Le guerre a ciliegia

Raid Usa contro gli Houthi, Trump: “Fermate gli attacchi nel Mar Rosso o scateneremo l’inferno”.

Senonché l’inferno è già ampiamente scatenato ad opera di questo pazzo criminale e di chi, direttamente o indirettamente lo sostiene. Cosa si potrà mai fare ancora di più?

Non conosco i termini politici della questione terroristica degli Houthi, so soltanto una cosa, che mi diceva mio padre.

Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”.  Ora c’è in giro per il mondo ben più di Mussolini, come minimo ne conto tre o quattro.

Non ho idea di dove si andrà a parare, certamente avremo conflitti a ciliegia. A noi resterà l’orgoglio di mettere in riga chi disturba. Guerra chiama guerra!

L’ignoranza trumpiana è crassa: questo imbecille, che ha incantato e incanta gli imbecilli, non ha capito o finge di non aver capito che la questione palestinese è centrale nei rapporti col mondo medio-orientale e non solo.  Sta mettendocela tutta per mettere a soqquadro tutti i già difficilissimi rapporti in essere.

Potrebbe essere il suo disastro: stia bene attento che col mondo islamico non si scherza. Personalmente prevedo a breve termine un evento traumatico tipo “Torri gemelle”, dopodiché … buon divertimento a tutti o meglio, buon inferno a tutti. Trump potrà illudersi di parlare a nuora (Russia) perché suocera (Cina) intenda; potrà tentare di mettere in buca l’Europa anche perché l’Europa non aspetta altro che di essere imbucata.

Col terrorismo islamico il discorso è molto diverso: le minacce e i fieri accenti servono a poco con chi non ha paura di morire. Pensa un po’ a che punto sono arrivato: non avrei mai pensato di fare paradossalmente il tifo per gli islamici. Chi sostiene Trump sappia che prima o poi potrebbe raccogliere non solo immigrazione aggiuntiva e fuori controllo, ma terrorismo bello e buono.  Vorrà dire che ce lo saremo voluto…

Il manifesto di Serra, Benigni e Zuppi

Confesso che faccio sempre più fatica ad interessarmi alla politica: la vedo finita secondo i miei schemi…

Anche il filosofo Massimo Cacciari dall’alto del suo snobistico scetticismo, giunto all’apice della sua analisi catastrofista, ammette che non resta da fare altro che il proprio dovere.

Spero possa succedere comunque qualcosa che mi costringa a tornare alla politica, attualmente tutto mi allontana…

Ci sono due aspetti fuorvianti, nel pur giustificato desolante quadro dibattimentale, che rischiano di portare acqua al mulino della disinformazione e del disimpegno. Ad una narrazione “comodamente” appiattita sull’esistente fa riscontro una bartaliana contro-analisi dell’è tutto sbagliato e non si può nemmeno tentare di rifarlo.

I due punti cardine dell’acuto e dotto scetticismo paralizzante sono, da una parte, la sottovalutazione del passato ideologico anti-fascista, e dall’altra parte la sopravvalutazione di una sorta di inesorabile realpolitik a cui non è possibile opporsi tanto appare stringente ed avvolgente.

I richiami all’antifascismo, all’antinazionalismo, relegati nella soffitta dei ricordi, tolgono la giusta dimensione storica al presente sganciandolo dal passato in funzione di uno spregiudicato futuro.

Gli esempi si sprecano, ultima la sussiegosa reazione al distruttivo remake ventoteniano: non si doveva cadere nella trappola polemica meloniana per guardare alle problematiche del presente, come se l’europeismo fosse una pratica odierna da sbrigare alla faccia della storia.

Non accetto questo subdolo e colto (?) revisionismo dove tutti i gatti sonobigi: la vogliamo capire o no che i pericoli nazi-fascisti, coniugati soprattutto con le spinte autoritariamente nazionalistiche, sono molto presenti e non vanno liquidati con una presuntuosa alzata di spalle?

Il secondo paralizzante punto riguarda, invece e pure, lo sconfortante rifiuto ad affrontare le situazioni considerate come tegole che cadono da edifici senza tetti. Anche qui gli esempi non mancano: l’inerzia europea vista come una sorta di condanna, la mancanza di prospettive internazionali di coesistenza pacifica subita senza battere ciglio, l’assoluta sfiducia nella diplomazia ritenuta un’ostruzionistica perdita di tempo.

A questo punto o ci si accoda alla narrazione guerrafondaia prevalente o ci si rifugia nello splendido isolamento devitalizzante. Personalmente rischio grosso chiamandomi fuori dalla situazione. Bisognerebbe avere la pazienza di una terza via.

