Due piccoli (?) incidenti hanno caratterizzato la conferenza stampa del presidente del Consiglio Mario Draghi all’indomani del “conclamato casino” su AstraZenaca conseguente ai pronunciamenti delle autorità sanitarie europee ed italiane e del governo stesso. Il premier, sentendosi probabilmente in qualche difficoltà, ha aggirato l’ostacolo delle clamorose incertezze sull’utilizzo del vaccino assai chiacchierato ed è partito all’attacco: “Alle Regioni dico: smettetela di vaccinare i giovani, queste platee di operatori sanitari che si allargano, gli psicologi di 35 anni. Con che coscienza un giovane si fa vaccinare e salta la lista sapendo che lascia esposto una persona che ha più di 65 anni o una persona fragile?”. Va detto che l’inserimento degli psicologi tra le categorie che hanno diritto al vaccino è previsto dal decreto legge 44 dell’01 aprile, varato proprio dal governo Draghi, che prevede dosi per tutti “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, farmacie, parafarmacie e studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita”. Categorie che sono obbligate dunque, visto che lo stesso decreto spiega che “la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.
Non è stata proprio una falsa partenza, ma quasi. In un certo senso ha risposto con un sacrosanto ma contraddittorio “pero” accusatorio ad un ondeggiante e preoccupante “pomo” sul vaccino della discordia. Il problema era ed è la frenante paura degli effetti collaterali di AstraZeneca, che purtroppo non viene controllata e tanto meno dissipata dai comportamenti schizofrenici delle autorità sanitarie e del governo preso in mezzo dalle stesse. Draghi ha fatto la mossa del cavallo e ha riportato la questione vaccini alla responsabilità nei comportamenti individuali sottolineandone il masochismo sociale. Un mio bravissimo e indimenticabile insegnante, quando a una sua precisa domanda si rispondeva in modo evasivo, aggiungeva: sì, la pubblicità è l’anima del commercio, la zia ha la scarlattina, Milano è a nord di Roma, etc. etc.
Devo ammettere di avere riscontrato in Draghi una certa qual tendenza al “piacionismo”, che francamente non mi attendevo: molto stile, molto savoir faire, molto tatto, molta furbizia, ma poco realismo governativo in un momento in cui siamo tutti alla disperata ricerca di qualche certezza. Nessuna ammissione di colpa, nessuna indicazione precisa al di là di qualche generica e toccante rassicurazione sul futuro. Mi aspettavo di più! Ricordo il comportamento insegnatomi dai maestri di comunicazione in campo cooperativistico: quando dalla situazione emergono inconfutabili dati su errori compiuti, bisogna partire col piede giusto ammettendo onestamente ed apertamente gli errori, solo così si può costruire qualcosa di positivo.
Non ho sentito da Draghi parole forti sui gravissimi errori compiuti a livello europeo e sull’intenzione di cambiare passo. Non ho colto la consapevolezza del senso di smarrimento esistente nella gente di fronte ai tira e molla degli scienziati e dei governanti e la conseguente volontà di rimediare con precise e realizzabili idee rassicuranti. Intendiamoci bene, non sto chiedendo a Draghi di fare il demagogo, ma nemmeno il pesce di lusso in un barile melmoso. Se l’idea rassicurante è quella delle cinquecentomila vaccinazioni giornaliere promesse dal generale Figliuolo, siamo completamente fuori strada. “Cala Tèlo” si dice dalle mie parti.
Poi ad un certo punto siamo arrivati all’involontario innesco di uno scontro diplomatico tra l’Italia e la Turchia. L’antefatto sta nello sgarbo protocollare perpetrato da Erdogan ai danni di Ursula von der Leyen, lasciata ripetutamente senza seggiola durante gli incontri diplomatici con i massimi rappresentanti della Unione Europea. Charles Michel seduto a fianco di Erdogan, von der Leyien in piedi ad attendere uno sgabello qualsiasi. Si trattava di scegliere tra la solidarietà con la presidente della Commissione europea e la difesa di lavori di distensione con un Paese di cui l’Europa ha un disperato bisogno. «Probabilmente è stato un errore, ma non mi sono alzato dalla sedia per paura di creare un incidente ancor più grave compromettendo mesi di attività diplomatica per una stabilità nelle nostre relazioni», così ha affermato Michel, presidente del Consiglio Europeo.
Queste le parole di Draghi in conferenza stampa: «Non condivido assolutamente Erdogan, credo che non sia stato un comportamento appropriato. Mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dovuto subire», ha premesso il presidente del Consiglio, per poi aggiungere: «Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono», ha sottolineato Draghi, «di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società; e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio». Queste parole hanno fatto incazzare i turchi.
Due brevi considerazioni. C’è una contraddizione nelle parole di Draghi: non si può coniugare franchezza e realpolitik fino al punto di definire l’interlocutore un dittatore per poi sedersi con lui al tavolo di una trattativa. Non ha senso né umano, né diplomatico. Sul piano etico faccio molta fatica ad ammettere che si debba cooperare con certi personaggi pur di salvaguardare gli interessi italiani ed europei. Sul piano politico non mi sembra il miglior viatico per un dialogo insolentire l’interlocutore con una verità che offende.
In conclusione, un veniale (?) peccato di evasione sulla vaccinazione ed una comprensibile (?) gaffe sui rapporti internazionali, che riportano il personaggio Draghi in una dimensione terrena rispetto alle aspettative paradisiache in cui anche il sottoscritto si era lasciato trasportare. Il premier non esce molto bene dalla suddetta conferenza stampa: simpaticamente più umano, ma politicamente meno credibile.