È a dir poco sconvolgente l’omicidio di Chiara Gualzetti ad opera del suo “amichetto”: quindicenne lei, sedicenne lui. Il fatto, avvenuto a Monteveglio in provincia di Bologna, così come raccontato dal protagonista, è scioccante: il male per il male, la violenza fine a se stessa, un’uccisione inspiegabile e atroce. Riprendo seppure a malincuore, la cruda ricostruzione del delitto fatta, peraltro con obiettività e discrezione, da Niccolò Zancan sul quotidiano La Stampa.
«Chiara non moriva mai, mi sono stupito della sua resistenza». Bisognerebbe fermarsi qui. Davanti a queste parole del ragazzo che si credeva Lucifero. Le ha pronunciate davanti al gip per spiegare perché, dopo quattro coltellate, la prima alle spalle, poi abbia anche preso a calci e ucciso a furia di botte Chiara Gualzetti, 15 anni, la ragazza che aveva attirato in una trappola. Lei non voleva morire, anche se in un messaggio aveva parlato di morte. Domenica mattina credeva di andare a fare una passeggiata assieme a un ragazzo che le piaceva, credeva di andare a camminare sui sentieri che portano all’Abbazia di Monteveglio. «Parliamo un po’ e poi ti riporto casa», le aveva detto lui. Era passato a prenderla. Aveva anche salutato suo padre.
C’è una telecamera che li inquadra: lui e lei si abbracciano per un istante, prima di allontanarsi camminando vicini. Ma domenica mattina, il ragazzo che si credeva Lucifero aveva già deciso ogni cosa. Aveva sfilato un coltello dal ceppo della cucina e aveva indossato una maglietta rossa forse, questo è il sospetto degli investigatori, per nascondere le macchie di sangue che sicuramente ci sarebbero state. Era un piano. Aveva già pensato in passato di uccidere Chiara Gualzetti. «Con qualcuno dovevo farlo. Ho scelto lei perché mi stava sempre addosso. Mi aveva scocciato. Non la sopportavo più. Mi stancava». Chiara ha cercato di difendersi con tutte le forze.
Il ragazzo è accusato di omicidio volontario premeditato: «Ha infierito con estrema violenza e determinazione». Ieri il fermo è stato convalidato. Secondo il gip del tribunale per i minorenni deve restare in carcere perché potrebbe fare ancora del male a se stesso e anche agli altri. Non ritiene che sia stato il gesto di un folle. Tutt’altro: «Al momento appare capace di intendere e di volere rispetto a un reato il cui concetto illecito è di immediata percezione». E poi la sua vita era «regolare e costantemente condotta in un ambiente familiare sostanzialmente adeguato». Anche il suo comportamento dopo il delitto fa ritenere al gip di trovarsi di fronte a una persona consapevole. Perché sono «lucidi e freddi i tentativi di nascondere le tracce e di negare le responsabilità».
Il gip non crede al ragazzo che diceva di parlare con il demonio, ispirato dal protagonista Lucifer della serie Netflix. Non all’assassino che ha detto così: «Uccidere era l’unico modo che avevo per stare in pace. Da quando ho dodici anni il demonio mi dà la carica e mi costringe a fare del male».
Il giudice sottolinea l’inconsistenza delle motivazioni del gesto e comunque l’assenza di ragioni reali di contrasto con la vittima. Parla di “estrema violenza e determinazione dimostrate durante tutto il corso dell’aggressione, che ha avuto una durata significativa e ha visto il giovane colpire ripetutamente con coltellate al collo, al petto e alla gola la vittima e infine colpirla anche con calci”. Il gip sottolinea inoltre la necessita del carcere per la “mancanza di scrupoli, di freni inibitori, di motivazioni e segnali di resipiscenza” come emerge “dal tenore dei messaggi vocali inviati a un’amica subito dopo i fatti”. Dagli accertamenti investigativi infatti è emerso che subito dopo aver ucciso Chiara Gualzetti il sedicenne ha mandato messaggi vocali “dal tenore inequivoco” a un’altra amica “cui raccontava quello che aveva commesso”.
