Il dio degli Ebrei non ha pietà per i palestinesi

Il comportamento dello Stato di Israele non è assolutamente difensivo, ma fortemente aggressivo al limite dell’annientamento di un popolo (chiamiamolo genocidio, sterminio o come si vuole). Al di sotto esiste una sorta di fanatismo religioso che lo giustifica? Al fanatismo islamico di Hamas si sta rispondendo col fanatismo ebraico? Per spiegare quanto sta avvenendo è sufficiente il sionismo? Non ho la capacità di intromettermi nel dibattito in corso su ebraismo, sionismo e semitismo: mi manca la preparazione culturale per affrontare simili problematiche. Tuttavia non posso chiudere gli occhi davanti al massacro dei palestinesi e mi limito quindi a due riflessioni.

Il sionismo è il movimento politico-religioso, sviluppatosi alla fine del sec. XIX in seguito all’inasprirsi dell’antisemitismo in Europa, inteso a ricostituire in Palestina uno stato che offrisse agli Ebrei dispersi nel mondo una patria comune e, dopo la proclamazione dello stato di Israele (15 maggio 1948), al suo consolidamento. Non siamo attualmente in presenza di un sionismo impazzito che ben si sposa col fanatismo religioso?

Ricordiamoci che lo Stato confessionale o giù di lì è la peggior forma istituzionale di un governo che confessa ufficialmente una data religione, la quale esercita influenza sulle scelte politiche del Paese. Tutto diventa lecito in nome di Dio: ne consegue un impazzimento politico-religioso per il quale non si può più chiedere a Dio che ce ne scampi e liberi.

Le analisi socio-politiche sullo stato di Israele sostengono che la casta religiosa sia molto potente ed influente. Mi chiedo allora: i maggiorenti dell’ebraismo sono d’accordo sullo sterminio in atto? Per loro il miglior perdono è la vendetta?

Seconda riflessione. La Bibbia nell’antico testamento porta in sé delle enormi e sconvolgenti contraddizioni: un Dio spietato e vendicativo verso i popoli nemici di Israele, l’intransigenza verso i nemici, la violenza a salvaguardia del popolo eletto, una filosofia bellica che sottende tutta la storia degli ebrei, etc. etc.

Se devo essere sincero, leggendo certi salmi non riesco ad evitare parallelismi con la storia attuale di Israele.  Qualcuno sostiene che la Bibbia abbia comunque un impatto immediato e fruttifero sull’ascoltatore o sul lettore attento, prescindendo dalla sua spiegazione, dal suo commento e dalla sua attualizzazione. Non lo so se sia vero in tutto o in parte, ma so soltanto che, di fronte a certe pagine della Bibbia, resto colpito per la loro sconvolgente violenza (si pensi agli interventi vendicativi di un Dio a uso e consumo del popolo ebreo).

Posso essere provocatorio e forse poco interreligioso? Se togliamo la chiave interpretativa ed esistenziale di Gesù di Nàzaret, rischiamo, a mio incompetente e discutibilissimo giudizio, di pestare l’acqua nel mortaio. Non so fino a che punto fosse eretico Marcione nella sua schematica contrapposizione fra Dio degli Ebrei e Dio di Gesù.

L’indubbio risorgente antisemitismo può essere considerato uno sciagurato fontanazzo dell’alluvione nazista e non anche una istintiva, semplicistica e barbara reazione verso chi da vittima si sta trasformando in carnefice?

Quindi mi sento in coscienza di esprimere molti dubbi che rendono ancor più inaccettabile la guerra in corso e ancor più colpevole l’atteggiamento di chi eticamente giustifica tutto con il terrorismo di Hamas, ma in realtà dimostra troppa passiva comprensione verso lo strapotere israeliano col progressivo redde rationem da esso operato, che si sta avvicinando al giudizio finale sull’esistenza del popolo palestinese.

 

Le osterie senza l’oste

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha messo in guardia contro qualsiasi “decisione presa senza l’Ucraina”, ribadendo che gli ucraini “non abbandoneranno la loro terra agli occupanti”. “Qualsiasi decisione presa contro di noi, qualsiasi decisione presa senza l’Ucraina, sarebbe una decisione contro la pace”, ha avvertito sui social, in vista dell’incontro che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin avranno in Alaska il 15 agosto per cercare di porre fine alla guerra.

Zelensky ha sottolineato che le decisioni prese senza l’Ucraina sono contrarie alla pace e “non possono funzionare”. “Tutti abbiamo bisogno di una pace vera e autentica. Una pace che la gente rispetti”, scrive in un messaggio in inglese pubblicato su X.

Zelensky, che aveva chiesto di essere presente a un vertice dei leader sulla fine della guerra al quale partecipasse anche l’Europa, ha indirettamente accennato a informazioni trapelate sulla presunta proposta di Trump a Putin, che, secondo alcuni media, comporterebbe il congelamento del conflitto in cambio della revoca delle sanzioni contro Mosca. “Non ricompenseremo la Russia per ciò che ha perpetrato”, ha detto, aggiungendo che tutti i partner internazionali devono capire “cosa sia una pace dignitosa”.

Zelensky ha sottolineato che deve essere la Russia a porre fine alla guerra, poiché è Mosca che l’ha iniziata e la sta prolungando, e ha respinto ancora una volta la possibilità che un accordo implichi una cessione, almeno formalmente, dei territori ucraini occupati di Crimea, Donetsk, Luhansk, Zaporizhia e Kherson.

“La risposta alla questione territoriale ucraina è già contenuta nella Costituzione ucraina. Nessuno si discosterà da essa e nessuno potrà farlo. Gli ucraini non cederanno il loro territorio all’occupante”, ha detto, ribadendo la disponibilità a collaborare con Trump per una pace “reale e, soprattutto, duratura” che non rischi di “crollare a causa della volontà di Mosca”. (da “Avvenire” – Vito Salinaro)

Sarebbe curioso se non fosse ormai normale: si tratta una pace in assenza di una delle due parti interessate e alla fine addirittura sulla sua pelle. L’immediata conseguenza è una sacrosanta irritazione da parte degli esclusi e il loro ovvio irrigidimento.

Le due superpotenze (gli Usa forse lo sono ancora mentre la Russia si atteggia) troveranno sicuramente un’intesa che l’Ucraina dovrà ingoiare. Stupisce la totale assenza della Ue, che potrebbe almeno fare da sponda all’Ucraina, anche perché una sconfitta a tavolino del Paese invaso sarebbe un’umiliazione per l’Europa che lo ha, bene o male, sostenuto.

