a ruota ultra-libera, a mente libera e a cuore aperto. Perché mi interessano i Verdi? Perché in essi vedo uno stimolo, un pungolo, una possibilità di coniugare i valori storici della democrazia con i problemi storici del presente e del futuro: le libertà, la giustizia sociale, il lavoro, assieme al rispetto per l’ambiente, alla salvaguardia del territorio, allo sviluppo sostenibile, a cui aggiungo l’europeismo quale stanza di compensazione ideale di tutte queste spinte virtuose per l’uomo e per la società.

Ed eccoci infatti all’Europa: penso che il post-coronavirus sia l’ultimo treno per rilanciare un’idea di Europa solidale nello sviluppo. In questo momento storico non si può scherzare o giocare al rinvio: chi ci sta, ci sta! Forse è anche il momento di fare delle verifiche: il tampone va fatto anche ai politici per verificare se sono affetti dai virus del nazionalismo, del populismo e del sovranismo. Lunga e irreversibile quarantena per i contagiati. Il vaccino non può essere che l’Europa, capace di delineare un futuro accettabile per il mondo intero. Come diceva Nicolò Carosio: sarà dura!

 

 

Cavalieri solitari di Gran Croce

Chiese aperte a Pasqua. È la proposta del leader della Lega Matteo Salvini: “Non vedo l’ora che la scienza e anche il buon Dio, perché la scienza da sola non basta, sconfiggano questo mostro per tornare a uscire. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua e occorre anche la protezione del Cuore Immacolato di Maria. Sostengo le richieste di coloro che chiedono, in maniera ordinata, composta e sanitariamente sicura, di farli entrare in chiesa. Far assistere per Pasqua, anche in tre, quattro o in cinque, alla messa di Pasqua. Si può andare dal tabaccaio perché senza sigarette non si sta, per molti è fondamentale anche la cura dell’anima oltre alla cura del corpo. Spero che si trovi il modo di avvicinare chi ci crede. C’è un appello mandato ai vescovi di poter permettere a chi crede, rispettando le distanze, con mascherine e guanti e in numero limitato, di entrare nelle chiese come si entra in numero litato nei supermercati. La Santa Pasqua, la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, per milioni di italiani può essere un momento di speranza da vivere”. Fin qui Matteo Salvini, che non perde occasione per attaccarsi furbescamente agli umori della gente: questa volta dal di fuori della Chiesa, cioè dal pulpito politico lancia una provocazione alla Chiesa stessa, con ragionamenti di mero buon senso in una materia dove il buon senso non basta, anzi rischia di farci deviare.

Il 16 marzo scorso Enzo Bianchi, dal di dentro della Chiesa e da un pulpito molto più credibile e sincero, lanciava anche lui la sua provocazione: “Un cristiano avrebbe obiezioni da fare di fronte ai vari atteggiamenti che si manifestano in questa emergenza, soprattutto riguardo alla liturgia eucaristica, che deve sempre essere azione di tutta la comunità, senza surrogati che smentiscono la realtà umana del corpo di Cristo che è la comunità e la realtà sacramentale del corpo di Cristo nel pane e nel vino. È vero che si può pregare in casa, nel segreto — come chiede anche Gesù —, ma senza eucaristia domenicale per i cristiani non è possibile vivere”. Immaginiamoci se questo discorso non dovrebbe valere per la Pasqua.

Innanzitutto chiediamoci: il coronavirus ha risvegliato il senso religioso e comunitario della gente o è soltanto una epidermica sensazione di vuoto, la domenica delle Palme senza ulivo benedetto come succede per il Natale senza neve? A mio modesto avviso l’angosciante problema umano e religioso non è tanto l’impossibilità di partecipare fisicamente alle celebrazioni pasquali, ma essere costretti a vivere e morire senza poter esprimere l’amore, confinato nel nostro intimo e che grida per uscire e che chiede aiuto per farsi ed avere spazio. La vera tragedia della situazione che stiamo vivendo consiste nel soffrire, nel morire e nel veder morire in disperante solitudine: questa è la demoniaca sfida del virus, che ci costringe e ci condanna ad un capovolgimento del comandamento della carità.

A questo non posso rassegnarmi, in questo sta la paradossale contraddizione della sofferenza, che porta sempre alla solitudine, ma non totale. Gesù sulla croce si sente solo e abbandonato, ma c’è sua madre Maria, sua zia Maria di Cleofa, c’è la Maddalena che lo ama svisceratamente, c’è il discepolo amato, c’è la sua umana famiglia da cui Lui fa scaturire la Chiesa. Anche allora vi era il divieto di avvicinare i condannati a morte, di toccare i cadaveri, in un mix umano-etico-religioso di regole per evitare un diverso, ma ben più paradossale, contagio.