Conversando con un carissimo amico, ho ipotizzato un’impostazione culturale innovativa partendo da tre eventi significativi: la piazza europeista di Michele Serra, la ricostruzione culturale europeista di Roberto Benigni e la proposta rifondativa del cardinale Matteo Zuppi, già avanzata durante la Settimana Sociale di Trieste, di “una Camaldoli europea”, con partecipanti da tutta Europa, per parlare di democrazia ed Europa.

Forse potrebbe essere un ulteriore voltata di pagina in senso europeistico così come, in un certo senso, già auspicato da Altiero Spinelli. E se l’euroscetticismo di Giorgia Meloni usato come un fioretto per infilzare la democrazia, diventasse l’europeismo brandito come una clava (l’unica!) per rilanciare la democrazia?

È pur vero che si può vivere con impegno anche senza fare i conti con gli assetti politici. Nel ’68 sostenevo, come tanti della mia generazione, che tutto era politica, oggi tendo a sostenere che tutto è fede e impegno cristiano. Mi iscrivo al partito di Serra, Benigni e Zuppi…

La musica di Ventotene e il baccano di Bruxelles

Sono perfettamente consapevole di nutrire un concetto aristocratico della politica, che, a mio giudizio, è un po’ come la musica: o la si capisce oppure è meglio lasciar perdere. Non è una questione di erudizione e/o di mera concordanza di idee, ma piuttosto di sensibilità e di sintonia culturale (oserei dire esistenziale). Mi raccontava mia sorella Lucia, peraltro molto appassionata di musica classica, di essere incappata nel pregiudizio di un monaco musicista, il quale, prima di aprire con lei ogni e qualsiasi discorso inerente la musica, si informò accuratamente sulla sua competenza in materia e, solo dopo avere avuto abbondanti rassicurazioni da fonti autorevoli, avviò la discussione.
L’operazione Ventotene, messa in atto dalla Presidente del Consiglio, sembra ispirata da un misto di arroganza, malafede e smaccata ignoranza. Citare, come ha fatto Giorgia Meloni, il Manifesto di Ventotene in quella maniera è come citare il Vangelo dove leggiamo, tra le altre cose, «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada» (Mt 10,34) e concludere che Gesù è un estremista guerrafondaio.
È chiaramente una provocazione, una mossa strumentale che può avere presa su molti, purtroppo, in particolare su chi non conosce la storia del nostro Paese e la vita di coloro che hanno redatto quel manifesto. Erano dei giganti che Mussolini codardamente aveva condannato al confino per paura delle loro idee. Idee che per fortuna e grazie al loro coraggio e a quello di Ursula Hirschmann e Ada Rossi superarono i confini dell’isolotto e cambiarono la storia. (dal quotidiano “Avvenire” – Vittorio Pelligra)
Purtroppo, in questo sciagurato periodo, mi imbatto sempre più in quel misto di arroganza, malafede e smaccata ignoranza di cui alla precedente citazione. Ecco perché scatta in me una sorta di repulsione rispetto al dibattito in corso, una triste sensazione di perdere tempo, di non cavare un ragno dal buco: non è questione di opinioni, ma di impossibilità a dialogare con chi non ha opinioni, ma soltanto argomenti da sparare alla boia. È come parlare non tanto fra sordi, perché al limite ci si può intendere a gesti, ma fra persone che testardamente usano il linguaggio della pancia elettorale e nulla più.
Sempre più rare sono le occasioni serie per affrontare i gravissimi problemi che ci coinvolgono: non ce la faccio più. Lo so benissimo, sarò accusato di essere presuntuoso, ma, quando vedo le sorti italiane in mano ad una sedicente governante che spara cavolate a raffica, mi sento umiliato e devo reagire col silenzio, facendo il mio dovere (come dice Massimo Cacciari), l’unica cosa che mi rimane.
E cos’è e qual è il mio dovere? Testimoniare nei fatti quotidiani la vocazione ad essere artigiano di pace ed il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace (è la preghiera scritta dal Cardinale Zuppi).
Basta? Non lo so! E la politica? La lasciamo a Giorgia Meloni e a chi, direttamente o indirettamente, le porta il lume? A chi è d’accordo con lei o snobisticamente non ritiene di cadere in certe trappole polemiche? Scendiamo in piazza? Forse serve ancora a qualcosa: a fare incazzare la Meloni e a farla straparlare. Michele Serra con il suo appello alla piazza un risultato lo ha ottenuto: togliere la maschera europeista a chi ritiene l’Europa un fastidioso orpello culturale, storico e politico, polemizzando a distanza con i veri europeisti di Ventotene (con loro non si possono raccontare balle come si fa con Macron e c. o come ancor peggio, si fa con Trump e c.)
Dopo la bagarre scoppiata in Aula alla Camera dei deputati e la rivolta delle opposizioni per le parole provocatorie di Giorgia Meloni sul Manifesto di Ventotene, ad attaccare la premier è stato anche il dem Federico Fornaro: “Non è accettabile fare la caricatura di quegli uomini. Lei presidente Meloni siede in questo Parlamento anche grazie a loro, questo è un luogo sacro della democrazia e noi siamo qua grazie a quei visionari di Ventotene che erano confinati politici. Si inginocchi la presidente del Consiglio di fronte a questi uomini e queste donne, altro che dileggiarli. Vergogna”. (da “Il Fatto Quotidiano)
Ebbene devo ammettere che, ascoltando Fornaro, mi sono venuti i brividi, mi sono commosso: beato lui che ha la possibilità concreta e il coraggio di gridare la propria indignazione. Vorrei tanto fare come lui…
Sono tornato con la mente alle animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica: agli inizi degli anni novanta constatavamo che alla politica stava sfuggendo l’anima, se ne stavano andando i valori e rischiava di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restava che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: dopo il craxismo, che aveva intaccato le radici etiche della democrazia, venne il berlusconismo a rivoltare il sistema creando un vero e proprio regime, in cui siamo ancora invischiati ed immersi fino al collo a livello nazionale ed internazionale.
Torno in conclusione al concetto “musicale” da cui sono partito. Quando a mio padre rimproveravano di essere esageratamente permaloso di fronte a certe espressioni, era solito affermare convintamente: «L’ è al tón ch’a fà la muzica…». Probabilmente di fronte alle penose performance di Giorgia Meloni aggiungerebbe: “L’am fa compasión…”.