L’Europa ha sbagliato tutto fin dall’inizio: anziché fornire armi a più non posso, avrebbe dovuto e potuto svolgere il ruolo di playmaker in difficili ma inevitabili trattative di tregua se non di pace. Adesso è tardi! Purtroppo anche per Zelensky, che anziché limitarsi a pietire armamenti, cadendo in un gioco bellico internazionale senza vie d’uscita, avrebbe dovuto e potuto chiedere aiuto sul piano diplomatico a costo di qualche ragionevole sacrificio.

L’unico personaggio che faceva questi ragionamenti era papa Francesco, il quale fu per questo più volte criticato quale assurdo propugnatore di una inaccettabile resa: non era così e la storia lo sta già dimostrando.

Chi osava parlare di trattative diplomatiche era immediatamente bollato come amico del giaguaro russo: adesso di giaguari ne abbiamo due che si sostengono a vicenda, Trump e Putin.

Anzi, di giaguari ne abbiamo tre. Finirà più o meno all’osteria senza l’oste anche per la striscia di Gaza. Suscita orrore il piano di Netanyahu: i palestinesi fatti sloggiare e dirottati, con il concorso degli Stati Uniti, in una sorta di “metropoli umanitaria” nel Sud, dove si trova attualmente circa un milione di persone e dove verrebbe spinto un altro milione di sfollati da spingere poi ad accettare il trasferimento in altri Paesi.

Mia madre direbbe: meglio morire piuttosto che essere sballottati da un posto all’altro abbandonando tutto e tutti.

Anche in questo teatro l’Europa brilla per la sua assenza. Non è nemmeno riuscita a condannare apertamente e convintamente la prepotenza massacrante di Israele, men che meno ad adottare contromisure verso gli autori di un autentico genocidio. La storia ce ne chiederà conto.

Per i palestinesi il discorso è ancora più drammatico rispetto agli ucraini: sono senza uno Stato, sono senza alleati, sono senza un barlume di classe dirigente, sono ostaggi di Hamas tanto come i prigionieri israeliani.

Trump aveva promesso la pace e ce la sta proponendo: la pace dei sepolcri! Trattata con i becchini di turno…

 

 

 

Il carcere degli orrori

La procura di Milano indaga su quattro anni di gestione del carcere Beccaria di Milano: dal 2021 al 2024. Ci sono anche due ex direttrici del carcere Minorile Beccaria di Milano, Cosima Buccoliero e Maria Manenti, e una vicedirettrice che ha assunto per un breve periodo la reggenza Raffaella Messina nell’inchiesta per maltrattamenti, torture e falso. Un altro ex direttore, Fabrizio Rinaldi, seppur non presente nella richiesta di incidente probatorio, è a sua volta coinvolto nell’indagine. Le dirigenti dell’istituto penale minorile sono accusate in particolare di aver tenuto condotte omissive. Perché, «non esercitando i poteri di vigilanza e controllo e coordinamento agli stessi conferiti, omettevano di impedire le condotte reiterate, violente e umilianti all’interno dell’Ipm Beccaria».

Oltre alle ex direttrici, tra gli indagati ci sono un sovraintendente del carcere e due comandanti della penitenziaria. Anche tre operatori sanitari sono coinvolti nell’inchiesta sui soprusi e i pestaggi all’interno dell’istituto minorile. Il coordinatore sanitario, il medico e il coordinatore infermieristico del carcere sono accusati in particolare di aver redatto «referti falsi o concordati con gli agenti di polizia penitenziaria» per nascondere le lesioni riportate dai detenuti e «assistendo a plurime aggressioni» da parte degli agenti.

In tutto sono 42 gli indagati, 21 dei quali comparivano già nell’ordinanza cautelare dell’aprile 2024 con la quale erano stati disposti gli arresti per 13 agenti della penitenziaria e altri otto erano stati sospesi dal servizio. Oltre 30 gli appartenenti alla polizia penitenziaria indagati. I reati contestati sono stati commessi nei confronti di 33 ex-detenuti dell’istituto, parti lese che saranno sentite con la formula dell’incidente probatorio. È quanto risulta appunto dalla richiesta di incidente probatorio firmata dalla procuratrice aggiunta Letizia Mannella e dalle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena. Sputi in faccia, calci e pugni sferrati sull’intero corpo – in un caso anche un colpo alla testa con uno stivale – il tutto condito da insulti irripetibili e spesso razzisti. Sono le scene che la richiesta di incidente probatorio – avanzato dalla Procura di Milano – restituisce di quanto avvenuto, per mesi, nel carcere minorile Beccaria. Maltrattamenti, lesioni, torture e un caso di violenza sessuale, che ora vedono salire la lista dei presunti responsabili e mettono in fila più episodi di violenza, dal 2021 al marzo 2024. Si tratta della fase 2 di un’indagine partita nell’aprile 2024 che aveva già portato a 13 arresti e 8 sospensioni.

Nel novembre 2023 un ragazzo di origine araba è stato colpito da alcuni agenti della penitenziaria con «più cinghiate anche sulle parti genitali fino a provocarne il sanguinamento». Frequenti le violenze psicologiche e fisiche e le umiliazioni: in più occasioni i detenuti vengono portati all’interno di una stanza priva di telecamere e aggrediti in gruppo, anche utilizzando le manette per immobilizzarli. «Compare, io ti mangio il cuore» è una delle frasi pronunciate da un poliziotto della penitenziaria prima di colpire un ragazzino. Nel gennaio 2024 un altro detenuto che stava dando in escandescenze in cella veniva picchiato con particolare violenza: «Lo colpivano con calci e pugni al volto e alla schiena e gli premevano un ginocchio sul collo; poi si spostavano nella cella dove ammanettavano il detenuto con le mani dietro alla schiena e, mentre lo stesso si trovava sdraiato a faccia in giù sul pavimento, lo colpivano con un calcio alla schiena». Sono alcuni dei casi documentati nella richiesta. (da “Avvenire” – Simone Marcer)

Perché tanta violenza, peraltro tollerata e addirittura fomentata, all’interno di un carcere oltre tutto minorile?

Durante la mia vita professionale, avendo l’occasione di svolgere funzioni direttive, raccomandavo ai colleghi tolleranza e correttezza in base al seguente ragionamento minimalista, ma assai realista: lavorare è inevitabilmente faticoso, cerchiamo di non renderlo tale ancor di più con atteggiamenti e comportamenti aggressivi e insofferenti…

Facciamo le debite proporzioni ed eccoci all’interno di un carcere, luogo di sofferenza: non aggiungiamoci violenza verbale e fisica da parte di chi vive e lavora in questo ambiente.

