Paolo VI amava ricordare che “la politica è la più alta forma di carità”, dove carità vuol dire amore per l’altro, a prescindere dalla religione professata, dalla propria cultura, dal colore della pelle, dalla lingua con cui si esprime. Alla luce della prassi vigente ed in una visione minimalista e molto disincantata mi accontento di molto meno e infatti sono portato a ripiegare sul concetto di politica come male necessario, come medicina amara ma utile a sopravvivere.
Ogni giorno che passa mi accorgo che la pur geniale e proficua operazione Draghi si sta rivelando, oltre che una benefica pausa di riflessione, una pericolosa scorciatoia. La politica sta infatti rientrando prepotentemente dalla finestra dopo essere stata provvisoriamente e giustamente messa alla porta: i partiti, terminata la loro libera uscita, stanno rientrando in caserma e, a torto o a ragione, scalpitano di fronte ad un comandante in capo che va per la sua strada. I sindacati non trovano un punto di riferimento dialogico e sfogano in piazza le loro preoccupazioni. Le istituzioni sono scombussolate e scoperte davanti alla situazione anomala di un governo tecnico (lo si può definire altrimenti, ma la sostanza non cambia), ideato da un presidente della Repubblica che sta delicatamente togliendo il disturbo e sono in confusione al punto da ipotizzare un presidenzialismo strisciante che con la Costituzione c’entra come i cavoli a merenda.
Bisogna pur dire che non esiste una vera e propria compagine governativa, esiste un premier tuttofacente circondato da ministri che contano come il due di picche, in rapporto odio-amore con un parlamento sempre più insignificante e precario: fare delle riforme di sistema in una simile condizione appare (quasi) impossibile. Ci sono i soldi, è vero ed è importantissimo, ma non basta. Temo che paradossalmente il governo Draghi possa andare in crisi non tanto per mancanza, ma per eccesso di fondi.
La consueta conferenza stampa di fine anno, a parte la insopportabile e pelosa accondiscendenza dei giornalisti sempre più ossequiosi, ha evidenziato la forza di un Draghi autentico fuoriclasse per competenza, preparazione e abilità. Basta schierare un fuoriclasse, che magari svolga anche il ruolo di allenatore in campo, per vincere il campionato? Temo di no, dal momento che sta venendo a mancare il direttore sportivo (leggi Mattarella), gli altri giocatori sono piuttosto scarsi (leggi ministri), i supporter sono litigiosi e inconcludenti (leggi partiti), lo stadio è insufficiente (leggi Istituzioni), il tifo organizzato comincia a scalpitare (leggi sindacati), i tifosi sciolti guardano distaccatamente la partita in televisione (cittadini), la critica è fin troppo elogiativa (media).
Cosa manca? Manca la politica! Draghi può essere un ottimo traghettatore, ma non è uno statista. Ho colto due sue affermazioni, quasi due lapsus freudiani, che mi mettono in seria crisi: la politica antipandemica concepita e impostata a mero rimorchio dei dati emergenti e delle indicazioni scientifiche; lo sguardo governativo rivolto pragmaticamente al presente senza preoccuparsi del futuro. Sono scelte di metodo che hanno poco a che vedere con la politica, cioè con l’arte del governare, che presuppone una creatività al fine di cambiare dinamicamente la realtà. Si sta sempre più accreditando l’idea di un Draghi “deus ex machina”, vale a dire di una persona che inaspettatamente interviene a risolvere una situazione difficile, dell’artefice del buon andamento di tutto.
Andrei quindi adagio anche ad auspicarne una lunga permanenza a palazzo Chigi. I più decisi sostenitori di questa eventualità sono infatti proprio i partiti più in difficoltà, che vedono in Draghi un utile diversivo alle loro irreversibili crisi, una sorta di tappabuchi di gran lusso, di coperchio a tenuta stagna che evita la fuoruscita del materiale sgradevole e imbarazzante. Il rischio è che l’amara medicina draghiana diventi solo un farmaco per tirare a campare, ma non per avviare e favorire il processo di guarigione. È pur vero che, come sosteneva Giulio Andreotti, è meglio tirare a campare che tirare le cuoia, ma non possiamo illuderci di poter vivere nel polmone d’acciaio draghiano.
Non vorrei che lo spostamento di Draghi da palazzo Chigi al Quirinale fosse proprio un maldestro tentativo di mettere le istituzioni sotto tutela o in terapia intensiva: occorre quanto prima un bagno politico rigeneratore e il nuovo capo dello Stato non dovrà essere un rianimatore e tanto meno un chirurgo, ma semmai un paziente e capace medico riabilitatore.
Chi ha la bontà e la pazienza di leggere queste mie quotidiane “masturbazioni mentali” avrà notato un lento e progressivo cambio di atteggiamento nei confronti dell’attuale assetto governativo. Sono passato da una convinta fiducia ad una preoccupata attenzione: la preoccupazione sta crescendo e la fiducia sta diminuendo. Forse è fisiologicamente giustificato, forse dipende dalle mie eccessive elucubrazioni pseudo-politiche. Fatto sta che penso con sempre maggiore insistenza ai De Gasperi, ai Fanfani, ai Moro. Se mi guardo intorno devo ammettere: meno male che c’è Draghi. Se sollevo gli occhi sulla Unione Europea, peggio che andar di notte: possiamo quindi contare indiscutibilmente sul meglio che c’è. Ciò non toglie che la politica esigerebbe qualcosa di diverso.
Siccome siamo a Natale, non mi resta che guardare a Betlemme dove nasce chi sa veramente governare il mondo: da una stalla e non dai Palazzi, da una mangiatoia e non dai tavoli istituzionali, dalla Carità che è la più alta forma di politica.