La procura ha chiesto, comunque, una perizia psichiatrica. Ma anche l’avvocato Giovanna Annunziata, che difende la famiglia Gualzetti, si oppone all’ipotesi che sia stato il gesto di uno squilibrato: «Ha organizzato tutto, ha cancellato le chat, domenica pomeriggio ha risposto alle telefonate degli amici come se nulla fosse successo. Non c’è follia».
Adesso ci sono due famiglie distrutte. Ieri sera mille persone hanno sfilato per Chiara Gualzetti a Monteveglio, per stare accanto ai genitori Giusi e Vincenzo. È stata una fiaccolata piena di dolore e di sgomento.
Proprio in questi giorni sto leggendo un romanzo giallo, “Pizzica amara” di Gabriella Genisi, e volentieri cedo la parola all’immaginario sacerdote chiamato a commentare un’analoga situazione di violenza giovanile. Nell’omelia ai funerali di una ragazza di diciassette anni vittima della macchina del male dice così: “Sapete che il male ha lasciato i suoi frutti avvelenati su questa terra da qualche anno. E che le sue vittime preferite sono i giovani. Perché si deve essere ciechi o vigliacchi per non riconoscere che sono tutti vittime dello stesso male, che si insinua lento come un gas venefico nelle menti di quei giovani, così fragili, curiosi e arditi. Il male si nutre del vuoto, delle zone d’ombra, delle cicatrici della nostra coscienza, della società. Il male prospera e si diffonde dove trova l’incuria, l’abbandono. Il male si annida nel compromesso con le nostre coscienze, nell’accidia dei nostri cuori, nella solitudine delle nostre esistenze, private di vere relazioni affettive, di un modello di vita che ci allontana da noi, ci disconosce. Quanti più spazi vuoti gli lasciamo, più il male tenderà a espandersi, nella nostra vita sociale e in quella individuale. I ragazzi sono i figli derubati dai padri. Derubati della speranza ma anche della nostalgia, condannati a essere senza futuro e senza passato. Gli abbiamo dato dadi truccati per giocarsi la vita, e loro si sono accorti dell’inganno. Cercano di riempire quel vuoto di senso, di prospettiva, di assoluto che gli spettano di diritto alla loro età e che gli sono stati portati via. Ma le domande incalzanti non trovano, spesso, che balbettii inadeguati da parte dei loro padri. Ed è qui che il male li attende al varco, fornendogli quelle risposte che vanno cercando, blandendoli, seducendoli. Se riesce a ghermirli, a trasformarli in suoi strumenti, è perché noi li abbiamo lasciati soli o non siamo stati in grado di proteggerli. Quasi sempre, nonostante le nostre migliori intenzioni”.
La finzione letteraria non finisce qui, perché il sacerdote, dopo la spietata analisi, procede nella sua provocatoria omelia con proposte impegnative per tutti: “Ognuno di noi deve interrogarsi su quanto spazio abbiamo ceduto al male, coltivando la menzogna, la cupidigia, l’edonismo, abbandonandosi al facile guadagno piuttosto che al duro lavoro onesto, alla cura del giardino che il Signore ci ha regalato e i nostri padri hanno saputo coltivare, dove adesso cresce e prospera la pianta infestante del male. Ognuno di noi deve sentirsi in guerra contro il maligno che avanza e minaccia i nostri giovani e il territorio. Ed è una guerra che va combattuta riempiendo quegli spazi vuoti che abbiamo lasciato alla sua mercé, curando la nostra anima ogni giorno, restituendo senso e valore alle vere relazioni, quelle che ci legano alla famiglia, al vicinato, alla comunità fatta di persone che condividono lo stesso progetto di vita, ciascuna a modo suo. I nostri ragazzi, quelli più sensibili, sentono sulla loro pelle l’enorme ingiustizia di questa condizione in cui gli è dato vivere. Abbracciamoli, anche quando ci dimostrano la loro ostilità. Scendiamo nei loro silenzi e ridiamogli voce. Aiutiamoli a svelare la menzogna di quelle lusinghe, affinché non ci siano altre vittime, quelle che conosciamo e chissà quante che non conosciamo”.
Non ho niente da aggiungere!