Violenza chiama violenza: più il carcere viene impostato come luogo di mera punizione e più vi sarà la istintiva reazione di scaricare in qualche modo la tensione su chi vive in quell’ambiente. Come sempre a farne le spese saranno i soggetti più deboli che verranno investiti da una sorta di ciclone paradossalmente vendicativo. Non occorre scomodare la psicologia per capirlo.

Cosa fare? Innanzitutto occorrerebbe che ciascuno facesse il proprio dovere a cominciare dai dirigenti delle carceri, ma sono convinto che non possa bastare.

Da qualche tempo, di fronte agli enormi problemi che stiamo vivendo, mi sento sempre più in dovere di partire dall’enorme portata culturale della nostra Costituzione. Vale per la guerra (ripudio), per i pubblici amministratori (disciplina ed onore), per l’accoglienza ai migranti (diritto d’asilo), per ogni e qualsiasi tentazione razzistica e discriminatoria (uguaglianza di tutti i cittadini), per le derive nazionaliste (cooperazione con gli altri Stati), per le spinte populiste (equilibrio democratico e meccanismi di controllo e bilanciamento dei poteri), per la mancanza di lavoro e per i morti sul lavoro ( lavoro valore fondante della Repubblica), per i femminicidi e le violenze contro le donne (uguaglianza fra uomini e donne), per la sanità pubblica (salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività), per la pubblica istruzione (scuola  aperta a tutti, istruzione obbligatoria e gratuita, diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi), per i partiti politici (concorrere con metodo democratico a determinare la politica, divieto di ricostituzione del partito fascista), per la magistratura (autonomia e indipendenza).

In questo impegno alla riscoperta dei principi costituzionali un posto importante riguarda la pena carceraria. Nel contesto della Costituzione italiana, essa è soggetta a principi fondamentali che ne regolano l’esecuzione e la finalità. L’articolo 27 della Costituzione, in particolare, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Questo implica che la detenzione non può essere fine a sé stessa, ma deve mirare al reinserimento sociale del reo. Il tutto, a maggior ragione vale per i minori.

Dobbiamo partire di qui per rivedere l’impostazione del carcere, per salvaguardare i diritti del condannato, per regolare il comportamento di chi opera nell’ambito carcerario, per evitare ogni e qualsiasi tipo di violenza, per prevenire i suicidi, per riportare cioè l’istituto carcerario nell’ambito del sistema democratico di cui è specchio fedele.

A carico di un cittadino condannato a qualsiasi pena detentiva non è ammissibile alcuna violenza fisica o psicologica, ma vige l’obbligo dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali della persona. Non resta che rimboccarsi le maniche: non è tollerabile che un carcerato venga torturato o indotto più o meno direttamente al suicidio. Servono amnistia e indulto? Si faccia ricorso anche a queste possibilità. Non ci si limiti a queste, ma non le si escluda. Non ci siano omertà e opacità. Si faccia qualcosa di concreto e di programmaticamente fondamentale per ovviare a questa vergogna della nostra malata democrazia.

Papa Francesco (meno se ne parla e più mi sento in dovere di ricordarlo), quando visitava le carceri, si chiedeva provocatoriamente in riferimento ai carcerati: “Perché loro e non me…”. Sarebbe opportuno che tutti ci ponessimo questa domanda e ne scopriremmo delle belle…

 

 

 

Uccidere per non uccidere

Byron Black, 69 anni, è morto mercoledì alle 10.43 (ora locale) nel carcere di Nashville dove è stata eseguita la sua condanna a morte. L’iniezione letale disposta dalla Corte Suprema del Tennessee è stata eseguita senza l’accorgimento invano chiesto dai suoi avvocati: la disattivazione del pacemaker che gli era stato impiantato nel cuore e che, ancora funzionante, si temeva potesse interferire nell’esecuzione provocandogli dolorose scosse elettriche. L’uomo, condannato per triplice omicidio, è spirato mentre riferiva al suo assistente spirituale di provare forte sofferenza. Secondo i testimoni avrebbe detto: «Fa molto male».

Black aveva trascorso più di 35 anni nel braccio della morte per aver ucciso nel 1988 la fidanzata Angela Clay, 29 anni, e le figlie di quest’ultima: Latoya, 9 anni, e Lakeisha, 6 anni. L’omicidio sarebbe maturato per gelosia mentre l’uomo si trovava in regime di semi-libertà. In passato, aveva sparato all’ex marito della sua compagna.

Il suo caso è venuto a galla quando i suoi legali, accertata l’irrevocabilità della condanna a morte, hanno chiesto al tribunale di disattivare il suo defibrillatore impiantabile, con funzione anche di pacemaker, per risparmiargli per lo meno l’inutile dolore provocato da eventuali scosse provocate dalla somministrazione del farmaco letale, il pentobarbital. Lunedì scorso, la Corte Suprema ha respinto l’ultimo ricorso spiegando che l’iniezione non avrebbe provocato scariche elettriche e che, in caso contrario, l’uomo non le avrebbe comunque percepite.

Il governatore del Tennessee, il repubblicano Bill Lee, si è poi rifiutato di fermare l’esecuzione. Black, che usava una sedia a rotelle e soffriva di demenza, danni cerebrali e insufficienza renale, è stato il secondo americano ucciso nel braccio della morte del carcere di Nashville dal mese di maggio.

Secondo il Death Penalty Information Center, un’associazione che monitora le condanne a morte, nelle galere degli Stati Uniti non c’erano prigionieri con patologie assimilabili a quelle di Black. Sul suo caso grava anche una querelle tra l’ospedale locale e l’amministrazione penitenziaria personale sanitario che si sono rimbalzati la responsabilità di non aver organizzato per tempo l’intervento di rimozione del pacemaker.

Kelley Henry, legale dell’uomo da 25 anni, ha tuonato: «Oggi, lo Stato del Tennessee ha ucciso un uomo gentile, fragile e con disabilità intellettiva, violando le leggi del nostro Paese semplicemente perché poteva farlo. Nessuno in posizione di potere, nemmeno i tribunali, ha avuto il coraggio di fermarli». «Quello che è successo – ha aggiunto – è il risultato di pura, sfrenata sete di sangue e codardia. Un abuso brutale e incontrollato del potere governativo».

Sono 28 le condanne a morte eseguite negli Usa nel 2025, altre nove sono in programma entro la fine dell’anno. (Da “Avvenire” – Angela Napoletano)

Davanti a questo fatto avvenuto nel Tennessee c’è sicuramente chi se la caverà con un’alzata di spalle, c’è chi penserà che preoccuparsi della pena di morte per i delinquenti diventa paradossale di fronte alle migliaia di morti innocenti provocati dalle guerre, c’è chi spera che le esecuzioni capitali possano funzionare come deterrente rispetto alla criminalità, c’è chi chiuderà il discorso affermando che chi commette reati punibili con la pena di morte sa a cosa può andare incontro quindi…, c’è chi addirittura auspicherà la reintroduzione della pena di morte anche nel nostro Paese.

