L’ottimismo della irresponsabilità

Continua minacciosamente la litania delle cifre del coronavirus, che ci viene giornalmente propinata. Delle macabre quotazioni quella che maggiormente mi angoscia riguarda il numero dei decessi. I morti continuano, si sono attestati intorno ai 500 giornalieri: basterebbe questo dato per calmare i bollenti spiriti dei normalizzatori.

Gli esperti dicono che le persone che muoiono di coronavirus in media si sono ammalate nei quattordici giorni precedenti e quindi le morti attuali risalirebbero alla malattia contratta in pieno regime di lock down. Ragion per cui le restrizioni sembrano funzionare molto relativamente: per errori nell’individuazione delle cause del contagio o per insufficienza delle misure di isolamento sociale adottate o per scarsa osservanza delle regole da parte dei cittadini. Probabilmente saranno tutte concause di un risultato piuttosto deludente nella lotta al coronavirus.

Stiamo vivendo in un autentico bagno di sangue a livello sanitario, a cui molto probabilmente se ne aggiungerà un secondo a livello sociale: fallimenti, disoccupazione, miseria. L’ottimismo non è il mio forte per cui non pretendo che tutti piangano disperatamente assieme a me. Ma faccio fatica ad accettare chi spinge sull’acceleratore per entrare nella cosiddetta fase due, quella della ripresa dei rapporti socio-economici. Ci rendiamo conto delle difficoltà, ma soprattutto dei rischi che comporterà. Non si può parlare di convivenza con una malattia che tuttora fa 500 vittime al giorno. Siamo ancora in piena prima fase, non raccontiamoci balle. La speranza non deve morire, ma non ci deve far morire.

È pur vero che oltre le malattie fisiche e personali esistono quelle sociali: non mi pare che la strada giusta per prevenire le seconde sia quella di sottovalutare le prime. C’è ancora troppa incertezza sui dati epidemiologici, c’è ancora troppa confusione negli esperti, c’è ancora troppa debolezza e divisione nei pubblici amministratori, c’è ancora troppa velleità nelle forze economiche, c’è ancora troppo corporativismo nelle forze sociali, c’è ancora troppa irresponsabilità nella gente più propensa a rimuovere dalla mente la gravità della situazione piuttosto che affrontarla con realismo e serietà.

Non vedo all’orizzonte un progetto credibile e fattibile che ci possa aiutare ad uscire dal tunnel: siamo lontani dall’uscita dall’emergenza, ci siamo ancora dentro fino al collo. I politici smaniano per ridare fiato alla società e magari anche al loro elettorato: una di queste mattine papa Francesco ha pregato espressamente affinché i politici sappiano guardare al bene comune e non al bene del partito. Discorso trito e ritrito, che tuttavia non è assolutamente superato. Basti vedere i contrasti suscitati nel fissare la data delle prossime elezioni regionali: il solo parlarne mi mette la pelle d’oca. Possibile, in un momento simile, preoccuparsi delle elezioni? Ma fatemi il piacere…

È inutile continuare a parlare di normalità, stiamo vivendo nella più totale delle anormalità. Smettiamola di illudere la gente, diciamo poche e precise cose, parliamo chiaro, prepariamoci al meglio, ma affrontiamo con la dovuta attenzione e concretezza il peggio in cui siamo ancora invischiati. Antonio Gramsci parlava del pessimismo della ragione contrapposto all’ottimismo della volontà per spiegare come al riscatto dell’uomo in una civiltà nemica dell’uomo stesso possa provvedere solo la forza di volontà, al di là dell’analisi fattuale che invece ci condannerebbe al pessimismo e alla rassegnazione. Voglio credergli ed applicare il suo profondo ragionamento al riscatto dell’uomo dal coronavirus. Mi sembra però che anziché sull’ottimismo della volontà si stia puntando su quello della irresponsabilità.

Il mondo in contropiede

La cosiddetta ripartenza in clima di coronavirus viaggia sul filo del rasoio della omogeneità nazionale dei tempi e dei modi: il rischio è che ci scappi una confusione tale da indispettire e spingere tutti ad una sorta di ribellismo per sopravvivere. Dobbiamo essere seri e affrontare la realtà. Mi sembra patetico ipotizzare le spiagge con gli ombrelloni a distanza di sicurezza (?), il bagno in acqua contingentato, la turnazione delle passeggiate sul bagnasciuga, i bagnini che multano i bagnanti se mettono un piede fuori del recinto, le chiacchiere sotto l’ombrellone col megafono, il divieto dei castelli di sabbia e di tutti i giochi nella sabbia e in acqua. Meglio starsene a casa ed immergersi nella vasca da bagno o infilarsi sotto la doccia, prendendo la tintarella sul terrazzo o sul balcone (se rigorosamente individuali).

È solo un esempio, se ne potrebbero fare molti altri, ma è opportuno lasciare perdere per non scoraggiarsi ulteriormente. Meglio ripiegare pregiudizialmente su un discorso di fondo che molti fanno più sulle ali dell’etica e della poesia che dell’effettiva attuabilità. Mi riferisco al discorso del “non più come prima”, che mi trova teoricamente d’accordo, ma praticamente piuttosto perplesso e preoccupato. Ci sono mille ragioni per giudicare male il mondo costruito fino ad oggi: le ingiustizie, le contraddizioni, i controsensi si sprecano anche se ci siamo abituati a convivere con essi. L’occasione quindi dovrebbe essere validamente sfruttata per reimpostare fin dalle fondamenta un mondo migliore.

