Giuseppe Verdi che ammicca alla cultura transgender ha creato una polemica. A Parma è diventato un caso quello di un manifesto di Giuseppe Verdi raffigurato con seno e indumenti femminili, riferito ad uno degli spettacoli del Festival Verdi e precisamente all’opera Un Ballo in maschera, in scena al teatro Regio per la regia di Jacopo Spirei, dal progetto di Graham Vick. Se tanto mi dà tanto chissà cosa succederà in palcoscenico: in effetti la vicenda della bellissima opera in cartellone invita a fare un po’ di ironia a sfondo sessuale. Staremo a vedere.
Un amore quasi platonico ed extra-coniugale fa incavolare a morte un marito che più maschilista di così non si può. Le sputtanate si susseguono: Renato si trova cornuto e mazziato davanti ai suoi avversari politici che lo deridono clamorosamente dopo averlo sorpreso in compagnia della moglie nell’orrido campo ove s’accoppia al delitto la morte; Riccardo muore senza aver sfiorato neppure con un dito Amelia e riconsegnandola pura al marito due volte incazzato; l’unica persona seria è Ulrica, una maga che fa sul serio, predice il futuro e nessuno la prende in considerazione. Un libretto che sembra fatto apposta per creare ironia anche se Verdi su questa paradossale vicenda innesta pagine stupende, alla sua maniera.
Se gli organizzatori del festival Verdi volevano sdrammatizzare Un ballo in maschera lo potevano fare tranquillamente senza bisogno di beffeggiare il compositore trasferendo sul musicista ciò che si faceva nel teatro di un tempo: en travesti, vale a dire con un personaggio, che in un’opera teatrale o lirica veniva interpretato da un attore o cantante di sesso opposto. Nel Ballo in maschera c’è anche quello, vale a dire un sopranino leggero che interpreta il fidatissimo e simpaticissimo paggio del Conte, personaggio un tantino equivoco, in odore di omosessualità. Stavolta si è voluto travestire addirittura Giuseppe Verdi.
Non abbiamo un femminicidio, anche se Amelia rischia grosso con quel marito che si ritrova, dopo aver amoreggiato a parole con il più grande amico del marito stesso. Di tutto e di tutti fa le spese il conte che si fa ammazzare come un cane, convinto della propria innocenza e della propria esagerata magnanimità.
Ho voluto tratteggiare in modo satirico la vicenda operistica, di cui al manifesto incriminato, per dimostrare che tutto può essere culturalmente ammesso purché non sia gratuito, strumentale, pretestuoso e vacuo. Mio padre avrebbe sicuramente detto: “Co’ volni fär ríddor? A mi im fan cridär…”.
Forse organizzatori e operatori culturali volevano richiamare l’attenzione sull’evento festivaliero, sempre lì in bilico fra una rimasticatura delle stagioni liriche e un assist più teorico che reale al turismo di marca parmigiana. Troppo poco per essere un evento veramente culturale, troppo per finire con l’essere un’occasione affaristica di bassa macelleria. Si saranno detti: proviamo a fare qualcosa di strano, chissà che non scoppi una bella polemica per richiamare pubblico in cerca di una Parma verdiana, che non esiste più se non nelle patetiche cantine degli inossidabili verdiani.
Potevano assoldare una baby gang per farla urinare davanti al teatro Regio con l’uccello di fuori: l’effetto sarebbe stato ancor più forte e il risultato quasi sicuro. Invece la pisciata hanno pensato di commissionarla ai creatori di un design non tanto provocatorio quanto stupido. Urinar mentre preso dal delirio non so più quel che dico e quel che faccio (era recitar e poi ho sbagliato opera…). Chiedo umilmente scusa, anche se, non sapendo più cosa dire e fare, c’è qualcuno che addirittura pensa di…cagare.
Ci meravigliamo che Parma sia emarginata e ignorata dai media, che sia sempre in fuori gioco. Qualcuno avrà pensato di aggirare l’ostacolo senza pensare che con il var le balle stanno in poco posto. E ci hanno trovato con le dita verdiane nella marmellata della più sciocca e becera attualizzazione culturale. Complimenti!