“Perché si uccidono le persone che hanno ucciso altre persone? Per dimostrare che le persone non si devono uccidere?” (Norman Mailer)

Questione di mentalità, pareri e principi diversi.

Io la penso, meglio dire cerco di pensarla e di agire di conseguenza – anche se è difficilissimo e troppo spesso non ci riesco – come di seguito: «La lotta per la giustizia e la libertà passa attraverso la croce, il sacrificio di sé, la denuncia aperta, la disubbidienza creativa, le varie obiezioni di coscienza, il coraggio della verità, il dialogo sincero, il perdono e l’amore ai nemici, il no alla guerra e alla pena di morte» (Comunità di S. Cristina).

Seguire queste linee di condotta non è una virtù cristiana, ma una necessità umana se vogliamo cambiare questo mondo, altrimenti…

Un ponte per giocattolo

Per Giorgia Meloni, siamo di fronte a «un’opera strategica per lo sviluppo di tutta la nazione. Non è un’opera facile» ha ammesso, aggiungendo che «ci piacciono le sfide difficili quando sono sensate». Quest’opera è dunque un motivo di orgoglio nazionale per alcuni e la madre di tutti gli scandali futuri per altri. Subito dopo l’annuncio del Mit, a conclusione del comitato interministeriale, Bonelli (Avs) l’ha definito «il più grande spreco di denaro pubblico mai visto in Italia: 14,6 miliardi di euro dei cittadini, senza un solo euro di investimenti privati» con una chiosa politicissima quanto velenosissima. «Nemmeno Berlusconi aveva osato tanto. È il capolavoro di Matteo Salvini». Poi, l’argomento principe degli ambientalisti: «L’approvazione arriva nonostante il parere negativo dell’ambiente e il rischio sismico, con un pilone che sorge su una faglia attiva. Il governo Salvini, in un atto di pura arroganza, ha ignorato gli enti tecnici competenti, come Anac, Ispra, Ingv e il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Un vero e proprio schiaffo alla trasparenza e alla legalità». Su quest’ultimo punto la battaglia sarà lunga e il Mit lo sa benissimo: una delle prime dichiarazioni del ministro Salvini è stata proprio sul fronte della sicurezza e del contrasto alle infiltrazioni mafiose, che vedrà il governo schierato h24. Per un’opera da 13,5 miliardi, «contrastare ogni qualsivoglia tentativo di infiltrazione sarà una nostra ragion d’essere. Con il Ministero dell’interno si stanno adottando tutti protocolli come già per expo e le Olimpiadi: bisogna attenzionare tutta la filiera, perché sia impermeabile ai malintenzionati. Se si dovesse non fare ponte perché ci sono mafia e ‘ndrangheta allora non facciamo più niente» ha commentato.

Naturalmente, l’opposizione ha già iniziato il fuoco di sbarramento, puramente verbale per adesso. «Il governo trova 13,5 miliardi per il Ponte sullo Stretto, da oggi ufficialmente autorizzato dal Cipess, mentre per l’Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria mancano ancora 17,2 miliardi per evitare che dal “profondo Sud” ci si possa impiegare anche 20 ore di treno per raggiungere la capitale» recita una nota del senatore M5s Pietro Lorefice. «Altro che giornata storica: oggi è una giornata triste per il Mezzogiorno e per tutto il Paese» ha detto invece Anthony Barbagallo, capogruppo Pd in Commissione Trasporti alla Camera. Il ministro fa spallucce e conta di avere il via libera della Corte dei Conti per partire tra settembre e ottobre coi cantieri. (da “Avvenire” – Paolo Viana)

Durante un convegno in cui tenni una relazione in materia fiscale – di essa mi occupavo con riferimento alle problematiche delle società cooperative – ricordo di avere inventato di sana pianta il “ministero del buon senso” e di avervi fatto riferimento nelle risposte ai quesiti che mi venivano posti: operazione rischiosa, ma altrettanto proficua, in mezzo ad uno strabiliante ginepraio di norme, interpretazioni e sentenze.

Lasciatemi ricordare altresì come don Raffaele Dagnino, storico prete e punto di riferimento per i cattolici parmensi, fosse solito augurare alle mamme tanto buon senso per i loro figli.

Non è facile definire il buon senso: non si tratta certamente di un banale, comodo ed opportunistico adattamento alla realtà, ma piuttosto di un semplice e coraggioso modo di affrontarla e di cambiarla. Potrebbe essere la ricetta per tornare a governare, a tutti i livelli, in modo concreto ma lungimirante e soprattutto rispondente alle vere e primarie necessità.

Non sono un tecnico delle complesse materie riguardanti la realizzazione di mastodontiche opere infrastrutturali come il ponte sullo stretto di Messina e quindi, a maggior ragione, devo rifarmi alle modalità dettate dal buon senso.

Quando in una famiglia si fa molta fatica a condurre una dignitosa vita comunitaria, difficilmente a qualcuno verrebbe in mente di proporre una ristrutturazione dell’appartamento per dotarlo di un terrazzo per feste e ricevimenti con amici e conoscenti e, se a qualcuno balenasse l’idea, il capo-famiglia lo metterebbe subito a tacere, ricordandogli che il bilancio famigliare non può permettere questo investimento anche se piacevole, ma non certamente primario rispetto alle esigenze famigliari. Mi pare di sentire la mamma casalinga dire: “Io faccio i salti mortali per tirare avanti la baracca e non far mancare il necessario e tu mi proponi il superfluo? Mi prendi in giro? Datti una calmata! Ci sono cose più importanti a cui pensare…”.

Il figlio-ministro prodigo Matteo Salvini ha chiesto alla madre-premier misericordiosa nientepopodimeno che i fondi per costruire un ponte sullo stretto di Messina: richiesta esaudita con enfasi. Mi permetto di fare la parte del figlio maggiore che dà voce a tutto il parentado: “Da tempo chiediamo soldi per la sanità e l’istruzione e rispondete picche accampando scuse di bilancio e ora solo perché Salvini vuol conquistare voti al sud lo accontentate stanziando fondi spropositati al riguardo? Non ci siamo e non ci stiamo!”.