 

 

La bella trattativa si vede dalla telefonata

Vladimir Putin ferma gli attacchi alle centrali in Ucraina per trenta giorni, acconsente a liberare 175 prigionieri di guerra ucraini (in cambio di altrettanti soldati russi) e accetta di tornare quanto prima ai negoziati di pace (probabilmente in Arabia Saudita). Donald Trump prenderà in «considerazione» di mettere fine agli aiuti militari e alla condivisione dell’intelligence di Washington con Kiev, oltre a imporre la fine della mobilitazione forzata in Ucraina: tutte condizioni chiave poste dal presidente russo per la ripresa dei colloqui. Nel frattempo, il capo della Casa Bianca e quello del Cremlino organizzeranno almeno una partita di hockey fra Usa e Russia negli Stati Uniti. La lista delle decisioni concrete prese nel corso dell’attesissima telefonata sulla pace in Ucraina fra i leader russo e americano – durata oltre due ore – è corta, e comprende un gesto altamente simbolico della «normalizzazione delle relazioni bilaterali» tra Mosca e Washington che il Cremlino insegue dall’insediamento di Trump e ieri ha enfatizzato come fondamentale risultato del colloquio. Un ripristino di un’amicizia “alla pari” che concede a Putin il riconoscimento dello status della Russia come grande potenza al pari degli Stati Uniti. Non a caso il comunicato emesso da Mosca alla fine della chiamata sottolinea la «responsabilità condivisa di Russia e Stati Uniti per la stabilità nel mondo» e la discussione «del Medio Oriente come di una regione nella quale avviare una cooperazione per prevenire futuri conflitti». Una promozione per Mosca, che da quando ha invaso la Crimea è considerata un paria dalla comunità internazionale, e anche un’alleanza in vista di una sorta di nuova Yalta, una spartizione del potere mondiale che passa attraverso la negoziazione bilaterale della fine del conflitto iniziato da Mosca. Per ora i contatti fra Trump e Putin non hanno portato a una vera e propria divisione dei territori o delle risorse ucraine. Ma le basi sono già state poste. Dal quotidiano “Avvenire” – Elena Molinari)

C’era da aspettarselo, la prospettiva era chiara fin da prima delle elezioni americane: spartirsi il mondo che fa da spettatore della spartizione stessa. Ci sono due incognite nell’equazione: la Cina e la Ue. Paradossalmente spero più nel potere di interdizione della Cina che in quello dell’Unione europea.

