Tutti i matti hanno la loro virtù: è un proverbio a prova di Sanremo. Sì, perché il grande circo equestre della canzone (meglio sarebbe dire dello spettacolo leggero come una piuma) questa volta ha avuto un effetto paradossalmente benefico: ci ha costretto alla folle distrazione, ha portato cioè in prima linea mediatica questo evento pseudo-culturale togliendola alla pandemia. Ci voleva Sanremo per capire che la tortura informativa non informa ma deforma? Spesso occorre un male maggiore per sconfiggerne uno minore.
Per qualche giorno i media sono stati costretti (?) a virare, passando dall’ossessionante passerella di virologi a quella leggiadra dei vip dello spettacolo: il fatto la dice lunga sulla serietà delle passerelle a cui siamo costretti. Tutto sommato erano molto meglio, da ogni punto di vista, quelle che avevano come protagoniste le spogliarelliste delle riviste porno di un tempo.
Dopo la sbornia sanremese come ci risveglieremo? Ricordo con piacere una barzelletta di uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre, non si impressiona e ribatte: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Noi, smaltita l’ubriacatura del momento, ci risveglieremo e saremo uguali a prima, ma non potremo consolarci con le brutture altrui e dovremo fare i conti con le nostre: destinati, per sopravvivere, all’ubriacatura continua.
Non siamo capaci neanche di usare bene le armi di distrazione di massa: passiamo dal cinismo della valanga di notizie contraddittorie sulla pandemia al sadomasochismo della fuga sanremese, per poi tornare indietro e ricominciare tutto daccapo. L’equilibrio e la serietà informativa sono un optional della nostra società.
Mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi raccontava: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Del fascismo mi forniva questa lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io; gli operatori dell’informazione odierni avrebbero di che ravvedersi, ma se, per tenere a freno la lingua mediatica, qualcuno volesse ricorrere alla censura, diventerei parolaio anch’io.
In buona sostanza meglio le sbornie a corrente alternata piuttosto delle astemie imposte dall’alto. Però, la libertà di parola e di espressione bisognerebbe saperla usare un po’ meglio. Non voglio metterla sul patetico e, Sanremo a parte, chiudo con una battutaccia per sdrammatizzare il clima che sta montando ogni giorno di più. «Parlèmma ‘d robi alégri» intimarono gli amici di mio padre alla compagnia in vena di discorsi penosi. Uno di loro, accettando il perentorio invito, rispose: «Co’ costarala ‘na càsa da mòrt?».