Quando la politica non c’è i cittadini sballano

Tra le innate passioni che mi hanno caratterizzato fin dalla più tenera età c’è quella per la politica.   La dice lunga un piccolo grazioso episodio che fece andare in visibilio mia nonna materna (lei così austera si addolciva con un nipote che forse le assomigliava molto). Ero andato con mia madre e mia nonna a trascorrere qualche giorno di vacanza a Fabbro Ficulle (paesino in provincia di Terni), ospite del convento dove viveva mia zia Emma, suora orsolina. Avevo quattro-cinque anni, non ricordo con precisione. Pranzavamo in una saletta messa molto gentilmente a nostra disposizione ed in quella saletta vi era un apparecchio radio: la nonna gradiva ascoltarla durante il pasto, soprattutto le piaceva seguire il giornale radio. Un giorno, al termine del notiziario politico, me ne uscii candidamente con questa espressione: “Adesso nonna chiudi pure la radio, perché a me interessa il governo”. Lascio a voi immaginare le reazioni di mia madre, ma soprattutto di mia nonna, incredula e divertita, che rideva di gusto, ma che forse aveva fatto qualche pensiero sulla mia futura esistenza.

Ebbene sì, da oltre sessant’anni mi interesso alla politica, sono arrivato anche a praticarla in gioventù con impegno e dedizione a livello partitico e istituzionale di base (sezione e quartiere). Non rinnego nulla di questa esperienza: ho intravisto l’alta politica, ho toccato con mano le “sporcaccionate”, nonostante tutto ho conservato gelosamente il senso della democrazia e dell’antifascismo. Se devo proprio essere sincero non ho però mai provato disgusto e repulsione come mi sta succedendo in questo periodo: ho la sensazione che si stia raggiungendo il fondo del barile dal quale sia peraltro molto difficile risalire. In passato esorcizzavo sdegnosamente ogni e qualsiasi tentazione astensionista a livello elettorale, oggi sto valutando con sofferenza l’eventualità di non partecipare al voto, pur sapendo di fare uno sgarbo a quanti hanno dato la vita per guadagnarmi questo sacrosanto diritto.

Ci sarà in me una crescente pigrizia, che ostacola l’approccio alle complicate vicende della politica, ma c’è sicuramente nella politica qualcosa di troppo, che mi allontana inevitabilmente da essa. La campagna elettorale, che di per sé sembra fatta apposta per banalizzare e ridurre la politica ai minimi termini, questa volta la sta ammazzando, facendo impietosamente emergere tutto il peggio accumulato dagli anni novanta del secolo scorso ad oggi. Da una parte stiamo assistendo alla parodia della politica, dall’altra al tragico rito della sua eliminazione dalle menti e dai cuori, prima che dalle istituzioni.

La situazione si sta compromettendo in modo tale da chiudere sul nascere ogni e qualsiasi intento di partecipazione. I valori vengono azzerati, le idee non contano nulla, il personale mostra totale inadeguatezza. Di fronte a ciò il cittadino non riesce a vedere alcun spiraglio di “bene comune”, ma nemmeno un barlume di interesse personale. In un simile clima non possono che prevalere pulsioni populiste, sovraniste e…fasciste. Stiamo correndo un rischio enorme e forse non ce ne rendiamo conto.

Il posizionamento elettorale delle forze politiche, più o meno improvvisate, risponde ad una logica meramente contingente senza alcuna memoria storica e senza alcuna prospettiva strategica. Il grillismo, che alcuni anni or sono aveva avuto il “merito” di “cavalcare” la spontanea repulsione alla politica, inventando la non-risposta dell’anti-politica, alla fine ha perso smalto e credibilità, ma ha sostanzialmente e masochisticamente vinto, trascinando tutto e tutti in una deriva qualunquistica molto avvolgente e sempre più incidente.

Enrico Letta si è illuso di prendere il toro per le corna, abbozzando un’alleanza con i fautori dell’antipolitica, senza riuscire minimamente a tradurre in chiave politica le residuali e confuse pulsioni degne comunque di una certa attenzione. Mi riferisco all’obiezione non meglio precisata al reiterato invio di armi all’Ucraina, alla volontà di combattere la povertà incallendo in essa i senza lavoro, alla velleitaria salvaguardia ambientale fatta solo di categorici no, alla smania di rilanciare l’economia a costo di creare più danni che benefici. Il Partito democratico non è riuscito a recuperare queste tensioni inquadrandole in un contesto di compatibilità programmatica, ripiegando su accordicchi elettorali, che sono miseramente crollati alla prova dei fatti politici ed istituzionali.

In alternativa il Pd a guida (?) lettiana si è tuffato nello stagno centrista alla ricerca di improbabili alleanze per fare argine ai marosi del centro-destra: l’argine si è afflosciato su se stesso prima ancora che arrivasse l’onda d’urto. E allora non è rimasto altro da fare che tirare i remi in barca, rinunciando a navigare e sperando in qualche vento favorevole dell’ultimo minuto.

Il centro-destra sembra avere il vento in poppa. Chi si ostina, come il sottoscritto, ad andare contro corrente, si attacca alla speranza che le sparate demagogiche possano addirittura diventare controproducenti e la presunzione di avere la vittoria in tasca possa riservare qualche sorpresina.  Siamo a“la speransa di mäl vestì, ch a faga un bón invèron”.

Siccome la politica cammina sulle gambe degli uomini politici, il dato più sconfortante e disperante è proprio quello della qualità della classe politica in campo: non si va oltre qualche furbizia assai lontana dall’intelligenza.

E allora? I casi sono due. O il ripiegamento di stampo montanelliano sulle strizzate di naso in cabina elettorale o una pausa di astensione in attesa che la partita possa riprendere su altre basi e su altri schemi. E se nel frattempo Giorgia Meloni andrà a Palazzo Chigi, ce ne dovremo fare una ragione? A volte bisogna toccare il fondo per risalire, addirittura occorre fare qualche passo indietro per prendere la rincorsa. Potrebbe però succedere di rimanere risucchiati sul fondo o di precipitare all’indietro nei baratri della storia. Alludo al fascismo riveduto e scorretto.

Resistenza (nel cuore e  nel cervello), Costituzione (alla mano), Politica (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “ in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “. La storia generalmente non concede di rifare certi pur virtuosi percorsi: bisognerebbe tornare allo spirito ricostruttivo del 1946. Provarci è quasi d’obbligo.