Un certo qual multilateralismo ci dava l’illusione che i rapporti fra gli Stati fossero comunque discutibili e inquadrabili in un contesto di coesistenza pacifica. La maschera è caduta e siamo tornati alla peggiore delle logiche spartitorie.

Non vedo vie d’uscita, anche perché l’Europa non ha nessuna intenzione di rompere le uova nel paniere di Trump e l’antesignana di questo omertoso atteggiamento è proprio l’Italia.

Anche la velleitaria intenzione di mettere tutto sul piano della potenza militare mi fa sorridere: è ridicolo rispondere all’invito “autoritarismi di tutto il mondo, unitevi” con quello dei “vasi di coccio di tutta Europa armatevi”.

Abbiamo tanto sproloquiato sulla difesa a tutti i costi dell’Ucraina, salvo mollarla nel momento decisivo in cui verrà presa per i fondelli. Non si poteva trattare perché doveva arrivare chi sa trattare.

Tutti dicono che finalmente si intravede uno spiraglio di pace, la narrazione è questa! Come ho già avuto modo di scrivere, si tratta della pace dei sepolcri, con gli europei a fare opportunisticamente la parte dei sepolcri imbiancati. Che schifezza!

Un tempo, quando i rapporti fra gli Stati si potevano ancora mettere in discussione, si sarebbe detto che è meglio una cattiva pace di una buona guerra. Oggi il discorso si è impreziosito: c’è rimasta solo una cattiva pace che è anche una pessima guerra.

Meloni, stia zitta o si pulisca la bocca

Il Manifesto di Ventotene è un testo scritto nel 1941 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, con il contributo di Eugenio Colorni, durante il loro confino sull’isola di Ventotene imposto dal regime fascista. È considerato il testo fondativo del pensiero federalista europeo e una delle basi ideologiche dell’integrazione europea.

“Spero non l’abbiano mai letto, perché l’alternativa sarebbe spaventosa”. La premier sfida l’opposizione leggendo alcuni passaggi di uno dei testi fondanti dell’Unione Europea. Frasi pesanti. “La rivoluzione, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”. Oppure: “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”. La reazione? Fischi, urla, proteste. Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, sospende la seduta.

Si riprende, ma il clima resta rovente. Meloni incalza: “Non so se questa è la vostra Europa, ma certamente non è la mia”. L’opposizione insorge, chiede le scuse. La seduta viene sospesa di nuovo.

Qualsiasi documento politico non può essere letto in modo trivialmente fazioso, ma al contrario va inserito nel suo contesto storico e interpretato alla luce dei principi a cui fa riferimento. Vale per la Costituzione italiana così come vale per il manifesto di Ventotene: anche il Vangelo può essere strumentalizzato a fini polemici.

Dice papa Francesco: «Parlare sempre dei poveri non è comunismo, è la bandiera del Vangelo». Parlare di socialismo e di funzione sociale della proprietà privata non è comunismo, ma autentico europeismo e richiamo ai valori di democrazia e giustizia sociale.

Fa letteralmente schifo che il presidente del Consiglio per difendere il suo euroscetticismo attacchi l’europeismo di chi in esso credeva veramente pagando di persona. Se non è fascismo questo…Se non è trumpismo… Gli italiani capiranno? In Europa cosa penseranno? Qual è l’Europa di Giorgia Meloni? Non l’ho capito e, se l’ho capito, non è la mia Europa. Gira e rigira torniamo sempre più a concezioni e metodi di stampo fascista e nazionalista. La Meloni non parlava ai suoi adepti, ma al Parlamento: forse lo considera un’aula sorda e grigia. Forse è irritata dal fatto che, bene o male, gli italiani siano scesi in piazza: una protesta oggi e una domani, non si sa dove si potrà andare a finire. Attenzione a non strafare, a non esagerare con la mordacchia…   Sappia Meloni che Trump può contare su Musk, mentre lei può contare su Salvini e c.

Avrà il coraggio di ripetere queste oscenità politiche al prossimo Consiglio d’Europa? Sarà meglio che le tenga di scorta per il primo incontro che le verrà concesso alla Casa Bianca: lì si potrà sfogare…                            

 

 

Un Prodi poco prode

Non sono mai stato un ammiratore di Romano Prodi per due concomitanti ragioni. Da un politico di sinistra esigo un’esperienza esistenziale vissuta sulla propria pelle, mentre invece Prodi è stato sbrigativamente intronizzato leader della sinistra pur di avere a tutti i costi un’alternativa a Silvio Berlusconi. D’altra parte, laddove manchi in tutto o in parte il carisma socio-politico, bisognerebbe che venisse in soccorso quello culturale e scientifico: Romano Prodi non ha il livello, tanto per fare un esempio, di un Beniamino Andreatta, quindi era, è e rimane un leader a metà, una sorta di “visconte dimezzato” della sinistra italiana.