Se tornare indietro risulta velleitario e impossibile, cambiare tutto risulta estremamente sacrificale in termini personali, economici, sociali e culturali. A parte i tempi lunghi che occorrerebbero, bisogna mettere in conto sacrifici enormi per una riconversione globale, ammesso e non concesso che tutti i protagonisti siano d’accordo nell’intraprendere questa strada. Andatelo a dire a Donald Trump a cui preme soltanto la rielezione del prossimo autunno. Provate a parlarne al G8, opportunamente allargato alla Cina, e troverete d’accordo quasi tutti nel ripristino dello status quo ante-coronavirus. Un discorso rivoluzionario sistemico deve fare i conti con una sfasatura temporale pazzesca, nel senso che mentre i sacrifici sarebbero immediati e consistenti, i benefici sarebbero molto dilatati nel tempo, difficilmente quantificabili e distribuibili in modo paradossalmente diverso.

Mi sembra quindi che la prospettiva di un cambio radicale sia al momento una invitante esercitazione sociologica ed una profonda revisione di vita etico-culturale a livello personale. Bisognerà accontentarsi di andare avanti volando basso senza pretendere di tornare indietro. Mi sovviene la barzelletta del comiziante di turno in vena di promesse eccezionali: lavorerete un mese all’anno! E le ferie? chiede un esigente ascoltatore. Capirete cosa succederebbe se si dovesse prospettare di lavorare tutti di più, guadagnando meno in attesa di un nuovo lavoro per tutti riorientato non sul mercato ma sulla difesa del creato.

Non voglio fare del disfattismo, ma lo sforzo, che può diventare ideologico, di cambiare tutto rischia di finire gattopardescamente nel non cambiare nulla. Recepisco certi discorsi come utili e sane provocazioni alle quali però si deve corrispondere realisticamente e seriamente, alla maniera di papa Francesco: “Non pensiamo ai nostri interessi, agli interessi di parte, prepariamo il domani di tutti, senza saltare nessuno, senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno”.

Nel calcio si definisce ripartenza quel che un tempo si chiamava contropiede: mi piaceva di più la vecchia definizione perché meno enfatica e più pragmatica. Siamo drammaticamente in svantaggio e di parecchi gol: cerchiamo di prendere in contropiede la situazione evitando la confusa melina delle finte ripartenze e la salottiera illusione del no contest con partita da rifare daccapo.

Convivere o “conmorire” col virus

Quando entrò in vigore la riforma regionale, dopo quasi trent’anni dal varo della Costituzione che la prevedeva, v’era chi temeva che le potenziali regioni a maggioranza comunista potessero mettere a soqquadro la nostra democrazia. Rispose in modo ironicamente sdrammatizzante Francesco De Martino, allora segretario del Psi, che ridicolizzò le paure destrorse con l’ipotesi della rivoluzione tosco-emiliana fatta con l’esercito dei vigili urbani.

Il vero problema non era di carattere politico, ma di prospettiva istituzionale: l’autonomia regionale, se da una parte avrebbe potuto e dovuto rendere più efficiente e più partecipata la macchina pubblica, dall’altra parte esisteva il rischio di conflitti di potere, di confusione legislative e governativa, di crepe nella unità nazionale. La mancanza di chiarezza nell’assegnazione dei poteri, certe strumentali accelerazioni sui poteri delegati, certe spinte autonomistiche eccessive conseguenti ad un malcelato istinto accentratore e viceversa, hanno creato un quadro istituzionale abbastanza pericoloso e difficile da gestire al meglio.

Il coronavirus non sta solo creando problemi nuovi e drammatici, sta anche scoprendo gli altarini preesistenti e imbarazzanti: strada facendo stanno emergendo sempre più gli scombinamenti fra governo centrale e periferico. Il protagonismo regionale non ha niente a che spartire con un effettivo e serio esercizio dei propri poteri, così come l’esibizionismo centrale non riesce a contenere le smanie indipendentiste. Al riguardo assistiamo tutti i giorni ad uno spettacolo poco edificante: alcune regioni sulle ali del principio che col virus bisogna imparare a convivere rischiano di portarci a “conmorire” con esso; le regioni del sud temono che la fine di certe limitazioni possa comportare una movimentazione di persone tale da mettere a repentaglio le zone fino ad ora meno colpite; nel tempo si continuano a verificare giri di valzer tra prudenza e coraggio, anche se tutti chiamano in causa la scienza e la tecnica a supporto dei loro ragionamenti e delle loro indicazioni programmatiche.

Il governatore campano Vincenzo De Luca, con la sua solita e per certi versi simpatica verve, è passato dal lanciafiamme minacciato per le feste di laurea alla difesa oltranzistica dei confini regionali contro le “invasioni barbariche” del nord. C’era un tempo al nord Italia chi voleva alzare una barriera verso il sud per evitare immigrazione e succhiamento di ruote nordiste, ora il discorso si è ribaltato: un tempo si trattava, per dirla brutalmente, dei ricchi che non volevano i poveri, ora si tratta dei poveri che rifiutano i ricchi. Parola di coronavirus.

