«Non ci vedo chiaro!». Così diceva il radiologo a mio padre mentre gli stava facendo una lastra allo stomaco. «A crèdd, rispose mio padre, a ghé scur cme la bòcca ‘dun lòvv!». Alla fine il responso fu che il mio genitore era sano come un pesce. Sentenza apparentemente liberatoria. Non tanto, perché qualche mese dopo mio padre dovette farsi operare: aveva ben tre ulcere che stavano degenerando… L’oscurità dell’ambulatorio non aveva evidentemente aiutato il radiologo.
Non ci vedo chiaro: nelle dichiarazioni politiche e nei commenti giornalistici emerge con sempre maggiore insistenza il legame che esisterebbe tra l’elezione del futuro presidente della Repubblica e le sorti del governo attuale. Appiattirsi su questa insana teoria è estremamente pericoloso e fuorviante dal punto di vista costituzionale e politico. Brancoliamo nel buio e stiamo spegnendo persino le luci di servizio della Costituzione. Sono indotto a ritornare sull’argomento guardando anche indietro per non cadere in avanti.
C’è un triste precedente storico al riguardo. Me lo sono andato a ripassare, anche se la memoria non mi tradisce e a quell’epoca avevo abbondantemente l’uso della ragione politica. Si tratta della tormentata elezione al Colle di Giovanni Leone alla fine del 1971. Ne riporto una brevissima ed asettica storia tratta da wikipedia.
Il candidato ufficiale della DC, partito di maggioranza relativa, è il presidente del Senato Amintore Fanfani. Socialisti e comunisti annunciano subito una candidatura comune, alternativa alla maggioranza di centro-sinistra, nella persona di Francesco De Martino. I socialdemocratici sostengono il presidente uscente Saragat; i liberali Giovanni Malagodi e il Movimento Sociale Italiano Augusto de Marsanich.
La candidatura Fanfani regge solo sei votazioni, nelle quali l’uomo politico toscano rimane sempre al di sotto, nei suffragi, a quelli del socialista De Martino. All’11º scrutinio, la DC ripropone nuovamente Fanfani, per poi prendere atto della debolezza di tale candidatura, che non riesce ad attrarre i voti dei partiti alleati, e ritirarla definitivamente.
La situazione di stallo va avanti sino al 21º scrutinio, quando nell’assemblea dei grandi elettori DC, prevale di stretta misura la candidatura centrista di Giovanni Leone su quella di Aldo Moro, che avrebbe rappresentato una scelta più aperta ai partiti di sinistra. Immediatamente i vertici della DC si accordano anche con PSDI, PLI e PRI per portare Leone al Quirinale.
Leone, tuttavia, non è immune all’azione dei franchi tiratori; al 22º scrutinio, infatti, manca l’elezione per un solo voto (503, contro i 504 del quorum richiesto), mentre le sinistre sostituiscono la candidatura De Martino con quella di Pietro Nenni, nel tentativo di spaccare la DC, acquisendo i voti dei sostenitori di Moro.
Leone è comunque eletto capo dello Stato il 24 dicembre 1971 al XXIII scrutinio, con 518 voti su 1008 “grandi elettori”, contro i 408 di Nenni. Per il raggiungimento del quorum, dato l’alto numero di schede bianche (46, presumibilmente da parte di franchi tiratori DC) sono determinanti i voti del Movimento Sociale Italiano.
L’elezione di Leone, con 23 scrutini necessari a raggiungere la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea elettiva, è la più lunga della storia repubblicana; Leone è eletto con la percentuale più bassa della storia: 51,4%. Il Presidente presta giuramento ed entra in carica il 29 dicembre.
La situazione politica è molto diversa: il raffronto fra i personaggi in campo allora e quelli in attesa di scendere in campo oggi mette i brividi. Se togliamo Mattarella e Draghi, i due fuori concorso, per gli altri c’è da tremare. Su quella vicenda si stagliava la figura di Aldo Moro, che seppe farsi da parte per salvaguardare l’unità della Democrazia Cristiana: gli sarebbe bastato solo un cenno per avere i voti della sinistra e di una parte consistente del suo partito. Forse la vita politica italiana avrebbe preso tutt’altra direzione, ma dei se e dei ma son piene le fosse. Forse un po’ più di spregiudicatezza non avrebbe guastato: se da una parte non ci si fece alcun scrupolo a beneficiare occultamente dei voti missini, non vedo perché tanto scrupolo verso i palesi voti comunisti. Ma Moro aveva una visione politica, quella che oggi manca a tutti.
Quella travagliata elezione ipotecò negativamente gli equilibri politici e mise un marchio di parte sul Capo dello Stato, che forse fu il motivo principale della campagna denigratoria scatenata, in modo peraltro disonesto, contro la sua persona. Ci volle del bello e del buono per tornare ad un governo di centro-sinistra e soprattutto furono necessarie le dimissioni di Leone per riportare la presidenza della Repubblica al ruolo che oltrepassa i ristretti limiti degli equilibri partitici per “rappresentare l’unità nazionale”.
È profondamente sbagliato confondere i due piani, quelli del governo e della presidenza della Repubblica, mettere in contatto i due palazzi, Quirinale e Chigi: si rischia un pateracchio istituzionale da cui non può nascere niente di buono a prescindere dalle persone investite di questi poteri.
Anche il fatto che oggi si tratterebbe di garantire continuità ad un governo di larghe intese, di (quasi) unità nazionale (?), non può giustificare il mescolare nel pentolone della politica funzioni e ruoli molto diversi e distinti.
Il futuro Capo dello Stato, eletto in questa logica, sarebbe inchiodato nel suo operato ad un accordo politico oltre tutto precario ed emergenziale. Il governo ed il Presidente del Consiglio sarebbero Quirinal-dipendenti in una sorta di presidenzialismo strisciante e di parlamentarismo cadente.
Non credo che Sergio Mattarella allorché ideò e mise in atto l’operazione Draghi intendesse tutto ciò. Di un pur virtuoso assetto particolare legato ad una gravissima emergenza non si dovrebbe fare una vera e propria surrettizia modifica occulta e/o palese della Costituzione.
Che il Parlamento trovi un personaggio degno di rappresentare l’Italia e gli Italiani, dal momento che Mattarella, in modo molto convinto e poco convincente, non vuole rimanere al suo posto: coi nomi che circolano non c’è da stare allegri, ma d’altra parte la botte dà il vino che ha. Da tempo considero Mattarella l’ultimo dei giusti: sarà difficile trovarne un altro senza fare giustizia di una politica mediaticamente piena di chiacchiere, fintamente leaderistica e sostanzialmente vuota come una calza.
Che al governo rimanga Mario Draghi per concludere degnamente un lavoro avviato, senza pericolosi vuoti di potere e senza ascoltare le insistenti sirene presidenzialiste. Ogni partito si prenda le proprie responsabilità, senza giocare ai bussolotti, senza vivacchiare in vista della pensione e senza puntare solo ed esclusivamente al voto per il voto.