Naturalmente verranno accampati tanti argomenti socio-economici per dimostrare che si tratta di un investimento proficuo con ritorni benefici di vario genere. Tuttavia, quando non c’è il conquibus, si tratta semplicemente del libro dei sogni e di una fuga dalle responsabilità. Il resto è fuffa salviniana ingoiata a livello governativo e spacciata mediaticamente come una grande idea. Al bimbo Salvini viene consentito di giocare con un giocattolo che costa 13,5 miliardi di euro e ai bimbi, che vivono in miseria e/o che non vanno a scuola, viene promesso che col tempo arriveranno tanti giocattoli anche per loro.

 

 

 

Un ticket di inquietante successo

La presentazione dei palinsesti Mediaset si è trasformata, per molti osservatori, in un segnale politico. Pier Silvio Berlusconi ha lanciato messaggi che vanno oltre il mondo televisivo, lasciando intravedere ipotesi di futuro per il centrodestra e per Forza Italia.

Durante il suo intervento, Pier Silvio ha parlato di rinnovamento, di “volti e idee nuove”, frenando sullo ius scholae e lodando la premier Giorgia Meloni. Parole che molti hanno letto come una vera e propria investitura, accompagnate dalla prudente apertura all’idea di un futuro impegno politico, forse tra due anni, quando avrà 58 anni: la stessa età con cui il padre Silvio Berlusconi scese in campo nel 1994.

L’ipotesi di una “staffetta” nel centrodestra circola da settimane tra via della Scrofa e i palazzi romani. Secondo alcuni, potrebbe concretizzarsi uno scenario in cui Pier Silvio Berlusconi diventi premier e Giorgia Meloni punti al Quirinale nella partita per il Colle del 2029. Per ora sono solo suggestioni, ma la prospettiva divide: c’è chi sogna una nuova consacrazione del berlusconismo e chi teme una guerra di successione all’interno della coalizione.

All’interno di Forza Italia, l’ipotesi Pier Silvio come “federatore del centro” piace a chi sogna un’alleanza capace di riunire cattolici, moderati e delusi da altre forze come Azione o Italia Viva. Matteo Renzi ha reagito con durezza alle parole di Berlusconi jr, segnale di un possibile timore per un nuovo equilibrio politico.

Per ora si tratta solo di scenari. Ma la suggestione di una staffetta tra Palazzo Chigi e Quirinale ha già acceso il dibattito e alimentato le manovre di lungo periodo nel centrodestra. (msn.com – Baritalia News – Storia di Claudia De Napoli)

Da tempo ho la sensazione che la linea politica di Forza Italia sia dettata da Mediaset e dagli interessi editoriali del gruppo impersonificati in modo molto pragmatico da Pier Silvio Berlusconi. Finora ero però dell’idea che ai Berlusconi non interessasse più di tanto l’assetto politico del Paese, ma si accontentassero di avere sufficienti garanzie per lo svolgimento dei loro affari. Sembra invece che i rapporti attuali all’interno del centro-destra non siano sufficienti e che diventi sempre più necessario un diretto coinvolgimento a livello di governo.

Probabilmente la scarsissima qualità della inaffidabile classe dirigente di riferimento e la complessità della situazione politico-economica consigliano a Pier Silvio Berlusconi di fare una capatina nell’agone politico. Di qui l’ipotesi di una sua discesa in campo, non certo per ricoprire ruoli di contorno ma da protagonista principale.

L’ostacolo sarebbe la presenza piuttosto ingombrante di una Giorgia Meloni, che non sarebbe certamente disponibile a farsi da parte, ragion per cui ecco spuntare l’ipotesi di un ticket piuttosto fantasioso, ma, con le arie che tirano, non troppo. Un modo per fare ordine nel regime: ogni pedina reazionaria al suo posto, un posto per ogni pedina reazionaria.

Certo sarebbe la ciliegiona sulla torta della riforma anti-costituzionale del cosiddetto premierato abbinato ad una compiacente presidenza della Repubblica. Al solo pensarci mi vengono i brividi. Alcuni anni or sono pensavo che l’ipotesi di Meloni presidente del consiglio non avesse possibilità di concretizzarsi per l’ostilità europea: ostacolo ampiamente superato e bypassato con la collocazione meloniana a livello internazionale. Se è passata la Meloni, chi mi dice che non passerà l’abbinata Meloni-Berlusconi? Per Trump sarebbe oro colato, per la Ue sarebbe ancor più facile digerire una destra italiana ammorbidita in salsa neo-berlusconiana. Il Ppe avrebbe un interlocutore interessantissimo, il Parlamento europeo una semplificazione di schieramenti, la Commissione europea troverebbe la certezza di un fedele ed obbediente componente, il Consiglio d’Europa un’Italia perfettamente integrata negli schemi geopolitici correnti.

E gli italiani? Applaudiranno e/o taceranno. A meno che…non trovino il coraggio e la forza di resistere, resistere e resistere. Nel ’68 si gridava: viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-Tung. Di fronte alla prospettiva di cui sopra si sentirebbe la maggioranza silenziosa “gridare a bassa voce”: viva Trump, viva Netanyahu, viva Berlusconi. Dio, come siamo caduti in basso!

 

I torti dei giudici e le ragioni di Netanyahu e Trump

L’annuncio arriva a sorpresa, a ridosso dei tg delle 20, a firma della stessa presidente del Consiglio. «Oggi mi è stato notificato il provvedimento dal Tribunale dei ministri per il caso Almasri – inizia Giorgia Meloni, in un messaggio postato sul suo canale social di X – dopo oltre sei mesi dal suo avvio, rispetto ai tre mesi previsti dalla legge, e dopo ingiustificabili fughe di notizie». Poi, la notizia vera e propria: «I giudici hanno archiviato la mia sola posizione», mentre «dal decreto desumo che verrà chiesta l’autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Piantedosi e Nordio e del sottosegretario Mantovano».

(…)
E ora, secondo quanto lascia intendere Meloni, la sua posizione sarebbe stata archiviata mentre per gli altri tre potrebbe aprirsi la prospettiva di un rinvio a giudizio, previa richiesta di autorizzazione a procedere. Meloni: io non informata? Assurdo, il governo è coeso
Perché le quattro posizioni sarebbero state differenziate dalle tre magistrate del Tribunale dei ministri? Secondo quanto annota la premier, «nel decreto si sostiene che io “non sia stata preventivamente informata e (non) abbia condiviso la decisione assunta”. In tal modo non avrei rafforzato “il programma criminoso”». Pertanto, prosegue, «si sostiene che due autorevoli Ministri e il sottosegretario da me delegato all’intelligence abbiano agito su una vicenda così seria senza aver condiviso con me le decisioni assunte». Meloni respinge una tale ricostruzione, perché è «una tesi palesemente assurda». A differenza «di qualche mio predecessore, che ha preso le distanze da un suo ministro in situazioni similari», la premier rivendica «che questo Governo agisce in modo coeso sotto la mia guida: ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata» ed è «quindi assurdo chiedere che vadano a giudizio Piantedosi, Nordio e Mantovano, e non anche io, prima di loro».