La partita, al di là delle uscite colorite di Tizio o Caio, si sta facendo delicata e tale da richiedere un forte impegno istituzionale per uscire da una situazione paradossalmente confusa e contraddittoria. Il governo centrale è in difficoltà. Mi sembra che possa essere (quasi) indispensabile un autorevole intervento del presidente della Repubblica nella sua funzione di garante dell’unità nazionale. Non è giusto che sia Mattarella a cavare le castagne dal fuoco incrociato dei vari Conte, Fontana, Zaia, De Luca, Emiliano e c. Tuttavia se lor signori continuano in questa penosa menata autonomistica e propagandistica, occorrerà pure che qualcuno li fermi e li riduca alla ragione, prima che sia troppo tardi. Errare è umano, perseverare è diabolico, scherzare è mortale. Si muore purtroppo di coronavirus, cerchiamo almeno di non morire di casino interregionale.

 

I sovrani(sti) senza corona(bond)

È gravissimo quanto successo al Parlamento europeo in materia di coronavirus, anche se non è facile capire bene i contenuti precisi dei deliberati su cui i rappresentanti di alcune forze politiche italiane si sono comportati in modo a dir poco strano.

Innanzitutto è perfettamente inutile attaccare l’Unione europea in quanto coacervo extra-istituzionale basato sui compromessi fra i partner e/o lussuoso e oligarchico catafalco burocratico lontano dagli interessi ed alle aspettative della gente. Chi cavalca queste accuse, peraltro non del tutto infondate, quando è il momento di valorizzare le istituzioni europee, come appunto il Parlamento, e il loro potere (?) di indirizzo, si rifugia su posizioni meramente strumentali e propagandistiche.

Chiedo scusa se faccio un rapido riferimento alla mia vita professionale assai legata all’impegno nel sociale nel campo cooperativistico. Mi è capitato di rappresentare la struttura provinciale del movimento a livello regionale e nazionale. Ciò che riuscivo a fare di positivo era direttamente proporzionale alla capacità di entrare in una logica di livello superiore, abbandonando il concetto asfittico e campanilistico della mera riproposizione degli interessi locali: acquistavo credibilità ed autorevolezza nella misura in cui sapevo affrontare i problemi con la necessaria competenza e in una logica allargata.

Quindi, se si vive la realtà parlamentare europea, bisogna avere il coraggio di superare le logiche nazionalistiche e di sganciarsi dai calcoli politici emergenti in sede nazionale, cercando un diverso filo da cui dipanare la matassa europea. Su questo piano i partiti italiani sono molto carenti in quanto tendono a nascondersi dietro una mera contrapposizione di comodo.

Questa situazione è clamorosamente emersa con leghisti e forzitalioti contrari all’emendamento presentato dal gruppo dei Verdi, che chiedeva la creazione dei coronabond per condividere il debito futuro degli Stati membri. Le delegazioni dei cinquestelle e del Pd hanno votato a favore, mentre quella di Italia Viva si è astenuta. La mozione è stata bocciata con 326 voti contro, 282 a favore e 74 astenuti. Con il voto positivo di Lega e FI sarebbe invece passata. Gli eurodeputati di Fratelli d’Italia hanno invece votato a favore dell’emendamento dei Verdi.

I cinquestelle hanno gridato al Tradimento ai danni dell’Italia, i democratici hanno accusato la destra di non aiutare il Paese, i verdi hanno parlato di falsi patrioti che si alleano con i nemici dell’Italia. La replica difensiva della Lega è arrivata in chiave altrettanto polemica: “Noi, a differenza del M5S e di Conte, che cambiano ogni settimana idea sull’argomento, non siamo mai stati a favore dello strumento coronabond, che corrisponderebbe alla totale cessione di sovranità all’Ue”. E hanno aggiunto: “Anzi, indichiamo sin dal principio la proposta più semplice, ovvero un ruolo più attivo da vero prestatore di ultima istanza della Bce per comprare Btp”.

Berlusconi ha usato toni assai più contenuti: “Oggi al Parlamento europeo abbiamo invitato la Commissione Ue a proporre un massiccio pacchetto per la ripresa e per la ricostruzione. Abbiamo ottenuto un risultato positivo sui recovery bond, che chiedevamo da tempo: si tratta di uno strumento garantito dal bilancio comunitario, ampiamente condiviso, e che pertanto avrà maggiore efficacia rispetto a superati eurobond proposti dai Verdi ma irrealizzabili”.

Mi sembra che i leghisti siano prigionieri dello schema sovranista a cui hanno sconsideratamente aderito e cerchino disperatamente di riproporre a livello europeo il gioco disfattista, che purtroppo finora ha funzionato in patria. Forza Italia si barcamena tentando di fare il pesce competente e pragmatico nel barile del velleitarismo di sinistra: il solito ormai quasi trentennale ritornello berlusconiano. Tutto sommato gli europarlamentari di Giorgia Meloni, a dispetto del nome del loro partito, rischiano di essere i meno nazionalisti della compagnia di destra.

