La legge 31 marzo 1953, n. 148 (meglio nota come legge truffa dall’appellativo usato durante la campagna elettorale di quell’anno), fu una legge che modificò la legge elettorale italiana del 1946 introducendo un premo di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse superato il 50% dei voti validi.
La legge, promulgata il 31 marzo 1953 (n. 148/1953) e in vigore per le elezioni politiche del 7 giugno di quello stesso anno sia pure senza che desse effetti, venne abrogata con la legge 31 luglio 1954, n. 615. Voluta dal governo di Alcide De Gaspero, venne proposta al Parlamento e fu approvata con i soli voti della maggioranza, dopo lunghe discussioni e con voto di fiducia, nonostante i forti dissensi manifestati dalle formazioni politiche di opposizione, e anche da parte di molte personalità appartenenti all’area della maggioranza. Vi furono grandi proteste contro la legge, sia per la procedura di approvazione sia nel merito. Il passaggio parlamentare della legge vide un lungo dibattito alla Camera dei deputati, dove la maratona oratoria dell’ostruzionismo delle opposizioni si concluse il 21 gennaio 1953 con l’approvazione della questione di fiducia.
La genesi dell’espressione “legge truffa” va prevalentemente ascritta agli oppositori della legge e attinta dalla espressione “loi scélérate” utilizzata nella polemica pubblica francese contro la legge elettorale del 1951. Secondo Indro Montanelli, invece, il primo utilizzo della parola «truffa» andrebbe attribuito allo stesso Mario Scelba, , all’epoca Ministro dell’Interno che, in primissima battuta, respinse l’idea della presentazione della legge quando si accorse che il margine di successo era troppo risicato, prevedendo una forte reazione delle opposizioni e affermando, quando ancora si valutava se il Governo avesse dovuto proporla: «L’idea è buona, ma se noi proponiamo una simile legge questa legge sarà chiamata “truffa” e noi saremo chiamati “truffatori”».
Le forze apparentate ottennero il 49,8% dei voti: per circa 54.000 voti il meccanismo previsto dalla legge non scattò. Il 31 luglio dell’anno successivo la legge fu abrogata. Secondo gli oppositori l’applicazione della riforma elettorale avrebbe introdotto una distorsione inaccettabile del responso elettorale. I fautori invece vedevano la possibilità di assicurare al Paese dei governi stabili non ritenendo praticabili alleanze più ampie con i partiti di sinistra o con i monarchici e i missini.
Si noti che la legge andava a innovare una materia che, almeno nell’Europa di diritto latino, era tradizionalmente regolata secondo le elaborazioni di alcuni giuristi, principalmente Hans Kelsen, i quali vedevano in un sistema elettorale strettamente proporzionale (e con pochi correttivi o aggiustamenti) la corretta rappresentatività politica in democrazia. Se anche appare scorretto sostenere che la Costituzione del 1948 recepisse un favore per il proporzionale, è però vero che già da allora il sistema del premio di maggioranza era considerato assai rudimentale, per conseguire le esigenze di governabilità delle democrazie moderne, da buona parte della dottrina politologica.
Ho fatto questo breve tuffo nel passato, perché la storia è comunque istruttiva e buona consigliera in un momento in cui si ricomincia a parlare di nuova legge elettorale: una diatriba fra sistema proporzionale e maggioritario con tutte le eventuali correzioni. Parto da una provocatoria constatazione. Se tanto mi dà tanto, il sistema elettorale maggioritario non è che una truffa ben più grande di quella del 1953: una sorta di truffa di collegio, periferica, forse più facile da digerire, ma molto peggiore rispetto al premio di maggiorana centralizzato per le forze politiche che avessero superato il 50% dei voti validi.