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A conclusione del messaggio, la presidente del Consiglio ribadisce «la correttezza dell’operato dell’intero Esecutivo, che ha avuto come sola bussola la tutela della sicurezza degli italiani». Meloni ricorda di averlo detto pubblicamente subito dopo aver avuto notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati. E anticipa che lo ribadirà «in Parlamento, sedendomi accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano al momento del voto sull’autorizzazione a procedere». (“Avvenire” – Vincenzo R. Spagnolo)

Mio padre sosteneva che quando nella vita di coppia non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla?! È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente.

I giudici hanno sempre torto quando hanno a che fare con chi governa: se sottopongono qualcuno ad indagini si intromettono, se rinviano a giudizio lo fanno senza prove, se condannano vogliono far fuori i condannati, se assolvono fanno strani ragionamenti diversificati.

E se la piantassimo una buona volta di criticare le decisioni dei giudici e le rispettassimo almeno in nome della Costituzione e dell’autonomia dei poteri che essa prescrive. La sfiducia verso i magistrati, inoculata dai politici nel corpo sociale, è a dir poco deleteria, serve soltanto a creare quella confusione che è presupposto di qualunquismo e populismo.

Se Giorgia Meloni usasse la stessa lumacosa verve, che adotta nei confronti della magistratura, con Netanyahu e Trump non saremmo ingabbiati in quel vergognoso opportunistico gioco internazionale che ci propone il governo del nostro Paese.

Si vociferava che un mio ex-collega, prima di partecipare a riunioni di lavoro che si preannunciavano calde e imbarazzanti, facesse una capatina dalla suocera per sfogare i suoi istinti bellicosi e presentarsi quindi in modo più rilassato nelle sedi ufficiali.

Non vorrei che la nostra premier sfogasse le sue rabbie con i giudici per poter meglio ingoiare i rospi delle porcherie israeliane e statunitensi. Non è un caso che la polemica da cui siamo partiti, vale a dire quella contro le mosse del tribunale dei ministri sul caso Almasri, sia uscita proprio in concomitanza con la dichiarata intenzione israeliana di occupare la striscia di Gaza (quello che rimane) con il tacito assenso statunitense. A parte gli scherzi siamo a vere e proprie manovre di depistaggio dell’opinione pubblica.

A meno che i ministri e sottosegretari, coesi sotto l’autorevole guida di Giorgia Meloni, non stiano pensando di prenotare un posto vacanziero nello splendido resort turistico di Gaza ipotizzato da Trump e Netanyahu e temano che i giudici possano scompigliare i loro piani processando due ministri e un importante sottosegretario. Vacanze rovinate!

Contro la forza israeliana la ragion non vale

Sull’onda dell’annuncio di Emmanuel Macron, anche il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato che il Regno Unito nel corso della prossima Assemblea generale dell’Onu prevista per settembre riconoscerà lo Stato di Palestina. A differenza di quella francese, però, la posizione di Starmer è apparsa fin da subito più ambigua: il riconoscimento avverrà, ha detto, “a meno che Israele non compia passi concreti per migliorare la situazione a Gaza”. In altri termini, il riconoscimento dello Stato palestinese viene presentato come una merce di scambio da ritirare se Israele si mostra più “ragionevole”. Una formulazione che ne svuota radicalmente il significato politico e morale. Ma anche volendo prescindere dalle ambiguità di Starmer, che efficacia può avere oggi riconoscere la Palestina? Siamo infatti di fronte a due questioni che, seppur connesse, rimangono distinte. La prima, e più urgente, è lo sterminio quotidiano della popolazione palestinese in corso da mesi nella Striscia di Gaza. Una situazione che sempre più spesso viene definita da giuristi, studiosi e perfino da organizzazioni israeliane come genocidio. È in atto un’azione intenzionale e sistematica di annientamento di una popolazione, come dichiarato apertamente da numerosi esponenti del governo israeliano. È in corso una carestia indotta, provocata deliberatamente dal blocco degli aiuti umanitari e dalla riorganizzazione dei canali di distribuzione. Questi fatti, da soli, configurano crimini di guerra e crimini contro l’umanità che prescindono completamente dai torti e dalle ragioni di questa guerra. La seconda questione è quella, certamente più ampia e di lungo periodo, della soluzione politica al conflitto israelo-palestinese, indispensabile per creare una situazione di pace duratura e per la quale il riconoscimento dello Stato di Palestina potrebbe rivestire un valore politico importante. Ma oggi l’urgenza è la prima e risulta difficile capire in che modo il riconoscimento di uno Stato che non esiste possa concretamente incidere sullo sterminio in corso. È lecito domandarsi se e come questo atto formale possa esercitare una pressione su Israele tale da modificarne la strategia. Che tipo di minaccia costituirebbe, agli occhi di un governo che continua a operare in piena impunità, e che le potenze occidentali da un lato redarguiscono e dall’altro continuano a sostenere?
Se l’annuncio del riconoscimento dello Stato palestinese fosse accompagnato da misure concrete – l’interruzione delle forniture militari, la sospensione degli accordi commerciali, l’imposizione di sanzioni economiche – allora sì che si riempirebbe di significato. Esistono ormai appelli espliciti in questa direzione anche all’interno della società civile israeliana. E un significato ancora maggiore l’avrebbe se a questo riconoscimento fossero associate dichiarazioni circa l’intenzione di dare attuazione ai mandati di arresto internazionali nei confronti di Netanyahu e degli altri esponenti del governo israeliano accusati di crimini di guerra. Allora sì che saremmo di fronte a un cambio di rotta reale. Ma nulla di tutto questo è stato detto. È difficile, quindi, considerare questi annunci come qualcosa di più di un tentativo (peraltro tardivo) di rimediare in qualche modo alla disastrosa immagine internazionale che i paesi alleati di Israele stanno offrendo da mesi. Finché ci si limiterà a formule simboliche, prive di effetti concreti, il loro impatto sarà nullo. La strage quotidiana che si consuma a Gaza ha bisogno di risposte immediate, non di vibranti proteste né di promesse future. Ed è proprio questa distanza tra l’urgenza dei fatti e l’inconsistenza delle reazioni politiche a misurare, ancora una volta, il fallimento della comunità internazionale. (MicroMega – Cinzia Sciuto)

È curiosamente stucchevole in questo momento sollevare la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina: non è bello fare il processo alle intenzioni, ma appare come il goffo tentativo di nascondere la vergognosa inettitudine occidentale dietro l’intempestivo dito del buonismo geopolitico.

