I boomerang del clericalismo

Mia madre, anche sulle ali di uno sviscerato amore per il fratello sacerdote, nutriva rispetto, comprensione e simpatia per tutti i preti e lo ammetteva candidamente: «I’o volsù tant bén a mè fradél che ai prét ag voj bén a tùtti”. E lo diceva anche quando rilevava certi comportamenti discutibili o addirittura censurabili da parte dei sacerdoti.

Sono voluto partire da questo richiamo per farmi guidare da un atteggiamento positivo nel commentare l’inquietante fatto di un sacerdote che avrebbe (il condizionale è sempre d’obbligo) utilizzato le elemosine per sfogare la sua tossicodipendenza più o meno legata anche a trasgressioni di carattere sessuale.

Sono rimasto profondamente rattristato e colpito da una vicenda che non porta in sé niente di straordinario, se non la impietosa aggravante di riguardare un sacerdote, che così perde tutto il suo carisma e coinvolge persino la sua comunità rubandone i sentimenti e le offerte.

Non c’è niente da scandalizzarsi! Siamo portati a mettere sotto la lente di ingrandimento l’operato dei preti ad enfatizzarne il ruolo e, quando succede il fattaccio, a gettare fango, ostentando una sorta di orgoglio ferito o di rivalsa verso i rappresentanti di un clero visto come un opprimente e discutibile imperativo a fare il bene.

Prima di criticare aspramente i sacerdoti, sarebbe opportuno chiedersi cosa fa la comunità cristiana per loro. Molto spesso li lascia soli con i loro problemi, sempre pronta a farne implacabilmente un capro espiatorio. In questi giorni ho sentito lamentele verso le autorità diocesane che avrebbero dovuto vigilare: è comodo scaricare sul vescovo e sulla gerarchia, che peraltro hanno le loro responsabilità. O ci mettiamo tutti in testa, clero in primis, che la Chiesa è una comunità e che quindi siamo tutti sulla stessa barca, o altrimenti giochiamo a rimpiattino e non ne usciamo cristianamente vivi.

È comodo rifugiarsi all’ombra del clericalismo o criticarlo aspramente per poi gettare sbrigativamente via il bambino sacerdotale assieme all’acqua sporca clericale. C’è un fondo di ipocrisia in tutto ciò: in chi difende sempre e comunque i preti e in chi sfrutta tutte le occasioni per attaccarli.

Sulla questione sacerdotale incombe, volenti o nolenti, il masso del celibato: se è difficile trovare l’equilibrio esistenziale per una persona normalmente inserita nelle dinamiche sociali, immaginiamoci per un prete in costretta solitudine, in opprimente castità, in cronica mancanza di rapporti umani ed affettivi.  Lo vogliamo rimuovere una buona volta questo testardo obbligo? Non sarà certo l’unica causa di tutti i mali ecclesiali, ma sgombriamo il campo da questa pietra d’inciampo, spacciata per certificazione dell’autenticità vocazionale.

Smettiamola anche di generalizzare i comportamenti negativi: non è giusto e non è costruttivo. Me lo impongono tanti sacerdoti che hanno segnato positivamente la mia vita, a partire da mio zio. Qualche tempo fa ho raccolto la giusta ed accorata lamentela di un bravo ed impegnato sacerdote, che chiedeva obiettività e carità per la sua “categoria” sottoposta ad un continuo tiro al bersaglio. Aveva ed ha ragione, anche se il clamore di certe, troppe e gravi, trasgressioni finisce con l’irrigidire i giudizi e rovinare il clima.

Ognuno faccia qualcosa, dal papa in giù, dal sottoscritto in su. La religione, o meglio la fede, non è monopolio dei preti e quindi le loro eventuali malefatte non fanno crollare tutto. La fede è una provocazione continua che fa i conti anche con un prete che si droga con i soldi raccolti durante le messe. E noi, non ci droghiamo forse, iniettandoci un falso benessere comprato con i soldi rubati ai poveri?