Sono innanzitutto contrario ad assegnare al sistema elettorale un valore taumaturgico rispetto al funzionamento della democrazia parlamentare: questa è già di per se una prima truffa. Non è un caso se la Costituzione non entra in questo merito, lasciando alla legislazione ordinaria il compito di disporre al riguardo. C’è poi da discutere se sia legittimo o comunque opportuno legiferare sul sistema elettorale nelle vicinanze temporali di una consultazione. Nella migliore delle ipotesi si voterà nella primavera del 2023 e quindi sembra piuttosto invadente dal punto di vista democratico introdurre novità, che risentirebbero immediatamente del clima politico e degli interessi partitici senza guardare al vero interesse del Paese. E questa potrebbe essere una seconda truffa.
Entrando nel merito del discorso, ammetto di essere un proporzionalista convinto per scrupoloso rispetto della democrazia, ancor più davanti ad un frazionismo partitico, che verrebbe superato solo tramite combinazioni tattiche se non meramente strumentali. Non mi convincono affatto le argomentazioni sulla governabilità del sistema e sulla sua semplificazione: quale maggiore governabilità può scaturire da coalizioni elettoralistiche; meglio lasciare che ogni forza politica rappresenti se stessa e conti sui propri voti, assegnando ai parlamentari eletti il compito di trovare le maggioranze per governare il Paese.
Respingo decisamente la deriva decisionista della politica e continuo imperterrito ad essere convinto che la politica, prima di essere decisione, è mediazione, ai livelli più alti, di opzioni e interessi diversi ed equamente rappresentati. Certo che per fare politica in tal senso occorre una classe dirigente capace, autorevole e carismatica, che peraltro non è affatto garantita da un sistema assolutamente o prevalentemente maggioritario il cui presupposto è che chi arriva primo, anche per una manciata di voti, vince tutto.
Preferisco andare verso la meta democratica affrontando la dura salita del sistema proporzionale che tiene in sospeso la meta, piuttosto che precipitarmi in una pericolosa discesa che me la lascia vedere illudendomi che sia a portata di mano. Meglio la faticosa traversata del deserto democratico con l’equipaggiamento del caso piuttosto che fermarsi alla prima oasi vittime magari dei miraggi della facile governabilità.
Il sistema maggioritario è un qualunque sistema elettorale che limiti fortemente o escluda completamente la rappresentanza della minoranza. Si basa solitamente sul collegio uninominale (ovvero un collegio che esprime un solo seggio), ma può anche basarsi su collegi plurinominali. Può essere a turno unico o a doppio turno, può prevedere alcuni meccanismi più o meno correttivi. In ogni caso il criterio è “il primo prende tutto”, ossia in ogni collegio chi riceve più voti viene eletto, mentre tutti gli altri, anche se ricevono percentuali di voto importanti, vengono esclusi. Se questa è democrazia…eccoci alla madre di tutte le truffe.
Non mi bastano le motivazioni di togliere spazio ai partiti di mero disturbo e di evitare dispersione eccessiva dei voti. Il problema sono i partiti e la capacità di svolgere la funzione che la Costituzione assegna a loro. La questione è a monte e non a valle. Così come le alluvioni vanno prevenute alle sorgenti dei fiumi e non alla foce, una sana democrazia non consiste nel porre argini allo strapotere partitico, ma nel pretendere che i partiti abbiano un loro corso virtuoso dalla sorgente alla foce.
So benissimo di essere un idealista inguaribile, sono consapevole di essere vocato in senso esistenziale alla minoranza, ma la democrazia è fatta anche e soprattutto di idealità e di rispetto delle minoranze assai più che di meccanismi semplificativi e sbrigativi.
Da una parte spero che l’attuale parlamento, depotenziato e precarizzato da una riforma molto discutibile, non si incarti nella discussione sul sistema elettorale: avrebbe molto il sapore della discussione sul sesso degli angeli mentre il Paese soffre maledettamente e tragicamente. Dall’altra parte vedo la necessità di correggere comunque l’attuale ibrido e insulso sistema elettorale: se è proprio necessario, si torni agli albori della democrazia e si vada tout court sul sistema proporzionale eventualmente con qualche correttivo, non tale però da comportarne uno stravolgimento.