Anche i partiti di governo non si sono distinti per chiarezza e compattezza. Lasciamo stare il prurito distintivo di Italia Viva, che ha trovato anche nei coronavirus la possibilità di tenere i piedi in due paia di scarpe.  In una giornata, che qualcuno ha definito di ordinario caos al Parlamento europeo, Pd e M5S si sono divisi sul Mes. Mentre Lega e Forza Italia hanno votato contro i coronabond, i cinquestelle hanno detto no a un articolo sul Recovery Fund, vale a dire, se non ho capito male, contro l’invito ai Paesi dell’eurozona ad attivare i 410 miliardi del Mes con una linea di credito specifica. Gli europarlamentari del Movimento 5 Stelle si sono poi spaccati nel voto all’Eurocamera sulla risoluzione finale per la crisi del coronavirus: 10 si sono astenuti, mentre tre hanno votato contro e uno non ha invece preso parte al voto. La risoluzione è comunque passata a larga maggioranza: i voti favorevoli sono stati 395, i contrari 171, gli astenuti 128, fra cui appunto i cinquestelle.

In conclusione un gran casino, fatto di assurdi distinguo e di sottigliezze propagandistiche, in cui, fortunatamente il partito democratico si è distinto per prudenza, ragionevolezza e concretezza. Poi non continuiamo con l’antifona dell’Europa matrigna, dei burocrati di Bruxelles, degli egoismi rigoristi: tutte brutte realtà a cui noi rispondiamo con idee poco chiare, con velleitarismi sovranisti, con striminzite logiche partitiche e con gravi incoerenze. Facendo cioè i “pirlamentari” europei.

 

 

L’anzianità considerata palla al piede

Un massacro. Così Ranieri Guerra dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce quanto è accaduto e sta ancora accadendo agli anziani colpiti da Covid 19 nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) in Italia. Ha tutta l’aria di essere un atto di accusa bello e buono, ben più di una richiesta di chiarimenti da parte di chi è anche consulente del ministro della Salute, ma che come direttore generale aggiunto dell’Oms chiede conto proprio al governo di “cosa è successo e come mai”. “Un massacro”, appunto, con centinaia, probabilmente migliaia di morti nelle case di cura – mancano dati specifici, a differenza ad esempio della Francia -, di cui il Pio Albergo Trivulzio di Milano è solo il caso più eclatante.

Come sempre succede a pagare il conto più salato sono i soggetti deboli, tra cui gli anziani, per come è concepita e impostata la nostra società, sono forse le persone più a rischio di avere un’assistenza di serie b, di essere addirittura maltrattati, di essere emarginati, isolati e ghettizzati. Qualcuno sostiene che la prova del nove per la civiltà di una società sarebbero le carceri: possiamo tranquillamente aggiungere le case di riposo.

Gli scandali si susseguono: mancanza di igiene, speculazioni varie, qualità assistenziale scadente, strutture inadeguate, personale impreparato, etc. etc. Forse il coronavirus sta funzionando, un po’ a tutti i livelli, come goccia che fa traboccare il vaso dei limiti della nostra società, come evento che mette a nudo i difetti e le contraddizioni clamorose del nostro sistema.

Ci sono tanti problemi a monte dell’assistenza agli anziani non autosufficienti. Si va dalla mancanza di sostegno alle famiglie a quella di assistenza domiciliare; dalla scelta prevalentemente orientata verso megastrutture anonime alla carenza di formazione professionale degli operatori; dallo spericolato affidamento di questo servizio al privato spesso assai speculativo e poco sociale alla scarsa dotazione di mezzi e risorse; dalla mancanza di fantasia nella ricerca di moduli per il mantenimento dell’anziano nel suo habitat umano e  sociale ad un atteggiamento socio-sanitario piuttosto discriminante come se la persona anziana fosse un cittadino con minori diritti in conseguenza dell’età e dei problemi annessi e connessi.

Quando scoppia un’emergenza le lacune di cui sopra trovano drammatici e tragici riscontri. È piovuto sul bagnato. Non facciamo quindi finta di sorprenderci e non scarichiamo le colpe solo ed esclusivamente su chi ha gestito l’emergenza in questo delicatissimo settore.

D’altra parte in questi giorni mi sono posto una tremenda domanda a cui peraltro non ci può essere risposta oggettiva e documentata. Se il sistema sanitario ed assistenziale, in tutte le sue fasi e componenti, si fosse rivelato meno carente, quanti decessi avremmo avuto in conseguenza del coronavirus. Certamente meno! Senno di poi di cui son piene le fosse? Peccato che prima di queste eventuali fosse ce ne siano altra stracolme delle vittime della pandemia. Non è certo il momento di fare polemiche, ma riflettere, per correre ai ripari nel breve, medio e lungo termine, è doverosamente urgente.

 

L’insensato rientro nel disordine politico

Papa Francesco ha risposto al grido accorato proveniente dalla mia trepidante tristezza: mi ha detto che dal Risorto e dal suo Spirito scaturisce la vera gioia, che non è l’entusiastica reazione a fatti eclatanti e meravigliosi, ma la presa di coscienza della salvezza eterna, che ci è stata conquistata e donata. Un anziano frate cappuccino, che aveva la pazienza di ascoltare i miei peccati e di perdonarli in nome di Dio, mostrava una grande e invidiabile serenità d’animo al punto che gli chiesi ragione di una gioia così grande, emergente dal suo volto, dalle sue parole e dal suo comportamento. Mi rispose: “Gesù non è venuto in terra per fare una passeggiata, è venuto a salvarci e noi siamo salvi, quindi…”.

