Nella relazione annuale, pronunciata alla presenza delle alte cariche dello Stato, il presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio non è stato tenero ed ha criticato duramente la gestione istituzionale dell’emergenza sanitaria. Ho ripreso di seguito quanto pubblicato al riguardo da Stampa e Repubblica.
Nel 2020, dice Coraggio, la pandemia si è sommata al «numero ancora elevato del contenzioso Stato-Regioni» che «affonda le sue radici ventennali nella revisione del titolo V della Costituzione, i cui problemi applicativi ancora non si possono dire risolti».
L’effetto è stata una gestione a coriandoli: “il fatto è che la peculiarità implicita in un servizio nazionale, ma a gestione regionale, può essere risolta solo con un esercizio forte da parte dello Stato del potere di coordinamento e di correzione delle inefficienze sanitarie», sono «inevitabili i rischi di disomogeneità», il che comporta la lesione «dei livelli essenziali delle prestazioni. Il suo esercizio inadeguato non solo comporta rischi di disomogeneità, ma può ledere gli stessi livelli essenziali delle prestazioni”.
Il governo Conte, fin da febbraio dell’anno scorso, aveva rinunciato a esercitare la competenza esclusiva, pur garantita dalla Costituzione, in materia di profilassi sanitaria. Ciò ha impedito «l’unitarietà di azione che la dimensione nazionale dell’emergenza imponeva e impone».
Ne consegue l’invito netto a ridurre la conflittualità tra Stato e Regioni. Che Coraggio riassume in questa frase: “Oltre all’ormai costante richiamo alla leale collaborazione dello Stato e delle Regioni nelle materie di interesse comune o in ambiti posti al crocevia di una pluralità di competenze, appare anche opportuno invitare tutti gli attori istituzionali a riflettere sulla necessità di apprestare più efficaci meccanismi di prevenzione e risoluzione dei conflitti”.
Emerge una nitida e impietosa fotografia dell’ingorgo istituzionale fra Stato e Regioni, che purtroppo ha caratterizzato e condizionato negativamente la gestione della pandemia da parte dei pubblici poteri. Ci siamo fatti trovare impreparati su molti piani, ma anche su quello delle competenze e delle responsabilità istituzionali. Il discorso va rivisto, perché la macchina non funziona. Non so fino a che punto il corto circuito sia dovuto ad assurdi protagonismi, a paradossali personalismi, a condizionamenti politici, a “primadonnismi” centrali e/o periferici, ad appetiti di potere. Di tutto un po’! Alla base di tutto però sta un assetto legislativo che favorisce sovrapposizioni di competenze, confusione di ruoli e rimpallo di responsabilità. Mai come nel caso della emergenza pandemica queste carenze istituzionali hanno impattato sulla pelle dei cittadini al punto da rimettere in discussione i cardini dello stesso ordinamento regionale.
Se è vero che le Regioni sono partite nel 1970 con una ventina d’anni di ritardo rispetto al dettato costituzionale è altrettanto innegabile che, a distanza di oltre cinquant’anni, l’ordinamento dimostra tutti i suoi limiti e difetti, tali da imporre una revisione profonda della legislazione in materia. La Corte Costituzionale, con le parole misurate ma precise del suo presidente, non ha fatto altro che certificare autorevolmente una situazione di gravissima inefficienza.
Non vorrei che il discorso tornasse alla storica ed anacronistica diatriba fra centralismo e regionalismo: il rischio sussiste, perché effettivamente la tentazione del colpo di spugna può essere molto forte. Non vorrei altresì che, mentre nel ventennio preparatorio il dibattito fu condizionato dallo spettro del comunismo regionale strisciante, oggi rimettere mano all’ordinamento regionale significasse scatenare una rissa pseudo-ideologica tra il centro-destra più o meno leghista, che trova nelle regioni il compromesso di potere fra secessionismo e nazionalismo, e il centro-sinistra, che cerca l’ago della perduta identità popolare nel pagliaio della sbandierata (più che reale) efficienza regionale. Della serie le regioni non si toccano perché fanno gioco a destra e sinistra.