Questo mio (pre) giudizio trova preciso riscontro nelle argomentazioni messe recentemente in campo da Romano Prodi e contenute in una intervista rilasciata al quotidiano “Avvenire” (Arturo Celletti). In essa sono automaticamente evidenziati i limiti di cui sopra, sintetizzabili in un europeismo di maniera e di risulta coniugato con un idealismo assai poco coinvolgente. Mi permetto di seguito di riportarne alcuni passaggi, aggiungendo le mie sofferte riflessioni.

 

Se gli Stati Uniti chiudono, l’Europa dovrà cominciare a considerare tutto il mondo come il mercato alternativo. Penso a un grande salto in avanti. Penso alla Cina, all’India e ad altri interlocutori come l’Africa e l’America Latina.

(…)

L’Europa è un pane meraviglioso, ma è ancora mezzo crudo. Non soddisfa. Non piace. E allora o decide di cuocersi definitivamente o il rischio è mortale.

(…)

Gli avvenimenti di questi giorni affrettano le decisioni. Certo non è possibile che noi scriviamo il menù e a tavola si siedono russi e americani. Non è possibile che ancora ci sia chi non capisce che solo se siamo insieme abbiamo un futuro grande. Abbiamo una prospettiva luminosa. Abbiamo la forza per rientrare nel gioco. Ripeto che è una questione vitale: o stiamo insieme o sarà un futuro tristissimo per la politica e per l’economia

(…)

L’Europa ha un immenso patrimonio di welfare, di diritti. Ma oggi la sfida è anche quella di sostituire l’ombrello americano con quello europeo. Per anni l’America ci ha riparato dalla grandine, ora è il momento di farci il nostro ombrello. Penso a un lungo e indispensabile cammino verso la difesa comune. Penso a risorse aggiuntive che vengano progressivamente messe insieme da tutti i Paesi Ue. Penso a risorse spese in modo coordinato e unito. Se aumentiamo le spese militari senza organizzare una politica estera e una difesa comune, sono soldi buttati via. Insomma, ottanta anni di pace sono stati garantiti anche dalla nostra adesione alla Nato e dall’ombrello americano che, chiudendosi, ci impone di attrezzare e predisporre un comune sistema di difesa.

Se l’Europa pensa di rilanciarsi adottando una realpolitik pseudo-bellicista sbaglia di grosso: il bellicismo c’è già chi lo sa fare molto meglio di noi. Dobbiamo avere il coraggio di voltare pagina, non limitandoci a scopiazzare quelle altrui. Non si possono mettere assieme le pere riarmiste della narrazione in voga (seppur confezionate in modo accattivante) con le mele pacifiste offerte una tantum al mercatino popolare.

Riarmo è una brutta immagine. Pensata solo da chi non capisce lo spirito della gente. Io avrei usato altre parole. Difesa. Protezione. Sicurezza. Libertà. Ma quanti errori… Abbiamo affrontato la questione dividendo e isolando il mondo pacifista. Quando invece bisognava spiegare la forza della parola “difesa”. Il tema non può essere “armi sì-armi no”, il tema è che l’Europa in questo momento non viene riconosciuta. Prodi non è guerrafondaio. La bandiera della pace la sventolo anche io. Anzi, l’ho sempre sventolata. Prima di tutte le altre bandiere. Ma se si isola il problema dell’esercito da tutti gli altri, non facciamo un buon servizio al futuro. Se non si capisce che il tema difesa va declinato accanto al tema economia, al tema salute, al tema istruzione, non si riesce a guardare avanti. E, in questo momento, guardare avanti vuole dire anche immaginare un’Europa che abbia voce in capitolo.

Ma veniamo ad un futuro coinvolgente che dovrebbe buttare il cuore oltre l’ostacolo dopo averlo scaldato a dovere. Non c’è nelle parole di Prodi un pathos di livello, ma solo uno stucchevole e scontato richiamo all’impegno democratico e partecipativo.

Servono proposte innovative. Servono proposte che emozionano. Che prendono il cuore. Perché c’è metà del Paese che non va più a votare. E perché i giovani non si convincono con proposte in contrasto tra loro.

In conclusione: poco contenuto politico al di là dell’europeismo di facciata; poca spinta ideale e sociale al di là della mozione degli affetti; poca visione strategica al di là di un “si salvi chi può” che assomiglia molto ad un novello “armiamoci e partite”.