Il mistero della sofferenza, che rimane tale, è stato comunque squarciato dalla lancia, che ha trafitto il costato di Gesù fino a fargli versare anche l’ultima goccia di sangue che gli rimaneva: Gesù ha sofferto tutta l’umana sofferenza e se ne è caricato per darle un senso redentivo e prospettico con la Risurrezione. Era solo nell’orto degli ulivi, ma arriva un angelo a sostenerlo; era solo lungo il percorso che porta al Calvario, ma c’erano le donne che piangevano, la Veronica che gli asciugava il volto, il Cireneo che lo aiutava a portare la croce; era solo inchiodato al legno, ma oltre alle presenze amiche c’era persino un ladrone che solidarizzava con lui. Forse che il coronavirus sta esagerando, facendoci vivere la più atroce delle sofferenze? La solitudine assoluta? Non è un caso se tendiamo a santificare e/o “angelizzare” gli operatori sanitari: sono le uniche presenze o parvenze di una carità di fatto nella desolazione dell’isolamento.

Torno a Enzo Bianchi, il quale pone interrogativi pertinenti, ma senza evidente risposta: “Chi si ammala e va verso la morte ha bisogno dei sacramenti, della consolazione cristiana, di vivere la speranza della resurrezione con i fratelli e le sorelle, senza sentirsi abbandonato. Se la Chiesa non sa essere presente alla nascita e alla morte delle persone, come potrà mai esserlo nella loro vita? Pastori senza pecore e pecore senza pastori? Pastori salariati meno disposti alla cura dei fedeli e dei loro bisogni spirituali rispetto a medici e infermieri del corpo? Per grazia conosco preti che non abbandonano le pecore malate, anzi le vanno a cercare e a curare affinché vivano in pienezza”.

Siamo soli, chiusi in casa e fin qui niente di drammatico. Il problema è che abbiamo dentro la tristezza di vacillare di fronte al bisogno d’amore che viene dalla Pasqua e non sappiamo come viverla: il video è consolatorio, lo capiamo; la preghiera è troppo solitaria, lo sentiamo. Ci resta la sofferenza, che nemmeno una furtiva presenza in chiesa potrebbe risolvere. Quella sofferenza che nessun vaccino al mondo può risolvere. Ci resta solo la possibilità di guardare il Crocifisso, di fissarci solo su di Lui e di sentirci uniti a Lui per risorgere con lui dopo tre giorni, alla faccia del coronavirus.

Le messe trasmesse

Avete presente le vecchiette che, cascasse il mondo, di prima mattina si recavano a messa? Il mondo sta cascando e io mi limito a seguire in televisione la messa mattutina, celebrata da papa Francesco, sul canale 28 di TV 2000 e da qualche giorno proposta persino su Rai 1. Mi sento molto più vicino alle vecchiette di un tempo piuttosto che alle scosciatissime e petulanti conduttrici televisive di oggi.

In linea con questa opzione culturale un po’ retró e un po’ gourmet, come ho già avuto modo di scrivere, nella bagarre mediatica scatenatasi sul coronavirus ho fatto la scelta difensiva di guardare poca televisione e, per quella poca, di sintonizzarmi su TV 2000, il canale televisivo della Conferenza Episcopale Italiana. Questa scelta non significa per me una ricaduta nell’integralismo o ancor peggio nel bigottismo: non amo la scuola cattolica, figuriamoci se faccio il tifo per la televisione cattolica.

Sono perfettamente coerente con gli insegnamenti di due maestri: don Dagnino prima e di don Scaccaglia poi, i quali avevano uno spiccato senso laico della religione, meglio dire della fede.  Erano piuttosto contrari alla scuola privata, anche quella cattolica. Sarebbe comodo, diceva don Dagnino, avere una scuola a propria misura ideologica. Nossignori, bisogna avere il coraggio di mettersi a confronto con i non credenti, testimoniare la fede in campo aperto. E poi chi ha detto che i cattolici siano migliori degli altri, ma lasciamo perdere…

Seguo TV 2000 perché mi illudo di trovare una correttezza e positività di proposta maggiore rispetto ai canali televisivi normali. Nella Rai vorrei trovare equilibrio, misura, obiettività garantiti dalla natura pubblica del mezzo, ma purtroppo tutto è condizionato dalle mere esigenze di audience legate ai contratti pubblicitari: c’è il canone, ma, a quanto pare, non basta a sdoganare la Rai dalla logica commerciale. Lo stile televisivo è molto simile a quello delle tv private, se escludiamo le reti di carattere storico e culturale. Figuriamoci cosa mi aspetterei dalla Tv dei vescovi…

Invece registro abbondante ricorso alla pubblicità prettamente commerciale ed anche a quella etica, intendendo con essa l’insistente e stucchevole propaganda verso enti ed istituzioni impegnate in campo socio-culturale. Ormai non manca più che, durante le numerose messe, si faccia una breve pausa pubblicitaria fra la liturgia della parola e quella eucaristica e durante i rosari fra la contemplazione di un mistero e l’altro. Già comunque infastidisce assai che prima e dopo trasmissioni di riti religiosi ci si precipiti a lanciare messaggi pubblicitari: mi dispiace ma non ci sta!

