Era quasi inevitabile che le piazze cominciassero a ribollire a causa delle difficoltà inerenti alle chiusure di alcune attività economiche particolarmente tartassate quali la ristorazione. Che ci scappi qualche violenza è purtroppo altrettanto inevitabile, non mi scandalizzo. Capisco le lamentele ma capisco anche le cautele. Probabilmente i ristoratori vedranno incongruenze nelle scelte fra chi deve chiudere e chi può rimanere aperto: effettivamente qualcosa non ha funzionato nei tempi e nei modi. Gli apri-chiudi hanno fatto più danni, psicologicamente ed economicamente, delle chiusure continuative; si è data, in una prima fase, l’illusione che, adottando certe misure cautelari, si potesse proseguire l’attività e così si sono fatte spese che hanno ulteriormente e beffardamente peggiorato la situazione dei conti. I consumi sono diminuiti causa l’andamento generale assai precario, ma hanno preso botte forse irrimediabili dalle chiusure, mentre i cosiddetti ristori stanno facendo cilecca dal punto di vista quantitativo, organizzativo e della tempistica, ingenerando un senso di scoramento e di abbandono in questi operatori economici.
Effettivamente passando davanti ai ristoranti chiusi mi assale un senso di grande tristezza: sono il segnale eclatante di una vita bloccata, niente però in confronto all’angoscia indotta dalla visione televisiva dei reparti di terapia intensiva dove si combatte fra la vita e la morte. Non mi sento di colpevolizzare per le proteste chi è costretto ad abbassare la saracinesca sulla propria azienda, sul proprio lavoro, sul frutto dei propri sacrifici. Forse lo Stato potrebbe fare qualcosa di più? Non so esprimermi al riguardo: da una parte vedo la necessità di sostenere momentaneamente certe attività particolarmente colpite, dall’altra mi rendo conto che la finanza pubblica non è un pozzo senza fine anche perché sconta, volenti o nolenti, le ristrettezze storiche provenienti da un passato spendaccione e inconcludente. Qualcuno sostiene che sia addirittura inutile e controproducente continuare a spargere denaro a pioggia, meglio mirare e indirizzare gli aiuti su investimenti che abbiano un futuro economico e sociale. E lasciamo morire chi agonizza? E assistiamo ad una decimazione di fatto rispondendo con un “si salvi chi può” al grido di chi chiede un aiuto?
Personalmente, senza timore di essere smentito dagli scienziati, che una ne inventano, una ne dicono e una ne sparano a vanvera, avrei portato avanti, come ho già avuto modo di scrivere, una politica severa di concertazione con le categorie economiche, basata su patti molto stringenti, controllati con estrema intransigenza nella loro applicazione. In effetti i comportamenti molto spesso non sono stati incoraggianti in tal senso, ci si è illusi di affrontare i problemi all’italiana, sostituendo gli apericena con gli aperipranzo, lisciando il pelo ai consumatori più irresponsabili e trasgressivi anziché puntare sulla clientela più seria ed affidabile.
Non avrei fatto ricorso alle chiusure a macchia di leopardo, che sembrano fatte apposta per creare confusione: perché chi ha la sfortuna di operare in zone più sensibili e attaccate dalla pandemia deve essere penalizzato rispetto a chi lavora in territori meno toccati dal virus? Mi si dirà che bisogna essere pragmatici ed è vero, ma un minimo di omogeneità non può mancare.
Speravo che il governo di unità nazionale potesse disinnescare certe bombe ad orologeria. Mi sembra che la protesta stia montando al di là della credibilità teorica dei governanti. Un maggiore senso di responsabilità da parte dei politici tuttavia non guasterebbe, anche se forse la situazione sta comunque scappando di mano. E pensiamo a quando, prima o poi, scadrà la cassa integrazione. Pensiamo a quando verrà il momento di fare dei sacrifici da parte di coloro che si sono salvati in corner. C’è da tremare! Che ciascuno cerchi di fare tutto il possibile senza scatenare violenza e senza accendere fuochi devastanti. E facciamo giorno e notte questa benedetta campagna vaccinale, usando i vaccini più sicuri, senza creare fasce sociali di seria a e b, senza dimenticare che il mondo dovrà comunque cambiare. In peggio per i contemporanei abituati al meglio (?), in meglio per i posteri ai quali non possiamo e dobbiamo rinviare il nostro peggio.