Con i polmoni pieni di questo ossigeno papale, mi tocca ripiombare, seppure col vaccino spirituale della gioia pasquale, nella quotidianità improntata alla battaglia contro il coronavirus. Dopo aver riflettuto astrusamente sull’impossibilità di tornare alla normalità di vita, se per normalità intendiamo il solito andazzo socio-economico, mi ritrovo ad essere immediatamente smentito e intristito dalla politica frettolosamente rientrata nei normali e penosi canoni della stucchevole polemica fra i partiti.

Anche davanti al disastro che stiamo attraversando, il dibattito politico non fa un passo costruttivo verso il presente ed il futuro, ma ripiega malauguratamente verso il passato delle vuote e strumentali contrapposizioni. Sono sostanzialmente tre i terreni su cui si sta scatenando la dannosa polemica: il rapporto con l’Unione Europea, lo scarico delle responsabilità, gli indirizzi per avviare la ripresa.

Sul fronte europeo c’è in atto una gara a spingere sui contrasti, ad essere i più antieuropei del momento, a vincere a tutti i costi la stitichezza finanziaria della Ue. Che si debba pretendere un diverso atteggiamento in sede comunitaria è cosa buona e giusta. Il problema sta nel come ottenerlo: non certo mandando improbabili ultimatum, non certo lasciando trapelare la riserva mentale di agire per nostro conto, non sfogando la rabbia accumulata nel tempo per l’inefficienza e, ancor prima, l’insensibilità verso i problemi della agognata crescita che sono ultimamente diventati i problemi della onorevole sussistenza, non gareggiando infantilmente a chi possiede la voce più stentorea o a chi è dotato degli attributi più prestanti. La conseguenza di questa competizione in patria è la debolezza nella competizione in Europa. Presentarsi ai tavoli europei in ordine sparso è il modo migliore per rimanere con un pugno di mosche in mano.

Che vi siano stati errori, ritardi, inadeguatezze, incompetenze, debolezze e incertezze nell’azione di governo a livello centrale e periferico è una realtà piuttosto evidente. Ammetterlo è doveroso da parte di tutti, ma adesso non è il momento di esercitarsi in una reciproca caccia alle streghe per guardare chi ha nell’occhio la trave più fastidiosa e clamorosa. Sono tragicomiche certe diatribe sulla intempestività e confusione degli interventi, sulla sottovalutazione dei pericoli: mi sembra che tutti debbano abbandonare le pietre che tengono in tasca in considerazione dei peccati che hanno evidenziato nei loro comportamenti.  Uso una similitudine alquanta brutale: non si può litigare con i moribondi e i morti in casa. Se ci sarà da litigare lo si faccia quando la situazione lo permetterà ed avrà trovato un minimo di serenità.

Che sia problematica, al limite dell’impossibile, una graduale ripresa delle attività economiche e dei rapporti sociali è chiaro e preoccupante. Affrontare queste difficoltà in un clima di scontro a livello, politico, istituzionale e geografico è un vero e proprio suicidio assai poco assistito. In Veneto si può passeggiare, seppure con certe precauzioni; in Lombardia e Piemonte si deve rimanere sigillati; nel resto d’Italia è consentito qualche timido accenno alla riapertura, vedi librerie e abbigliamento per bambini. Mi sento un regionalista critico anche se per nulla pentito, ma ipotizzare un ritorno alla normalità a macchia di leopardo, a strappi autonomistici mi sembra pura follia. Scatenare una rissa istituzionale, politica e persino ideologica su questo terreno è da criminali.

Sia chiaro che non voglio ridurre la politica ad un generico vogliamoci bene, ad una deriva pseudo-scientifica, ad una concentrazione di poteri anti-democratica, ad una silenziosa e rituale pantomima funebre. Vorrei soltanto che la triste occasione facesse l’uomo politico più serio e responsabile. I cittadini finora hanno avuto molta pazienza, hanno dimostrato comprensione e disciplina, hanno capito la gravità della situazione e vi si sono adeguati seriamente. Non deludiamoli perché sarebbe un vero e imperdonabile peccato sul piano etico, un autentico disastro a livello politico-istituzionale, un pessimo viatico per l’improbo viaggio economico-sociale che ci aspetta.

 

 

Tristezza, trepidazione, anormalità

In questi giorni si parla tanto di normalizzazione, di ritorno alla normalità: il discorso è a mezza strada fra illusione ed equivoco. Stiamo infatti negando a noi stessi che, se per normalizzazione intendiamo il ritorno alla vita di prima, possiamo abbandonare questo desiderio anormale: la nostra vita sta cambiando e cambierà, che lo vogliamo oppure no. Saremo tutti più poveri di beni e di certezze, saremo tutti più insicuri e precari: andiamo verso una sorta di precariato di massa.

Per restare in ambito nazionale, nonostante le draconiane misure di salvaguardia adottate, tutti i giorni si ammalano migliaia di persone delle quali centinaia muoiono. Le attività economiche, pur dando per acquisiti gli aiuti promessi, ballano sull’orlo del baratro. L’assetto sociale, nonostante le più buone intenzioni di utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, è sconvolto: non si sa se e come riapriranno le scuole, se e come si produrrà cultura, se e come ci si potrà riunire per discutere, se e come potremo lavorare e impiegare il tempo libero.