Purtroppo la carenza di leadership, che caratterizza il panorama europeo, non si colma con i fervorini prodiani, con la mobilitazione improvvisata contro lo slogan “autoritarismi di tutto il mondo, unitevi” e nemmeno facendosi dettare tempi e modalità dalla paura di essere emarginati. La casa europea non si difende con l’illusionistico e secondario antifurto delle armi, ma con la prioritaria, paziente e vigilante opera di rafforzamento della solidità strutturale.

 

Riarmo sì, riarmo no

C’è un momento, nel mezzo della manifestazione, in cui dal bastione che dà sulla piazza, dal lato opposto del Pincio dove si trova il palco, vengono calati due striscioni. Uno accanto all’altro. Il primo porta la scritta «Riarmo sì, anche così» ed è sorretto da un gruppetto di giovani che sventolano bandiere dell’Ucraina e della Georgia. L’altro dice «L’Italia ripudia la guerra, No Rearm Europe» e viene esposto da una coppia di mezz’età accompagnata da tre ragazzini. Le due indicazioni, speculari e opposte, si affiancano come se nulla fosse e in fondo in pochi notano la contraddizione evidente, neppure le teste che fanno capolino dietro gli stendardi. (dal quotidiano “Il manifesto” – Giuliano Santoro)

Un tempo non avrei esitato a scendere in piazza, oggi al di là delle personali difficoltà oggettive e soggettive, non mi sento di farlo. Perché non credo all’Europa o perché ci credo troppo? Qualcuno ritiene che nonostante le divergenze politiche sia stato utile lanciare questo segnale di democrazia e partecipazione. Può darsi che sia così a condizione che l’occasione serva a riprendere il discorso sui valori di fondo e non sulle mere opportunità.

Il filo conduttore a livello europeo non può passare attraverso la cruna dell’ago bellicista; l’unica forte provocazione unitaria di base potrebbe consistere nell’anti-trumpismo con tutto quel che comporta. La riscoperta della politica per chi ha ancora voglia di interessarsi ad essa. Sarebbe comunque una piazza soffocata dalle narrazioni mediatiche. Com’erano belli i tempi in cui in piazza cadevano i governi e si difendevano i diritti dei poveri. Oggi si fanno chiacchiere e poco più. “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”  direbbe mia nonna (erano due ingegneri che si scambiavano complimenti ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia).

Nemmeno il trumpismo ci può svegliare. Bisogna prendere la rincorsa dal passato evitare di incartarsi nello squallido presente, fare parecchi passi indietro. Sono troppo vecchio per mettermi in questa dimensione. L’unica cosa che riesco a fare è pregare per la pace.

Mio padre, quando qualcuno definiva assurda ed illusoria la risposta della religione cattolica ai misteri della vita, della morte e dell’aldilà, era solito rispondere: «Alóra catni vùnna ti, ch’ a tsi un zvaltón !!!».

 

La disumana certezza e il pietoso dubbio

Si assiste oggi – sotto la spinta di nuovi nazionalismi – ad un pericoloso ritorno di qualcosa di profondamente legato alle tragedie del Novecento, anche al di là del loro nesso con i genocidi, da quello degli armeni alla Shoah, con i “campi”, dai lager ai gulag. Lo ha messo in luce Giorgio Del Zanna parlando delle grandi deportazioni di popolazioni greche e turche negli anni Venti e Trenta del secolo scorso – le prime grandi deportazioni “legali” – e Nicolò Pianciola che ha delineato un quadro complessivo delle espulsioni di massa dell’età contemporanea. A portare il discorso sull’attualità è stata la giurista Francesca De Victor che ha documentato lucidamente come i Paesi europei negano oggi di fatto il diritto di asilo agli Heimatlose del XXI secolo attraverso l’esternalizzazione delle frontiere: se i profughi non entrano “giuridicamente” in Europa si possono tranquillamente disapplicare le norme europee basate sui diritti fondamentali dell’uomo. Maurizio Ambrosini, infine, ha analizzato ancora una volta le fake news di cui è intessuta la narrazione corrente sul “problema” immigrati, ricordando tra l’altro come la società europea abbia assorbito senza particolari difficoltà l’improvviso arrivo di sei milioni di ucraini in fuga dalla guerra. Non c’è davvero in atto un grande pericolo che giustifichi il tradimento che l’Europa – splendida costruzione di umanesimo giuridico – rischia di compiere nei confronti di se stessa e dei suoi valori costitutivi. (dal quotidiano “Avvenire” – Agostino Giovagnoli)

