L’incubo dell’emergenza e il sogno della normalità

“Su proposta del ministro per la Protezione civile e le Politiche del mare Nello Musumeci, il governo ha deliberato lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale a seguito dell’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti attraverso le rotte del Mediterraneo.

Lo stato di emergenza, sostenuto da un primo finanziamento di cinque milioni di euro, avrà la durata di sei mesi. Questo provvedimento permette di stanziare fondi ad hoc ma anche di attribuire poteri straordinari al governo, che può, quindi, emanare ordinanze derogando alle norme in vigore.

Secondo fonti governative la dichiarazione dello stato di emergenza consente di assicurare risposte più efficaci e tempestive sul piano della gestione dei migranti e della loro sistemazione sul territorio nazionale. Le stesse fonti evidenziano che il numero degli sbarchi è largamente superiore rispetto al passato.

E ancora si fa presente che lo stato emergenziale potrà essere usato per velocizzare i respingimenti. Questo però, ecco i dubbi di chi si occupa dei migranti e della loro accoglienza, potrebbe essere usato per mettere in atto espulsioni facili, magari senza considerare bene lo status legale o la situazione umana di chi è arrivato in Italia fuggendo da situazioni di guerra, fame, persecuzione, grave degrado umano o civile.

Resta da vedere come sarà applicato e con quali obiettivi. Non sempre le esperienze di stato di emergenza del passato hanno conseguito risultati realmente positivi” (dal quotidiano “Avvenire).

È da decenni che esiste il problema dei migranti, quindi è piuttosto curioso sostenere che l’afflusso dei disperati verso le nostre coste rappresenti un’emergenza: che lo rende tale è l’incapacità dei governanti a gestirlo in modo serio. Si è passati col tempo dall’indifferenza verso il fenomeno all’illusione di poterlo arginare con i blocchi navali e poi con i respingimenti e poi ancora con i rimpatri e sempre scaricando il barile delle colpe verso l’Unione europea come se questa fosse una istituzione a noi estranea. La destra si è reiteratamente abbarbicata alla promessa demagogica e razzista dei blocchi, la sinistra ha tentato di regolare i flussi tramite improbabili accordi con gli Stati di partenza: il problema è rimasto intatto nella sua inevitabilità e ciclicamente ripresenta il suo conto sempre più salato.

L’Italia continua a gridare “al lupo al lupo” mentre i Paesi della Unione europea si muovono in ordine sparso e sostanzialmente non fanno neanche una piega di fronte alle nostre grida. Il regolamento di Dublino fissa i criteri per determinare quale sia lo Stato membro competente a esaminare la domanda d’asilo in Unione europea di un migrante. Si è stabilita una gerarchia di criteri che tenga conto di posizioni particolari dei richiedenti asilo. Il primo criterio indica come competente lo “Stato membro dove può meglio realizzarsi il ricongiungimento familiare”. Il secondo “lo Stato membro che ha rilasciato al richiedente un titolo di soggiorno o un visto di ingresso in corso di validità”. Il terzo criterio prevede la competenza dello “Stato membro la cui frontiera è stata varcata illegalmente dal richiedente”. Si tratta del criterio “del primo ingresso illegale”. Questa si è rivelata negli anni la norma più applicata e ha messo sotto pressione i Paesi esposti ai confini esterni dell’Ue: Italia, Grecia, Cipro, Malta, Grecia.

Se non si riesce a riformare questo patto è perfettamente inutile continuare le lamentazioni: ironia della sorte, in questa fase l’Italia è ideologicamente alleata con i Paesi più refrattari al fenomeno migratorio. Della serie “ognuno si faccia i muri e i blocchi suoi”.

In questo quadro europeo risulta praticamente impossibile una gestione concordata e programmata dei flussi e dell’accoglienza. D’altra parte non possiamo nemmeno fare le vittime, perché molti dei Paesi europei hanno un carico migratorio ben più elevato del nostro, anche se spesso gestito in modo molto pragmatico e utilitaristico.

È inutile e pericoloso conclamare l’emergenza: inutile in quanto finiremo soltanto col potenziare i lager di prima accoglienza, col renderli pressoché definitivi data la velleità delle procedure di rimpatrio; pericoloso perché rischiamo di scivolare in una sorta di stato autoritario con pieni poteri al governo e innescando il meccanismo istituzionale di “una ciliegia tira l’altra”. Non è un caso che nello stesso giorno il governo Meloni abbia deciso multe molto severe per chi imbratta i monumenti. “Ferme restando le sanzioni penali applicabili, chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui è previsto che sia punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 20.000 a euro 60.000”. Lo prevede il primo comma dell’articolo 1 della bozza del ddl che reca “Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”, approdato in Cdm. Si spara alle mosche col cannone, criminalizzando quattro cretini ecologici e depenalizzando i reati di migliaia di evasori fiscali. Se questo non è depistaggio politico, cos’è?

E, gira e rigira, è depistaggio ben più grave e consistente anche lo stato di emergenza per i migranti. Il ministro Piantedosi, nella lunga serie di cavolate che ha snocciolato, ha inserito tra le cause dell’immigrazione crescente anche il buonismo dell’opinione pubblica verso i disperati del mare. Forse sarebbe il caso di usare a fin di bene questo atteggiamento, magari un po’ epidermico, per proporre un piano di intervento sul territorio che coinvolga gli enti locali e i cittadini in modo concreto e fattivo, non a colpi di prefettura ma a colpi di misure condivise e impegnative di solidarietà. Potrebbe essere il modo per invertire la tendenza all’istituzionalizzazione dell’egoismo individuale e sociale: invece di coltivare populisticamente il disagio sociale, proviamo a sostenere e premiare l’impegno sociale. Utopie? Lasciatemi almeno sognare e non istigatemi all’incubo preventivo.