La stagione dei fiori appassiti

È curioso vedere come i due partiti-movimento italiani si dibattano in una forte crisi identitaria deflagrata soprattutto in conseguenza della partecipazione, più o meno convinta e convincente, al governo Draghi. Sia la Lega che il M5S sono stati costretti a misurarsi con l’emergenza e stanno perdendo la bussola e i consensi.

Non è un caso che, seppure per un breve periodo, abbiano governato insieme nel primo governo Conte, quello giallo-verde, quello del duetto Di Maio-Salvini, l’ignobile ma obbligato connubio-contratto delle divergenze parallele. Non poteva tenere e non ha tenuto: era una sorta di parodia governativa, che tuttavia rispondeva all’esigenza di saldare politica e antipolitica, lotta e governo, piazza e palazzo, nord e sud, solidarietà per i poveri e ostilità per i migranti.

Sganciati da questo abbraccio bisessuale, si sono ritrovati a fare i conti con la politica: il M5S è tornato al governo con un diverso partner, perdendo gradualmente ed inesorabilmente l’appeal protestatario; la Lega è tornata in piazza, ma ha trovato sulla scena una destra molto più credibile e identitaria a contenderle lo spazio.

Poi è arrivato il governo Draghi è sono andati in tilt. I pentastellati si sono rifugiati sotto la gonna di Giuseppe Conte, una chioccia che non riesce a contenere la verve dei pulcini-galletti; i leghisti si sono ricordati improvvisamente di essere anche un partito e stanno provando a fare la più brutta copia possibile e immaginabile della Democrazia Cristiana con tanto di correnti, di scontri e di incontri, di contrasti e accordi.

Il M5S sembra essere allo sbando totale, vivendo della rendita di una maggioranza relativa presente ormai solo sui banchi parlamentari e sulla paura di tornarsene a casa, magari anche senza pensione. La Lega è invece in crisi di linea politica. I grillini non hanno alcun legame col territorio e sono totalmente privi di classe dirigente, affidati come sono ad un personaggio, quel Giuseppe Conte, che mia sorella non esiterebbe a definire, usando gustose espressioni dialettali: “niént pighè in t’na cärta” oppure “da lu a niént da sén’na…” (versione alla parmigiana del “vuoto a rendere” di conio debenedettiano).

A differenza dei partiti politici tradizionali, che possiedono una disciplina interna, sono costruiti per via gerarchica e i cui membri interni beneficiano di una tessera di partito, i movimenti sociali presentano un’organizzazione più debole, poiché non hanno tessere, la partecipazione è volontaria e libera, e non possiedono statuti e dirigenti a cui il membro deve rispondere ufficialmente del suo comportamento. I cinque stelle mantengono un certo non so che di movimentista con una propensione all’improvvisazione e al “disordine”, che sfocia in una sorta di incontrollabile ed irreversibile armata brancaleone. La Lega invece assomiglia molto ad un partito tradizionale, è abbastanza strutturata territorialmente, è socialmente radicata nelle zone del nord ed esprime una classe dirigente periferica di qualche spessore. Da tempo si trova ad un bivio: mantenere l’ibrida strada salviniana, ora attratta dal populismo ora costretta al governismo, oppure virare sul perbenistico “giorgettismo” di una destra liberale, europeista e popolare. La prima soluzione garantisce (?) i voti, ma si distacca politicamente e socialmente dal potere periferico; la seconda via si butta nel calderone del rimescolamento totale, che è in atto un po’ in tutta la cucina politica italiana.

Ecco perché ritengo che il fenomeno Lega sia ancora tutto da dipanare. Alla prima fase, che chiamerò nordista per rendere l’idea e riconoscere una identità storica, quella cioè di stampo bossiano, è succeduta la velleitaria fase nazional-populista di Matteo Salvini. A parecchi non è mai andata giù questa velleitaria e strumentale trasformazione. «Compriamo all’Umberto un bell’appartamento, a 80 anni vivere in una casa su più piani è solo una gran fatica, e trasformiamo la villetta di Gemonio nel museo della Lega. Dieci euro a ingresso e in un paio d’anni l’abbiamo ripagata». La proposta arriva nei giorni della spaccatura fra Giorgetti e Salvini in cui i fedelissimi del Senatur hanno ricominciato a criticare il mai digerito Capitano. Può essere interpretata in due sensi: come una forte e insopprimibile nostalgia storica ed identitaria, ma anche come una subliminale ed elegante archiviazione di un passato che non torna più. Nonostante queste evidenti lacerazioni a livello di aficionados, i consensi sono cresciuti anche se ultimamente sembra finita la “cotta” dell’elettorato. Si profila la messa in discussione di tutto e di tutti, nonostante gli accordi di facciata. Mimì e Rodolfo nella Bohème di Giacomo Puccini, litigano in continuazione, sono sull’orlo della separazione: Mimì è tanto malata, Rodolfo ha paura. Decidono di rinviare tutto: “ci lasceremo alla stagion dei fior”. Poi Mimì muore e Rodolfo piange disperatamente. La similitudine è brutta al limite della gufata, ma rende l’idea del destino cinico e baro (?) che potrebbe riguardare sia la Lega che il M5S.