Dal momento che purtroppo, a livello sia individuale sia sociale, la lingua batte dove il dente duole, provo a frenare la lingua, ragionando co un po’ di buon senso, ed a placare il mal di denti con un pizzico di sano realismo calmante.
Sulla base dei dati che ci vengono giornalmente forniti – ammesso e non concesso che siano effettivamente raccolti in tempo reale e che siano registrati correttamente -, l’andamento dei contagi e dei decessi da covid 19 e relative varianti è piuttosto sconfortante e non lascia ben sperare. Tutte le sere, con grande ansia, attendo le cifre della giornata e ricado regolarmente nella più angosciata delle depressioni.
Superato con grande fatica questo penoso stato d’animo, tento di analizzare con qualche lucidità i motivi della implacabile resistenza del virus a tutte le misure adottate, dal distanziamento alle precauzioni igieniche, dalle chiusure alla vaccinazione, dalla mobilitazione scientifica a quella sanitaria. Sarebbe comodo e precipitoso concludere che il progresso, tutto sommato, non ci ha portato molto lontano: siamo andati nello spazio, abbiamo messo piede sulla Luna, forse Marte è alla nostra portata, ma il coronavirus ci sta inesorabilmente distruggendo (il numero dei morti a livello mondiale è semplicemente catastrofico). Sarebbe altrettanto ingiusto e sbrigativo pensare ad una imminente apocalisse: i segni, che, anche evangelicamente, vengono previsti, effettivamente coincidono con quanto sta accadendo, ma si tratta di segni, di artifici linguistici e non di realtà profetiche in via di realizzazione. Allora stiamo coi piedi per terra e proviamo a ragionare. Evidentemente qualcosa non sta funzionando nella strategia (?) adottata per contrastare e sconfiggere il virus. Passiamo in rassegna le varie misure.
Le chiusure più o meno ermetiche non stanno funzionando o, quanto meno, non bastano a tenere lontano il contagio: di qui il crescente malumore sociale delle categorie più colpite, che al danno delle ristrettezze economiche sofferte aggiungono un senso di inutilità ed inequità dei sacrifici loro imposti. È inevitabile che il ristoratore si chieda: nonostante tutta la mia buona volontà nell’adozione di costose misure a livello logistico, mi impongono di tenere abbassate le saracinesche del mio esercizio commerciale e poi scopro che probabilmente non serve a nulla visto che i miei potenziali clienti continuano imperterriti a contagiarsi ed a morire. Loro muoiono di covid ed io, se continuo così, muoio di fame.
Forse bisognerebbe chiudere ermeticamente tutto e di più, ma rischieremmo di fare la morte del topo. Ci illudiamo di non morire asfissiati sigillando porte e finestre senza pensare che prima o poi mancherà l’aria da respirare e sarà comunque necessario spalancare i serramenti cigolanti. Forse abbiamo sbagliato ad aprire e chiudere in continuazione perdendo i benefici di una chiusura generale e prolungata (un po’ come il primo vero lock down) e quelli di riaperture troppo precarie e condizionate. Si dirà “fammi indovino che ti farò ricco”. La questione è che noi abbiamo giocato a fare gli indovini e ci ritroviamo poveri.
Quanto alle misure igienico-protettive, mi riferisco alle mascherine, ai lavaggi frequenti delle mani, alle igienizzazioni pre e post possibili contatti infettivi, avevamo e abbiamo tutti la consapevolezza di come tutto ciò abbia un valore più rituale e simbolico piuttosto che reale e significativo: cose da fare, ma come quando si esce allo scoperto sotto un diluvio aprendo un ombrellino da passeggio. Si dirà “meglio poco di niente”. Il problema è che stiamo istituzionalizzando il poco ottenendo il niente.
E veniamo al toccasana vaccinale: era ed è l’unica vera arma appuntita che si poteva sperare. Purtroppo la stiamo sprecando dopo averla confezionata al peggio. La vaccinazione va a rilento, i vaccini vanno e vengono in un assurdo andirivieni speculativo, commerciale, organizzativo e scientifico. Al momento non si vede alcun effetto significativo sui contagi. Abbiamo certamente preparato malissimo la campagna, abbiamo sprecato tempo preziosissimo, stiamo tuttora brancolando nel buio organizzativo. Forse anche la tanto enfatizzata scaletta di salvataggio varata dal governo è più demagogica che efficace. Forse non ha tutti i torti Vincenzo De Luca, frizzante governatore della Campania, quando dichiara di voler vaccinare gli operatori economici a contatto col pubblico. Si dirà “del senno di poi son piene le fosse”. Non siamo ancora arrivati al poi, quindi si può ancora correggere il tiro: “chi la dura la vince”. Una cosa è certa: i governanti hanno brillato di poca resistenza e coerenza di fronte alle difficoltà e di molta arrendevolezza verso le loro sconclusionate diatribe.
Al termine dei lavori di costruzione di una moderna chiesa periferica di Parma, così essenziale da essere definita da mio padre “l’amàs dal gràn”, gli architetti si accorsero con sorpresa che il soffitto a capanna sembrava piatto, perché la pendenza dei due lati era insufficiente (la terminologia non è precisa e chiedo scusa agli architetti, a quei due in particolare). Mio padre si scandalizzò ma non disse nulla e tra sé pensò che“l’amàs dal gràn” stava emergendo inequivocabilmente ed irrimediabilmente. Era tardi e non si poteva ovviare, pena rifare completamente il tetto (rimedio inattuabile). La pensata per uscire dalla clamorosa impasse fu di dipingere il soffitto a due tonalità diverse di colore in modo da prendere lucciole per lanterne. Mio padre eseguì e tacque, ma non digerì la questione che divenne paradigmatica per bollare l’atteggiamento dei progettisti supponenti. “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?” direbbe mia nonna (erano due ingegneri che si scambiavano complimenti ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia).
Aggiungo un’altra chicca paterna, spostandomi al cimitero (ogni lugubre riferimento alla pandemia è puramente casuale). Mio padre andava poco a visitare le tombe dei defunti ed era solito giustificarsi così: “Al simitéri a gh’ vagh anca trop par lavorär “. Alla villetta stava lavorando per affrescare una cappella ed aveva realizzato l’idea di un architetto, ma, a dire di quest’ultimo, usando tinte un po’ troppo scure. “A pära d’ésor al simitäri” disse il professionista. Mio padre tacque perché il più bel tacer non fu mai scritto. Io forse parlo e scrivo troppo. La posta in palio però è altissima, quindi…