È inutile nasconderlo: abbiamo fatto l’abitudine ai fatti negativi che caratterizzano il nostro vivere più o meno civile. Ne provo a fare un rapido elenco, puntando a quelli che dipendono in gran parte dalle ingiustizie, dai difetti e dalle opere ed omissioni della società: i femminicidi, i morti sul lavoro, i suicidi nelle carceri, gli schiavi di alcoolismo, droghe e gioco d’azzardo, i soggetti che non trovano lavoro, le persone che nel mondo muoiono di fame, le guerre, i disastri ambientali.
Le notizie, anche per la clamorosa superficialità con cui vengono diramate e coltivate, ci lasciano piuttosto indifferenti: siamo giunti alla convinzione che non ci sia niente da fare e che tutto rientri in un gioco assurdo e inevitabile. Come dice il giornalista e scrittore Luigi Garlando, “a forza di accettare l’ingiustizia, non vediamo più l’ingiustizia”.
Per ognuno dei suddetti fatti abbiamo sempre pronto l’alibi che ci esime dalla responsabilità individuale e collettiva. Per la tortura verso le donne: cerchino di stare più attente e non si espongano al rischio… Per i morti sul lavoro: le leggi ci sono, ma le fatalità… Per i suicidi nelle carceri: chi sbaglia deve pagare e in fin dei conti non c’è da stupirsi…Per le dipendenze varie: se le vanno a cercare e poi non ne escono più…Per i disoccupati: la maggior parte di essi sono dei fannulloni che vivono alle nostre spalle…I morti di fame: facciano meno figli, si diano dei governanti seri, sappiano usare meglio gli aiuti che bene o male ricevono e soprattutto stiano a casa loro…Le guerre: ci sono sempre state e sempre ci saranno…I disastri ambientali: è cambiato tutto e non ci si raccapezza più…
A fronte di questo apatico e omertoso atteggiamento fatto di pelosa noncuranza e di ignobile fatalismo, abbiamo un volontariato piuttosto autoreferenziale ma comunque virtuoso, che rischia tuttavia di funzionare da foglia di fico per le vergogne del sistema.
Al riguardo mi sovviene una eloquente esperienza fatta durante la mia vita professionale. Andai a rappresentare le cooperative parmensi (quelle sociali in particolare) aderenti all’associazione in cui prestavo il mio servizio. Dove? In Prefettura! A Parma si intende. Era stata convocata una riunione dei rappresentanti delle forze economiche e sociali in occasione dell’emergenza creatasi in Italia, ed anche a Parma, per la fuga in massa degli Albanesi dal loro Stato in piena bagarre post-comunista. Eravamo alla fine degli anni ottanta, se non erro. Era un afoso pomeriggio estivo: arrivai senza giacca e cravatta e con un po’ di ritardo (fatto strano ed eccezionale per la mia quasi maniacale puntualità) alla riunione che si teneva in un’ampia sala della prefettura, ricca di stucchi ed affreschi. L’incontro si svolgeva attorno ad un grande e lungo tavolo. Non era in funzione l’impianto microfonico e quindi non si capiva nulla. Il collega a cui ero seduto vicino, ad un certo punto mi chiese perché tutti parlassero a così bassa voce. Me la cavai con una stupida battuta: «Probabilmente, bisbigliai, non si può parlare ad alta voce per il pericolo che gli stucchi possano deteriorarsi in conseguenza delle onde sonore?!». Chi riuscì a sentirmi mi guardò scandalizzato: ero arrivato in ritardo, senza giacca e cravatta ed ora osavo fare lo spiritoso in Prefettura? Il dibattito si trascinò stancamente e francamente non ricordo granché dei contenuti: se gli Albanesi arrivati a Parma si fossero aspettati qualcosa di concreto da quell’incontro… Ad un certo punto il Prefetto (non ricordo il nome) fece un attacco nei confronti delle associazioni di volontariato e del privato-sociale in genere, sostenendo che, a suo giudizio, l’impegno non era all’altezza della situazione emergenziale. Non seppi tacere, non sopportai un simile “becco di ferro”. Non ricordo le testuali parole, ma dissi sostanzialmente: «Da uno Stato incapace di affrontare le difficoltà, non sono accettabili critiche a coloro che si stanno comunque impegnando. C’era solo da dire grazie e tacere…». Non ebbi molte solidarietà. Mettersi contro il Prefetto non è tatticamente il massimo dell’opportunismo, ma …
Torno ai giorni nostri. Il vero e proprio incomodo rispetto alla supina accettazione dello status quo sono gli eroi. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” diceva Bertolt Brecht. Se è così, siamo molto sventurati perché di eroi ne abbiamo, anche se ne celebriamo le gesta, pensando cinicamente: “Ma chi glielo fa fare?”. Nemmeno gli eroi riescono però a scuoterci dal torpore conservatore che ci attanaglia. Le nostre burocrazie sono micidiali, dice Nando Dalla Chiesa con riferimento all’eroica testimonianza di suo padre. Sì, sono burocrazie strutturali e mentali che osano mettersi di traverso contro chi vorrebbe cambiare le cose, isolandolo e costringendolo a battaglie incredibili, dove il nemico è l’ingiustizia, ma anche e contemporaneamente chi non vuole il cambiamento.
Nel dopo alluvione di Firenze gli abitanti della città osavano deridere coloro che si impegnavano in una difficile gara di solidarietà. C’è chi ride, c’è chi scuote il capo, c’è chi alza le spalle. Non mi colloco in queste penose categorie, qualcosa (pochissimo per la verità) nella mia vita ho cercato di fare a livello professionale e di volontariato. Non sono un eroe. Ho smesso da tempo di buttare tutto in politica, anche se la politica continua ad avere enormi responsabilità a tutti i livelli.
«Quando do da mangiare ai poveri mi dicono santo, quando combatto la povertà mi chiamano comunista», così l’artista Moni Ovadia. Non ho mai dato da mangiare ai poveri e quindi nessuno mi riterrà un santo; mi è sempre piaciuto denunciare e combattere la povertà ecco perché mi hanno sempre considerato un comunista da sagrestia. Meglio comunista da sagrestia che perbenista del cavolo.