Blaterare di normalizzazione rischia di essere un espediente di evasione dalla realtà: le fasi pensate dai governanti assomigliano a quelle lunari. Stiamo aspettando che riaprano le attività economiche e non ci rendiamo conto che molte di esse non potranno riaprire perché mancherà il mercato, l’eventuale offerta di beni e servizi non troverà più la domanda, l’offerta di lavoro a sua volta non troverà la domanda a livello di imprese e di entità pubbliche e private. Non penso di essere catastrofico, ma la vedo molto brutta e, se devo essere sincero, mi paiono patetiche le prospettive di un mondo “mascherato” in una sorta di carnevale globale e perpetuo.

E allora? Che fare in una vita in cui i rapporti umani saranno ridotti all’osso? Forse vivremo in un contrappasso dantesco in cui saremo costretti a stare in isolamento dopo la sbornia della futilità relazionale allargata. Vivremo di poche e indispensabili cose dopo lo sperpero perpetrato dei beni terreni. Pensiamoci un attimo: l’obbligo di non uscire di casa ha contribuito a risolvere i problemi del traffico e dell’inquinamento, lo stress del sentirsi prigionieri in casa ha sostituito quello delle code autostradali, la mancanza di evasione turistica pasquale ci ha sollecitato il desiderio di vivere il senso autentico dei misteri pasquali, la difficoltà a riempire il tempo improvvisamente svuotato delle nostre abitudini ci ha imposto di fare qualcosa di insolito e diverso, riscoprendo magari la bellezza di scelte culturali abbandonate da tempo.

Qualcuno dirà che sono alla poetica rivalutazione dell’anormalità per fuggire all’impossibile normalità. Può essere, ma se non ci sforziamo di trovare a livello privato una possibile, nuova e diversa normalità di mentalità e di vita, non possiamo pretendere che ci caschi addosso dall’alto un impossibile, vecchio e strambo stile di vita in cui aggirarsi come automi blindati. È inutile pensare che un vaccino possa cambiare o, meglio, rimettere indietro il mondo. Siamo tutti ridotti a Diogene con la lanterna in mano alla ricerca del come vivere, visto che siamo improvvisamente e inopinatamente tornati ad essere uomini.

Ecco perché mi sento invaso da una profonda tristezza. In un’omelia pasquale ho ascoltato una riflessione particolare sui discepoli di Emmaus e la profonda tristezza di cui erano rimasti vittime: la tristezza assecondata porta al disastro dal punto di vista umano e al peccato sul piano religioso. Il peccato è infatti la reazione illusoria alla tristezza, dopo di che la tristezza diventa ancora più grande e va avanti una perversa spirale negativa.

Mi sono chiesto: forse sto assecondando la tristezza e il pessimismo? Non lo so, fatto sta che anche gli affetti più profondi non riescono a scuotermi. La fede nel Risorto, pur scaldandomi il cuore, non toglie le difficoltà: non è e non può essere questo infatti l’eclatante miracolo della Risurrezione. Mi rifugio nella scrittura, che riesce a distogliermi almeno parzialmente dallo scoraggiamento e che mi consente di sfogare positivamente (?) la troppa sensibilità che mi ritrovo (croce e delizia della mia complessa personalità).

Sento che la trepidazione è grande e il cuore si fa pesante, come sostiene una carissima amica: la parola giusta non è tristezza, ma trepidazione! C’è da soffrire e da sperare che questo periodo ci rafforzi nel coraggio, nella sapienza e nel cuore: la sofferenza – la mia vita lo insegna – serve a questo. E la mia sofferenza è niente a confronto degli amici morti in solitudine o a cui sono stati strappati i propri cari in modo drammatico (il solo pensarci mi angoscia).

Il bravo e compianto Mike Bongiorno nelle sue trasmissioni televisive aveva adottato un simpatico, anche se molto superficiale, incipit: allegria!  Come cambia il mondo…io mi presento con “tristezza e angoscia!”. Spero abbia ragione l’amica di cui sopra a parlare di trepidazione: sì, molto meglio. A volte una parola può salvare la vita…

 

Vestivamo alla pallonara

Prima o poi doveva arrivare ed è arrivato il redde rationem del calcio professionistico, che vive ben al di sopra delle proprie possibilità in un mercato economicamente fasullo, a metà strada fra sport e industria dello spettacolo, sempre meno sport e sempre più industria, sempre meno industria e sempre più show room pedatorio “sgolosato” dai tifosi senza dignità, sempre meno competizione e sempre più carrozzone per i mangiapane a tradimento. È arrivata la falce a imporre una inderogabile cura dimagrante.

I calciatori si sono sentiti toccati nel vivo di un portafogli stragonfio, che sta per esplodere: purtroppo il discorso non vale per tutti. Siamo abituati a generalizzare i super ingaggi dimenticando i tanti calciatori che guadagnano molto meno rispetto alle star del pallone. È sempre così: davanti all’ingiustizia clamorosa e insostenibile si rischia di fare giustizia sommaria. Non ci si può tarare sui Ronaldo, ma si deve comunque bonificare un mercato dell’assurdo.