E che dire dell’autopromozione dei riti stessi, ripetuta con insopportabile insistenza o della strumentalizzazione delle immagini sacre o delle figure di Santi per accalappiare audience su trasmissioni a sfondo religioso. Cos’è? Una mediatica forma di proselitismo? Una propaganda religiosa riveduta e scorretta? TV 2000 sta diventando un autoreferenziale carrozzone religioso? Il papa è la star ed attorno a lui vengono fatti ruotare programmi e talk show di dubbia validità? Si salvano le dirette ed infatti sempre più mi limito ad esse, facendo la tara a tutto il resto. Rimane comunque un gap di positività rispetto alle altre televisioni, ma si potrebbe pretendere molto di più.

Perché non chiedere ai cattolici un contributo che si sostituisca agli introiti pubblicitari? Perché non inserire un po’ di sana austerità nella scelta dei palinsesti: non voglio una televisione “pallosa” e “bigotta”, ma nemmeno una TV che si preoccupi di diffondere la voce ufficiale della gerarchia costi quel che costi. Il coronavirus da una parte ha offerto la buona occasione di distinguersi dal fanatismo mediatico generale e qualcosa di questa opportunità è stato fortunatamente colto; occorre tuttavia uscire da una certa patina clericale e soprattutto da una certa subdola commercializzazione delle attenzioni religiose. La qualità dei programmi è abbastanza buona da tutti i punti di vista, quindi ci sarebbe spazio per un bel passo avanti: un po’ di laicità in più e un po’ di clericalismo in meno. Boccaccia mia statti zitta!

 

Gli slogan più virali del virus

“Andrà tutto bene” è lo slogan che va per la maggiore, più demenziale che incoraggiante, scritto in buona (?) fede su striscioni e cartelloni. Circola, così mi hanno detto, un video/bufala in cui un balcone, su cui era esposto lo slogan di cui sopra, crolla, lasciando un cumulo di macerie sul terreno sottostante. L’assurdità della frase, balcone a parte, è abbastanza evidente. Come possa andar tutto bene, con centinaia di morti al giorno, con sofferenze pazzesche di chi muore e di chi sopravvive, con angosce generalizzate, è difficile da immaginare anche per i più alienati e alienanti ottimisti.

Forse nel bel mezzo di una vicenda, a mio giudizio al momento senza vie d’uscita, bisogna sfoderare le illusioni per sopravvivere. Abbiamo vissuto di paure: per l’invasione degli immigrati, per l’insicurezza da delinquenza, per l’incertezza del futuro. Improvvisamente, rintronati dallo shock da pandemia, proviamo a vivere di illusioni.  Slogan per slogan, si dovrebbe trovare un’espressione un po’ più ragionevole, un “ce la faremo”, un “non molliamo” o roba del genere. Non sappiamo nemmeno farci coraggio seriamente, preferiamo evadere: lo stiamo facendo da molto tempo e non riusciamo a liberarci da questo stato d’animo deresponsabilizzante.

Da una parte siamo martoriati da una pioggia battente di fake news: non so se siano più fake quelle che girano sui social, esorcizzate da tutti e bevute da (quasi) tutti, o quelle ufficiali provenienti delle autorità competenti (?). Dall’altra parte siamo invogliati a negare la drammatica evidenza per sfuggire al “brutto sogno” che stiamo facendo.

La triste realtà è che del coronavirus non abbiamo capito ancora niente e stiamo brancolando nel buio: non sappiamo da dove venga, come si propaghi, come si possa combattere e, ancor meno, come si possa vincere. Sappiamo solo che si muore di polmonite e, se andiamo avanti così, di paura. Mi fanno incazzare le previsioni arzigogolate sull’andamento dei contagi e sulla mortalità conseguente. Stando alla protezione civile, il dato ultimamente incoraggiante sarebbe quello dell’aumento delle guarigioni: pazienza se avvengono con l’accompagnamento dell’aumento dei decessi.

L’altra sera, in una delle stucchevoli conferenze stampa, il premier Giuseppe Conte ha fatto una lezioncina sul rapporto tra indicazioni scientifiche e scelte politiche. Non bastano le une e non possono viaggiare autonomamente le altre: giustissimo! La questione è che mancano sostanzialmente le une e le altre. Basti pensare che gli esperti non sono d’accordo nemmeno sulla distanza da tenere fra le persone per difendersi dal contagio: un metro? due metri? La politica può scegliere un metro e mezzo!  Vogliamo smetterla di prenderci per i fondelli?