Come si fa a non essere angosciati di fronte ad una situazione internazionale così drammaticamente e sostanzialmente fascista e/o nazista? Come si può ridurre il tutto ad una seppur schiacciante vittoria elettorale di Donal Trump? Come si può accettare un ordine mondiale fondato sulla spietata logica del più forte? Come è possibile considerare la guerra come il male minore da accettare in modo vile e rassegnato? Come è possibile interessarsi alla guerra dei dazi sulle importazioni e sulle esportazioni di merci, trascurando la guerra in atto sui movimenti delle persone sballottate da un campo profughi all’altro? Come è possibile ridurre tutto al tatticismo più o meno filo-trumpiano mentre il mondo sta andando alla deriva?

Personalmente non riesco più nemmeno a seguire i dibattiti televisivi, tanto li sento lontani da un minimo di senso umanitario da cui prescindono in modo pragmaticamente inumano per rifugiarsi in una sorta di comodo scetticismo-pessimismo. Sono talmente confuso sul piano politico che preferisco non ascoltare le certezze mediatiche sputate in faccia ai disgraziati. Non trovo punti di riferimento credibili, sono veramente sperduto nel deserto mondiale. Il dato di fondo è il dubbio!

Se è vero che la fede non è tale se non è accompagnata dal dubbio, anche la politica non è seria se prescinde dai dubbi atroci che riguardano gli equilibri fra gli Stati, fra le categorie sociali, fra le persone e i loro problemi. Il dubbio di fondo è questo: la democrazia è in grado di garantire la giustizia sociale? Molti hanno rinunciato alla giustizia sociale e alla pace pur di modernizzare (?) la democrazia: non sono d’accordo e continuo ad arrovellarmi ed a soffrire.

 

I negozi europei e i supermercati statunitensi

Il leader della Cdu Friedrich Merz ha riferito che i conservatori Cdu-Csu e il centro-sinistra dell’Spd, del cancelliere uscente Olaf Scholz, hanno raggiunto un accordo di principio per formare un governo in Germania. “I colloqui esplorativi sono conclusi. Abbiamo trovato un accordo su una serie di questioni. Abbiamo un documento comune che sarà la base delle trattative per definire il patto di coalizione che cominceranno la prossima settimana. Oggi abbiamo trovato un accordo su tre temi: migrazione, finanze, mercato del lavoro ed economia”. Il prossimo cancelliere Friedrich Merz, ha aggiunto che al termine delle tre settimane di trattative è stato elaborato un documento esplorativo comune che farà ora da base alla fase formale del negoziato.

Presenti all’annuncio di Merz anche Markus Söder della Csu e i due co-presidenti della Spd Lars Klingbeil e Saskia Esken. La Germania va quindi verso una riedizione della Grande coalizione che fu a lungo al potere con Angela Merkel cancelliera. Saranno avviati ora colloqui ufficiali per la formazione dell’esecutivo, che avrà’ come principale compito una massiccia campagna di investimenti militari che garantiscano alla Germania forze armate adeguate a un contesto di disimpegno statunitense dal vecchio continente. Già martedì è atteso, nel vecchio Bundestag che a metà mese verrà sciolto, il voto per consentire lo sfondamento del tetto di bilancio previsto dalla Costituzione federale. Un test indicativo sulla forza che potrà avere, nel nuovo Parlamento uscito dal voto di fine febbraio, la nuova coalizione.

L’accordo sul governo in Germania passa comunque attraverso la stretta all’immigrazione. “Amplieremo massicciamente i controlli alle frontiere dal primo giorno del nostro governo congiunto – afferma il futuro cancelliere tedesco Friedrich Merz – e utilizzeremo questi controlli anche per aumentare significativamente il numero di respingimenti.
Ripristineremo l’obiettivo di limitare l’immigrazione nella legge, porremo fine a tutti i programmi di ammissione volontaria, ad esempio dall’Afghanistan, e non ne istituiremo di nuovi, sospenderemo il ricongiungimento familiare per coloro che hanno diritto alla protezione sussidiaria e lanceremo un’offensiva globale sui rimpatri. La polizia federale dovrà avere l’autorità di trattenere gli stranieri che sono tenuti a lasciare il paese o a presentare domanda di custodia cautelare per garantirne l’espulsione”. (dal quotidiano “Avvenire” – Redazione Esteri)

Putost che niént è mej putost. L’accordo di governo tedesco non è obiettivamente granché, il profilo è abbastanza basso, d’altra parte in questa fase non si poteva pretendere molto di più. Evitato il rischio di un’alleanza fra centristi ed estremisti di destra, si ritorna all’ipotesi di una piccola-grande coalizione fra democristiani e socialisti, fra moderati poco cristiani e sinistra poco socialista.