D’altra parte da decenni i governi israeliani se ne fregano altamente dell’Onu e dei suoi reiterati inviti ad abbandonare i territori sempre più occupati. Non diversa sorte toccherà al riconoscimento dello Stato palestinese e al suo ingresso a pieno titolo tra i Paesi facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Non voglio essere più realista del re, ma, se gli Usa non cambieranno atteggiamento verso Israele, niente e nessuno potrà condizionarlo decisamente e pesantemente. La lobby israeliana è fortissima negli Stati Uniti, è capace di influire addirittura sull’elezione presidenziale e sulle conseguenti scelte politico-programmatiche.

All’interno di Israele spadroneggia la casta religiosa ebraica in un vomitevole mix di potere religioso ed economico. Tutti lo sanno, nessuno lo ammette apertamente e chiede di laicizzare lo Stato (sarebbe comunque un processo pressoché impossibile).

Sul piano etico-culturale, è penoso doverlo ammettere, i perseguitati si sono trasformati in persecutori, nascondendosi dietro una storia di immani sofferenze patite in passato, che finisce col legittimare paradossalmente le attuali sofferenze inflitte ai palestinesi. Il cretinismo antisemitico fa da paraninfo. Il terrorismo islamico funziona da alibi.

L’Unione europea è, come sempre, ondivaga e inconcludente. I francesi dall’interno e gli inglesi dall’esterno giocano a fare i primi della classe, a fare la parte del poliziotto buono che, tutto sommato, è peggio di quello cattivo.

Sembra oltre tutto inarrestabile il flusso di armi atto a rendere lo Stato di Israele sempre più forte e intoccabile. Cosa serve riconoscere lo Stato di Palestina ed al contempo continuare imperterriti a rifornire di armi chi lo vuole asfaltare e cancellare prima ancora che nasca.

In questo desolante quadro è meglio puntare sulla mobilitazione delle opinioni pubbliche, quella israeliana in via di maturazione critica e quelle occidentali toccate nel cuore dall’autentico genocidio in atto: non basterà, ma sempre meglio e sempre più (restando in area occidentale) del cattivista Trump, del buonista Macron, dell’economicista Merz e dell’opportunista Meloni.

Meglio suonare le campane delle chiese e dei palazzi comunali, le sirene delle barche e i clacson delle auto, i fischietti e le pentole e qualunque altra cosa possa aiutarci a disertare il silenzio che avvolge il genocidio di Gaza.

Chissà che qualche governante non prenda paura, ma soprattutto chissà che non si rompa la cappa protettiva mediatico-diplomatica, che ricopre gli sporchi affaracci israeliani.

 

Un tiepido bagno giovanilista

Sarà perché non sopporto le radunate oceaniche, sarà perché ho un concetto troppo aristocratico della vita, sarà perché non accetto la spettacolarizzazione di tutto per coprire la disperazione del nulla, sarà perché la conversione religiosa la concepisco come un cammino interiore e non come una kermesse esteriore, sarà perché la mediatizzazione degli eventi porta con sé, sempre e comunque, il rischio di svuotarli di contenuto, sarà perché il cristianesimo non è fatto per le masse ma per il “piccolo gregge”, sarà perché il giovanilismo è una trappola per i giovani e un’illusione per gli anziani, sarà perché non esiste la Chiesa dei giovani ma la Chiesa dei poveri, sarà perché temo che il giubileo sia soltanto una mano di vernice sui muri screpolati delle inesistenti comunità cristiane, sarà perché la sfilata delle categorie sociali e generazionali è roba da regime, sarà perché ho poca fiducia nei giovani in quanto li vedo appiattiti sui falsi valori più che impegnati sui veri valori, sarà perché sono vecchio e guardo poeticamente al futuro con troppa nostalgia del passato, sarà perché concepisco la fede come attenzione alle piccole (grandi) cose e non come tensione  verso i grandi (piccoli) successi, sarà perché un milione di giovani mi dà più preoccupazione che soddisfazione, sarà perché l’aggiornamento della Chiesa non dovrebbe consistere nel somigliare di più al mondo ma nel cercare di cambiarlo, sarà perché nei giovani faccio fatica a cogliere la sacrosanta contestazione verso le ingiustizie e le contraddizioni della società, sarà perché non vedo alcun collegamento fra la politica e l’impegno giovanile, sarà perché intravedo nella Chiesa il tentativo di riciclarsi coi giovani anziché di rinnovarsi coi poveri, sarà per tutti questi motivi che resto piuttosto perplesso e scettico verso il tanto osannato recente giubileo dei giovani, celebrato a Roma in una esagerata sarabanda di spettacolari iniziative.

Ripiego sugli insegnamenti paterni. Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Concludeva rassegnato: Con chil bàli chi, mi an so mai…».

Aveva un suo modo di rapportarsi coi giovani, non era assolutamente implacabile nelle critiche verso di loro, ma non gliele risparmiava: intendeva ricondurli al senso di responsabilità, senza inutili accanimenti più o meno terapeutici. Tipico al riguardo l’atteggiamento nei confronti delle loro, anche piccole, trasgressioni, davanti alle quali reagiva non tanto con fastidio, ma con pragmatico spirito educativo. Esordiva dicendo: «Dónca, ragas, a són stè gióvvon anca mi…» e poi articolava i suoi eventuali e razionali rimproveri.

La politica vezzeggia i giovani fintanto che non si vede fortemente contestata: la contestazione scarseggia, ma meno contestazione c’è, più reazione repressiva sorge.

La religione vuole inglobare i giovani per irrobustire le ginocchia vacillanti delle Chiese: se e quando dovessero fare sul serio, scatterebbero le trappole del tradizionalismo e del clericalismo.

D’altra parte, per dirla con una frase fatta, il futuro è nelle mani dei giovani. Sarà poi vero? Preferisco metterlo nelle mani di Dio e in tutti coloro, giovani o vecchi, che si sforzano di impostare un rapporto sano con il futuro, che è fatto di anima, e quindi cercano di mettere un po’ di anima nel futuro! (padre Ermes Ronchi).

 

 

 

Le finte sicurezze del nazional-populismo

Con una recente sentenza la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che un “paese di origine sicuro” deve essere tale per tutti gli abitanti e su tutto il suo territorio. Ha detto anche che gli stati membri dell’Unione Europea possono decidere autonomamente quali paesi considerare “sicuri”, ma che i giudici nazionali devono avere la possibilità di contestare questa definizione, nel caso in cui ritengano che non sia in linea con le direttive europee.