Mi sono da tempo chiesto perché i presidenti delle società calcistiche non abbiano tentato un tacito accordo di gruppo per calmierare il mercato degli ingaggi: forse sarebbe stata una sacrosanta manovra in barba alle regole della concorrenza, ma un taglio benefico si imponeva da tempo.  A latere c’era da regolamentare anche il pazzesco mercato dei diritti televisivi e pubblicitari: una jungla in cui spartirsi il bottino costituito dalla malata passione sportiva degli aficionados del pallone. Si parlava da tempo di una ristrutturazione su scala europea dei campionati a due velocità: il calcio dei ricchi collocato sul piedistallo internazionale e quello dei poveri relegato in ambito nazionale. A margine c’è la pletora mediatica ed autoreferenziale del giornalismo pallonaro: come si ricollocheranno le infinite schiere di commentatori del piffero? Andranno a fare i facchini o troveranno la maniera di riciclarsi? Si è aperta una fase critica con la prospettiva di un cinico ma necessario disboscamento.

Sempre meno gente andrà allo stadio, diventato mero sfogatoio degli irriducibili ultras. Anche le partite sulle televisioni a pagamento finiranno col venire a noia. Il mercato pubblicitario soffrirà, le sponsorizzazioni caleranno. Minori entrate, minori spese. Prima del coronavirus si pensava di coprire i deficit, oltre che con i trucchi di bilancio, studiando una nuova dimensione socio-economica degli stadi: oggi questa prospettiva sembra a dir poco velleitaria con le vacche magre che si intravedono all’orizzonte.

Al punto in cui siamo arrivati si capisce l’imbarazzo dei calciatori trattati come capro espiatorio (sarà durissima per loro scuotersi di dosso l’immagine di soggetti privilegiati e superpagati), ma non si vede alternativa ad un drastico ridimensionamento dei loro guadagni (non sarà facile tagliare con equità). Sarebbe un fenomeno curioso se nel post-coronavirus soffrissero tutti meno i protagonisti del mondo del calcio. Il pallone ha sempre avuto un effetto magico distrattivo dalle vicende della società, non penso fino a questo punto. Cosa ne direste di una cassa integrazione per i calciatori finanziata dai sacrifici degli ultras delle curve? In questo pazzo, pazzo mondo tutto è possibile! Ci dovremo rassegnare ad un unico cronista che ci commenterà la partita in radio. Sarà bellissimo e socialmente utile. Tutti gabbati, o meglio tutti liberati dalla sindrome pallonara di Stoccolma.

Una voce che grida nel deserto

È umano di fronte a problemi comuni rinchiudersi nel proprio particolare? È politicamente serio davanti ad una crisi globale guardare all’interno dei propri confini nazionali? Il presidente Donald Trump ha detto che aiuterà l’Italia, ma prima vengono gli Usa. Grazie, ma che ragionamenti sono? Aiutare qualcuno non vuol forse dire rinunciare a qualcosa per sé stessi? Papa Giovanni XXIII disse: «Il superfluo si misura dal bisogno degli altri». È accettabile rimanere in un ordine mondiale fondato sugli egoismi e sulle discriminazioni? È tollerabile che l’Unione Europea, in un momento così drammatico e tragico, continui a discutere di corda in casa dell’impiccato o del “sesso dei bilanci” mentre “un virus sta espugnando il pianeta”, mettendo in ginocchio tutte le popolazioni?

Bisogna ammettere che l’unica autorevole voce veramente in controtendenza rispetto all’inqualificabile andazzo, che nemmeno la pandemia riesce a scalfire, è quella di papa Francesco. Ecco perché oggi cedo a lui la parola riportando di seguito alcuni passaggi del suo messaggio pasquale, che non ha bisogno di commento, ma solo di essere letto per andare in benefica, positiva e costruttiva crisi. Non temo, in questo momento, di affermare che solo nella Chiesa e nei suoi pastori, pur con tutti i limiti e difetti, trovo lo spirito giusto per andare avanti: non è integralismo, ma attaccamento all’unico autentico salvagente a portata di uomo e di mondo.

“Non è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i poveri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattutto, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria. In considerazione delle circostanze, si allentino pure le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini e si mettano in condizione tutti gli Stati, di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri.

Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni.

Non è questo il tempo delle divisioni. Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite. Sia invece il tempo in cui porre finalmente termine alla lunga guerra che ha insanguinato l’amata Siria, al conflitto in Yemen e alle tensioni in Iraq, come pure in Libano. Sia questo il tempo in cui Israeliani e Palestinesi riprendano il dialogo, per trovare una soluzione stabile e duratura che permetta ad entrambi di vivere in pace. Cessino le sofferenze della popolazione che vive nelle regioni orientali dell’Ucraina. Si ponga fine agli attacchi terroristici perpetrati contro tante persone innocenti in diversi Paesi dell’Africa.

Non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone. Il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella Regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Riscaldi il cuore delle tante persone rifugiate e sfollate, a causa di guerre, siccità e carestia. Doni protezione ai tanti migranti e rifugiati, molti dei quali sono bambini, che vivono in condizioni insopportabili, specialmente in Libia e al confine tra Grecia e Turchia. E non voglio dimenticare l’isola di Lesbo. Permetta in Venezuela di giungere a soluzioni concrete e immediate, volte a consentire l’aiuto internazionale alla popolazione che soffre a causa della grave congiuntura politica, socio-economica e sanitaria.