Dispiace che i punti programmatici fondamentali siano la stretta all’immigrazione e una massiccia campagna di investimenti militari. Forse il nuovo governo tedesco diventerà un canovaccio per l’intera Europa. Almeno si riprende a parlare di politica…Con le arie che tirano bisogna accontentarsi…Io però non mi accontento affatto e ritengo profondamente ingiusto che siano gli immigrati a pagare il prezzo delle nostre difficoltà così come penso sia oltre modo inaccettabile sfondare i bilanci sulle spese militari.

Il mercato del lavoro e l’economia sono gli specchietti per le allodole: una spruzzata di socialità e un po’ di sviluppo economico tanto per gradire.

Quanta nostalgia per il compromesso storico fra cattolici e socialisti: l’evoluzione politica si è interrotta lì. Gli accordicchi attuali ne sono soltanto una parodia. Alla politica è venuta meno la spinta ideale e valoriale e sono rimaste le botteghe. Speriamo che almeno rimangano aperti i negozi storici europei e non lascino il posto ai supermercati statunitensi. Putost che niént è mej putost.

 

L’ernia iatale del governo italiano

Il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani condanna severamente l’ennesimo attacco verbale giunto dalla Russia nei confronti del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Il Presidente della Repubblica è un uomo di pace e simbolo di unità nazionale ed europea”, ha affermato.  A seguito dell’attacco, Tajani ha chiesto al segretario generale della Farnesina, ambasciatore Riccardo Guariglia, di convocare l’ambasciatore della Federazione Russa a Roma. (Ansa.it)

Credo che gli italiani e il loro presidente debbano sentirsi onorati da questi reiterati attacchi. Innanzitutto essere nel mirino di uno dei più grandi delinquenti della storia di tutti i tempi vuol dire essere nel giusto. In secondo luogo evidentemente Sergio Mattarella dimostra, se mai ce ne fosse ulteriore bisogno, di essere portatore di un’alta visione democratica che tocca nel vivo dell’imperante disordine internazionale.

Mi resta tuttavia un dubbio atroce: siamo sicuri che questi attacchi siano farina del sacco putiniano o non siano qualcosa di ben più grande e mirato? Per parlare fuori dai denti, io ci vedo molta più acredine trumpiana che ira putiniana: d’altra parte, se non è zuppa, è pan bagnato. Probabilmente Sergio Mattarella è rimasto unico e coerente difensore di un ordine mondiale fondato sul ruolo dell’Europa e, come tale, viene considerato un corpo estraneo da neutralizzare. I valori, i principi, le idealità, nonostante tutto, danno molto fastidio e chi ne è portatore deve essere tacitato e/o squalificato.

Secondo dubbio atroce: vedo una certa qual rassegnata assuefazione a questi attacchi da parte del governo italiano. Difendere Mattarella è uno spontaneo imperativo morale e politico o è una fastidiosa pratica diplomatica da sbrigare senza troppo clamore? Non si sa mai che di sponda il manovratore Trump e i suoi sodali possano essere irritati o disturbati…

Viviamo tempi in cui scegliere è sconsigliabile, meglio fare i pesci in barile, dare un colpo al cerchio trumpiano e uno alla botte europea. Questo gioco è portato allo scoperto dalla linearità di pensiero e di comportamento da parte del presidente Mattarella. Credere nell’Europa è diventato un pericolo, avere dignità proveniente dalla Costituzione è considerato un inutile orpello, puntare ad un ordine mondiale fondato sul dialogo e sul rispetto delle lezioni della storia è qualcosa di anacronistico.

Considero Sergio Mattarella come l’ultimo dei giusti: senza inutili clamori, rende testimonianza alla vera politica. Una lezione continua, che rompe le scatole a chi non vuol imparare dalla storia e che costringe provocatoriamente ad un profondo esame di coscienza alla luce della Costituzione e dei trattati europei.

Cosa volete che importi tutto ciò ai delinquenti che (s)governano il mondo? Eppure a giudicare dalle reazioni, russe o americane che siano, qualcosa le idee contano ancora e, se il più becero dei capitalismi digitali ha i secoli contati, anche la più debole e fragile delle democrazie ha gli anticorpi per resistere agli attacchi delle autocrazie.