Questa decisione era molto attesa in Italia: a chiedere alla Corte di pronunciarsi erano stati proprio dei giudici italiani, che negli scorsi mesi si erano opposti alla decisione del governo di Giorgia Meloni di ampliare la lista dei “paesi sicuri” includendo anche paesi come l’Egitto e il Bangladesh. Le domande di asilo presentate dai migranti che arrivano da questi paesi possono essere esaminate con una procedura accelerata, che si svolge in modo più rapido e sommario e soprattutto permette di detenere i migranti nei centri in Albania mentre aspettano l’esito. Inserire un paese nella lista di quelli considerati “sicuri” rende inoltre più facile respingere le richieste di asilo delle persone che provengono da quel paese, e quindi espellerle.

L’espressione “paese sicuro” fa riferimento a un concetto ben preciso, contenuto in una direttiva europea del 2013, che chiarisce le procedure da seguire per esaminare le domande di protezione internazionale presentate dai migranti che arrivano in un paese dell’Unione Europea. Riassumendo, secondo la direttiva un paese può essere considerato “sicuro” se rispetta le libertà e i diritti civili e ha un ordinamento democratico.

Ogni paese dell’Unione può decidere autonomamente quali paesi considerare “sicuri”, sulla base di alcuni criteri fondamentali. Nel tempo questo ha creato varie storture. Da anni, per esempio, il governo italiano considera “sicuri” paesi dove il rispetto dei diritti umani è quantomeno opinabile: come la Tunisia, governata da un regime illiberale che da anni porta avanti una campagna di discriminazione nei confronti delle persone che provengono dall’Africa subsahariana.

L’interpretazione data oggi dalla Commissione è quella che già usavano molti giudici. Nonostante questo il governo italiano aveva interpretato la norma in modo diverso, definendo come complessivamente “sicuri” anche paesi che non lo sono su tutto il loro territorio, o lo sono solo per alcune categorie di persone. La Corte ha dato torto a questa interpretazione, e ragione invece alle decisioni dei giudici che negli scorsi mesi hanno bloccato il trasferimento dei migranti nei centri in Albania.

Il diritto dell’Unione Europea ha preminenza su quello italiano, come sancito anche dalla Costituzione, e quindi il governo dovrà per il momento adattarsi a questa decisione.

La Corte però ha fatto anche presente che questa interpretazione varrà solo fino a giugno del 2026, quando entrerà in vigore il nuovo e discusso Regolamento sulla procedura d’asilo, che modifica le procedure per gestire i richiedenti asilo nel momento in cui si presentano alle frontiere dell’Unione. Fra le altre cose, il nuovo regolamento ridefinisce il concetto di paese sicuro nell’articolo 59 ed elimina proprio la necessità che un paese sia considerabile tale in tutte le sue regioni e per tutte le categorie di persone. Un migrante arrivato nell’Unione potrà inoltre essere detenuto e incanalato nella procedura accelerata anche se nel paese in cui è arrivato viene accolto meno del 20 per cento delle richieste d’asilo dei suoi connazionali.

Il governo italiano ha criticato la sentenza, sia la parte in cui stabilisce che un giudice nazionale possa esprimersi in merito alla lista dei “paesi sicuri” stilata dal governo, sia quella sull’interpretazione della definizione. In un comunicato ha detto che passerà i dieci mesi mancanti all’entrata in vigore del nuovo regolamento a «cercare ogni soluzione possibile, tecnica o normativa» per portare avanti la sua politica. (ilpost.it)

Mia madre, ingenuamente ma acutamente, metteva in discussione se ai migranti convenisse venire in Italia per essere trattati “cme i rosp al’ sasädi”. Gira e rigira infatti non li vuole nessuno, vengono considerati sostanzialmente come soggetti indesiderati da rimpatriare al più presto a costo di scatenare infiniti conflitti fra governo e magistratura, fra norme Ue e nazionali, fra sicurezza nei Paesi dove i diritti vengono praticamente calpestati e sicurezza nel nostro Paese patria (?) del diritto.

Ad una persona che fugge disperatamente dal proprio Paese affrontando rischi mortali non si risponde con il dettato costituzionale – il diritto di asilo in Italia è sancito dall’articolo 10 della Costituzione, che stabilisce che uno straniero, a cui sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge – si risponde con cavilli da azzeccagarbugli pur di mandarla a casa previa detenzione nei lager transitori.

C’è voluta la Corte di giustizia europea per chiarire principi lapalissiani ignorati e/o aggirati vergognosamente dal governo italiano.

Oltre dimostrare la mancanza di senso etico i nostri governanti ignorano o fanno finta di ignorare i principi giuridici elementari, non accettano la preminenza delle norme europee su quelle nazionali e non riconoscono la funzione dei giudici nell’applicazione della legge.

Non so quale di questi aspetti sia il più grave: sono tra di loro collegati e costituiscono i principi base del nazional-populismo sempre più imperante.

Non mi faccio illusioni, tra dieci mesi il nuovo regolamento comunitario salverà le capre egualitarie con i cavoli discriminatori. Nel frattempo il ministro della (in)giustizia italiano continuerà ad implementare una serie di cazzate da ex-magistrato opportunista, fazioso e rovinoso.

La gente continuerà a credere che l’immigrazione sia una piaga da combattere in quanto colpevole di tutti i nostri mali. Persino Lucia Annunziata usa un linguaggio equivoco al riguardo: “Non c’è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l’immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima “accoglienza” di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza. Mi pare che qualcosa si muova in questo senso fra le donne tedesche. E se è così saremo con loro”.

Anche dovendo ammettere che l’immigrazione comporti problemi non si deve partire dalla paura di essere minacciati, ma semmai dalla solidarietà con chi soffre, dai reciproci vantaggi, dal rispetto dei diritti che non può e non deve mettere in competizione i poveri tra di loro.

Mentre la destra fa la sua demagogica battaglia securitaria, la sinistra non riesce a coniugare le sicurezze nostrane con quelle dei migranti e tenta di recuperare il tempo perduto e la propria incapacità politico-programmatica teorizzando “l’accoglienza sì ma non troppo”.

L’immigrazione, come la guerra, è un tema così divisivo da buttare all’aria gli schemi politici tradizionali. Per farla breve ammetterò di non riuscire a votare il partito democratico anche e soprattutto perché lo vedo a dir poco timido su questi temi che invece richiederebbero sensibilità umana e coraggio culturale prima e più che abilità politica.