Come si trattasse di una semplice quota. Come fosse un panda in via di estinzione, o un animale strano, ogni tanto – nei totonomi per il Quirinale – appare la possibilità nuova, inusitata, fantascientifica: «Una donna». Non un nome e un cognome, come per tutti gli uomini chiamati in causa, da Mario Draghi a Paolo Gentiloni, da Pier Ferdinando Casini a Giuliano Amato. Ma una casellina grigia senza volto e un immaginario punto interrogativo sopra. Appunto, una donna. «Ma chi?», sembrano chiedere sperduti commentatori come se l’ipotesi fosse così assurda da appartenere al campo dell’irrealtà.
Così scrive Annalisa Cuzzocrea su La Stampa ed ha perfettamente ragione. Il discorso delle donne candidate a cariche politiche oscilla fra due posizioni uguali e contrarie. Da una parte chi vorrebbe a tutti i costi che il sesso femminile facesse premio sulle effettive qualità e capacità della persona; dall’altra parte chi analizza col bilancino del farmacista le caratteristiche delle potenziali candidate per concludere che purtroppo nessuna donna è all’altezza del compito. Morale della favola: tanto vale ripiegare sugli uomini a prescindere dalla loro adeguatezza. Per le donne cioè si finisce col puntare al massimalismo sessista, per gli uomini ci si accontenta del minimalismo maschilista.
Dice un vecchio proverbio cinese: “Quando torni a casa la sera, picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei lo sa benissimo…”. Quando devi eleggere una donna ad una carica importante, scartala in partenza, si può sempre trovare un perché, tanto lei lo sa che, gira e rigira, si tratta di mero maschilismo.
Cado spesso anch’io in questo tranello: per gli uomini mi accontento di quel che passa il convento, per le donne esigo una pietanza di primissima scelta. È una forma riveduta e scorretta di discriminazione sessuale camuffata con valutazioni di ordine qualitativo a senso unico. Naturalmente questo giochino vale anche per la candidatura a presidente della Repubblica. Purtroppo per entrambi i sessi l’elenco degli eventuali papabili non è molto interessante: il grave è questo, ma non per questo è serio ripiegare pregiudizialmente su una candidatura maschile.
Un amico mi faceva osservare come in campo culturale, scientifico e aziendale questo tabù sia caduto almeno per le cariche di alto livello e come le donne ricoprano importantissimi ruoli con grande preparazione ed autorevolezza. Se devo essere sincero, quando scelgo a chi rivolgermi per una consulenza di carattere professionale, sono portato a preferire una donna non per puro femminismo, ma nella sicurezza di avere rapporti con una persona che per arrivare ha dovuto fare i conti con una spietata e faziosa concorrenza maschile, mettendo in campo un di più di preparazione, impegno e scrupolo. Non è giusto, ma ben venga anche questa prova finestra per le donne in carriera, se garantisce una maggiore qualità a servizio della collettività. Alla lunga il discorso porterà forse al superamento di ogni e qualsiasi pregiudizio anti-femminista. La donna cioè vincerà senza regali e senza preferenze.
Perché in politica siamo indietro rispetto agli altri campi? C’è poco da fare, la politica resta comunque il terreno principale nell’esercizio del potere e, siccome le donne rappresentano quanto meno un’incognita per gli assetti esistenti, si tende ad evitare il rischio della contaminazione femminile. Anche le donne commettono errori accontentandosi spesso delle briciole che cadono dalla tavola dei maschi o, peggio ancora, comportandosi come i peggiori maschi, puntando, come sono solito affermare, più alla parità di difetti che di diritti. Questo però è un ragionamento rischioso, perché sottopone la donna ad una sorta di tortura preventiva profondamente ingiusta e basata solo sulla pretesa di una perfezione ante litteram.
Il discorso delle pari opportunità è sicuramente molto lontano dalla sua soluzione. Anche le prove al vertice, come quella quirinalizia, possono aiutare, ma il problema è molto più di base. Non mi illudo che una donna al Colle possa cambiare la mentalità della gente, però tutto può servire alla giusta causa.
In conclusione mi sovviene la barzelletta di quel padrone che manda il giovane garzone a comprare una bottiglia di vino. Lo assaggia dicendo al garzone: « Br…cmé l’é brusch. Par ti el ne va miga ben…». Al che il garzone risponde: «Speta un minùd. A voj fär br… ànca mi…». Detesto sempre e comunque “i padroni”, ma non capisco i garzoni che si accontentano di guardare le bevute del padrone sperando che qualcuno possa regalare loro il buon vino. Cosa voglio dire? Che potrebbe essere giunto il momento per una donna di avere l’opportunità di provare l’ebrezza del Quirinale.