In un clima del genere è normale che aumenti la trasgressione alle regole imposte. Il ragionamento sbagliato, ma spontaneo, che probabilmente e desolatamente si sta facendo strada, anche in me, è il seguente: se l’isolamento forzato e tutte le altre menate varie non funzionano, non danno risultati, tanto vale…I tempi stanno diventando infiniti e tali da chiedersi se il gioco valga la candela. Ecco allora che spunta l’altro slogan che va di moda, sui canali televisivi, negli inviti dei vip, negli hashtag sui social: “io resto a casa!”. Da uno slogan all’altro, tutto sempre più demenziale ed opportunistico. L’unico invito accettabile e realistico potrebbe essere: “siamo seri e responsabili!”. Sì, perché la serietà e il senso di responsabilità sono al momento gli unici antivirus di qualche efficacia.

Grillo all’ultimo vaffa

Mi ero illuso che i grillini avessero finalmente ripiegato sul silenzio operoso, invece a squarciare il cielo pentastellato ci ha pensato Beppe Grillo con un vaffa sistemico. Beppe Grillo torna sulla scena. E lo fa con un articolo sul suo blog in cui lancia una proposta: “E’ l’ora del reddito universale per tutti”. Come scrive “la repubblica”, Il leader cinque stelle afferma: “E’ arrivato il momento di mettere l’uomo al centro e non più il mercato del lavoro. Per fare ciò si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito di base universale, per diritto di nascita, destinato a tutti, dai più poveri ai più ricchi”.

Nel suo lungo post Grillo parte dalla premessa che “l’Organizzazione mondiale del lavoro stima che la disoccupazione globale potrebbe colpire 25 milioni di persone (la crisi del 2008 ha comportato un aumento di 22 milioni di disoccupati). Milioni di persone cadranno sotto la soglia della povertà”. Guardando al nostro Paese “milioni di italiani non avranno nei prossimi mesi un’entrata garantita”. Ma, continua, “se nel 2007 avevamo affrontato una crisi finanziaria, che si era propagata all’economia italiana, qui siamo di fronte a qualcosa di molto più radicale, una crisi che investe tutti i settori. Forse alcune filiere non si riprenderanno mai o non torneranno più come prima”.

Le profezie “grilline” potrebbero dunque avverarsi in tempi molto rapidi: “Abbiamo sempre detto che circa il 50% dei posti di lavoro negli anni sarebbe scomparso per l’automazione e i cambiamenti tecnologici. Quei cambiamenti adesso sono avvenuti non in anni, ma in un solo mese. Con un colpo di tosse”. A Grillo risponde il leader di Italia Viva Matteo Renzi: “Il disegno di Beppe è decrescita felice e reddito di cittadinanza, il mio crescita e lavoro”.

Non mi sembra uno scontro fra titani del pensiero politico. Mentre Grillo postula una politica di stampo sabbatico, Renzi si arrocca in difesa del riformismo classico. Il primo fa la parte del più lapalissiano dei Lenin, del comunista massimalista di ennesimo pelo, il secondo interpreta il ruolo turatiano a circa cent’anni di distanza. Se il coronavirus serve a rimbalzare sugli schemi del passato, è finita. Innanzitutto è necessaria una pausa di riflessione: l’azione politica deve essere volta a salvare il salvabile in vite umane e in strutture economiche. Poi sarà il tempo della elaborazione dei nuovi modelli post-coronavirus.

Grillo, come sempre, le spara grosse, fa concorrenza al papa, si candida a gestire il nuovo che dovrà venire, sta riciclando il suo movimento, che sembra spento e sfilacciato. Non si può essere in disaccordo con lui, perché fa la scoperta dell’acqua calda del cambiamento radicale. Dal bar del vaffa è passato al bartaliano “tutto sbagliato, tutto da rifare”, con la differenza che Bartali sapeva prendere la bicicletta e salvare migliaia di persone: Grillo al massimo prenderà la sua bella automobile per salvare un po’ di voti.

Matteo Renzi, altro comunicatore di razza, non può starsene zitto, non resiste alla tentazione e fa la sua generica boutade, che vuol dire tutto e niente. Forse varrebbe la pena che il presidente della Repubblica, oltre che mandare pressanti e sacrosanti inviti all’unità e alla collaborazione, oltre che preparare sotto-traccia nuovi scenari governativi indispensabili come il pane, chiedesse un po’ di religioso silenzio ai chiacchieroni ed ai cialtroni di cui siamo pieni zeppi. Il più bel tacer non fu mai scritto. Speravo che lo avesse scritto il coronavirus, ma mi sono sbagliato.