Cari fratelli e sorelle,

indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Vogliamo bandirle da ogni tempo! Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte, cioè quando non lasciamo vincere il Signore Gesù nel nostro cuore e nella nostra vita. Egli, che ha già sconfitto la morte aprendoci la strada dell’eterna salvezza, disperda le tenebre della nostra povera umanità e ci introduca nel suo giorno glorioso che non conosce tramonto”.

 

Campane solidali e trombe governative

Uno degli effetti positivi dell’epidemia, che ci sta brutalmente quanto invisibilmente aggredendo, lo si può registrare sul piano etico: un ridimensionamento della nostra presuntuosa autosufficienza che ci porta alla umana solidarietà, alla condivisione, alla consapevolezza di essere tutti uguali e bisognosi di aiuto. Di fronte ai cataclismi naturali o volontari, l’uomo trova insperate risorse che lo spingono a fraternizzare nella sofferenza. Mi limito a registrare, senza soverchie illusioni, questa conseguenza positiva della nefasta esperienza del coronavirus: non si tratta di un ripiegamento all’indietro, ma della vera e forse unica luce, che si intravede alla fine del tunnel.

La politica, almeno quella in cui io credo da sempre, dovrebbe governare democraticamente la società partendo proprio dai valori e dai sentimenti positivi e costruttivi della gente. L’attuale vicenda purtroppo sta dimostrando la incapacità della classe politica ad interpretare la gente, sprecando l’occasione per rinsaldare i vincoli unitari e solidali della popolazione. Al di là delle enormi difficoltà, chi ci governa sembra molto preoccupato della difesa della propria immagine, di annunciare rimedi, di sparare dati più o meno attendibili. Alla, tutto sommato, disciplinata attesa dei governati alla ricerca di qualche chiara indicazione, risponde una scombinata, confusa e contraddittoria risposta dei governanti.

Prendiamo il continuo susseguirsi di stucchevoli conferenze stampa: non servono a rassicurare la gente, ma soltanto a creare alibi, più o meno attendibili, di fronte alle proprie responsabilità. Meno chiacchiere e più fatti concreti.

Guardiamo i provvedimenti di legge snocciolati: cosa sta arrivando e cosa arriverà al cittadino di tutto ciò non è dato ancora capire. A cifre da capogiro corrispondono, almeno per ora, miserevoli aiuti. Si abbia il coraggio di promettere quel che si può e di non gonfiare le concrete possibilità, creando deleterie e illusorie aspettative.

Esaminiamo le decisioni adottate in sede governativa centrale e quelle prese a livello regionale: una collaborazione scoordinata e continuativa frutto di scaricabarile e di corsa a ben figurare di fronte ai cittadini. Quando il governo decide di aprire i cordoni, le regioni li stringono, quando le regioni chiedono riaperture, il governo risponde con la reiterazione delle chiusure. Non si fa così! Si discuta, ci si scontri in riservata sede e poi si cerchi di parlare ad una sola voce. Non mi preoccupa la diversità delle idee, ma il modo scorretto di portarle avanti. Facciamo un esempio. Il governo decide di rimediare ad una demenziale discriminazione fra esercenti attività di vendita al pubblico: tabaccherie sì, librerie no. Apriamo quindi le librerie, anche perché acquistare e leggere libri in questo momento non può che fare particolarmente bene. Nossignori, in Piemonte e Lombardia le librerie non riapriranno, perché i dati del contagio non lo consentono: come se il virus si annidasse fra le pagine dei libri…

Pensiamo alla problematica combinazione fra scienza e politica: bisogna tenere conto delle indicazioni degli esperti, i quali tuttavia farebbero bene a parlare meno ed a trovare maggiore unitarietà nelle analisi e nelle indicazioni. Attenzione però a non creare governi paralleli, che potrebbero finire col deresponsabilizzare l’unico governo che deve esistere e col creare attese esagerate e miracolistiche verso la scienza al momento, peraltro, piuttosto brancolante nel buio.

Vogliamo infine parlare di trasparenza? Non sarà certo la superficiale ed insistente sbornia mediatica a garantircela. Meno interviste, meno salotti, meno futilità! E chi ci governa non strizzi l’occhio alle varie casse di risonanza in competizione fra di loro. Nella gente aumenta la stanchezza anche per l’autentico logorio della (dis)informazione.

Veniamo da ultimo ai rapporti con l’Europa: non è possibile che il presidente del Consiglio dia l’impressione di seguire una linea dura, mentre il ministro dell’Economia segue una linea morbida. La tattica del poliziotto buono e cattivo non dà risultati seri quando l’indagato è forte e si sa difendere molto bene. E il nostro commissario Ue la smetta di fare il panegirico di un brodo lungo e insipido. Per non parlare dell’opposizione, che spara a vanvera alla ricerca di qualche cadavere da mettere in cassaforte.

Sono stato poco complimentoso? Pur riconoscendo le difficoltà oggettive e la buona fede soggettiva, ho espresso soltanto grossi dubbi e perplessità. Credo che gli Italiani, i quali, tutto sommato, stanno facendo la loro parte, almeno in questa fase, meritino governanti più seri, autorevoli e credibili, che rispondano presente alla domanda di solidarietà e condivisione proveniente dal basso.