Da sempre lo penso, da parecchio tempo lo dico e lo scrivo: se tutti (non esageriamo: quasi tutti) facessero il proprio dovere di cittadini, molti problemi si risolverebbero automaticamente. Faccio un solo esempio per rendere plasticamente l’idea di quella che può sembrare la mozione degli affetti, ma che invece si sta dimostrando l’arma più efficace per affrontare tante questioni: la scarsità di risorse pubbliche.
Se tutti pagassero regolarmente le tasse, se si eliminassero gli sprechi, se si smettesse di rubare a tutto spiano a danno dei fondi pubblici, se chi lavora nel pubblico svolgesse il proprio ruolo con correttezza, le casse dell’erario avrebbero ben altro respiro e con i soldi a disposizione si potrebbero risolvere parecchi problemi, dalla sanità all’istruzione, etc. etc.
Il discorso vale più che mai in tempo di emergenza pandemica. Assistiamo continuamente e diffusamente ad atteggiamenti e comportamenti a dir poco scriteriati: le mascherine indossate un tanto al metro, la sanificazione delle mani fatta alla carlona, il distanziamento vissuto come un optional, tutti girano per le strade come trottole, le regole vissute come uno spauracchio da esorcizzare ed un ostacolo da dribblare, gli inviti alla prudenza liquidati con un’alzata di spalle, lo scaricabarile adottato come stile di vita.
Mi sono chiesto il perché di tanto assurdo menefreghismo che si trasforma in vero e proprio autolesionismo. La risposta non è univoca. Sono in gioco fattori di carattere psicologico, sociologico, economico e politico. Sui cittadini si è scatenata un’autentica bufera di disinformazione: si dice tutto e il suo contrario, regna una confusione tremenda che mette le persone nella condizione di rassegnata indifferenza e/o di capricciosa e irresponsabile reazione negativa.
Se gli scienziati ostentano le loro diatribe sulla pelle della gente, perché mai dovrei attenermi alle loro ondivaghe indicazioni? Se il 20% dei medici, che fino a prova contraria ne dovrebbero capire qualcosa, non si sottopone alla vaccinazione, perché dovrei farlo io che non ne capisco un cavolo. Se ripercorriamo il tempo che ci separa dallo scoppio della pandemia, ci accorgiamo che le analisi scientifiche si sono succedute come quelle dei giornalisti sportivi, i quali dopo ogni turno del campionato di calcio assegnano lo scudetto virtuale ad una squadra diversa. Se ascoltiamo la prezzolata sarabanda mediatica, non ne usciamo vivi prima ancora di essere colpiti dal virus.
Arriviamo alla politica. Il non decidere o, ancor peggio, il cambiare decisione come il cambiare di casacca partitica sono un pressante invito a trasgredire regole camaleontiche e strumentali, volte più a difendere il proprio serbatoio elettorale che la salute dei cittadini. I governanti, pur considerando l’estrema complessità, difficoltà e originalità della situazione, non hanno brillato per chiarezza e univocità di intenti, hanno litigato molto e combinato poco, hanno giocato al rimpallo decisionale tra i diversi livelli istituzionali e si sono nascosti dietro la scienza come un bambino fa sotto le gonne della mamma. Ultimamente stiamo vivendo gli esordi del governo Draghi come l’arrivo del salvatore della patria che ha la ricetta per cavarci le castagne dal fuoco: passiamo con disinvoltura dal concetto di politica nemica a quello di politica chioccia. La costante è trovare un pretesto per deresponsabilizzarci.
Se le regole, nella loro equivoca origine, nella contraddittorietà degli scopi e nella confusione dei tempi, sembrano fatte apposta per non essere osservate, se nessuno controlla o, meglio, se si fa finta di controllare i comportamenti della gente, tutti si sentono autorizzati a lasciarsi andare in un sadomasochistico crescendo trasgressivo all’insegna del paradossale “mal comune mezzo gaudio”.
Qualcuno intravvede uno scontro tra buoni (coloro che cercano faticosamente e scrupolosamente di attenersi alle regole) e cattivi (quanti se ne fregano altamente dei divieti e addirittura li irridono preventivamente): i primi si starebbero stancando (e ne avrebbero mille ragioni), mentre i secondi continuano imperterriti a mettere a repentaglio la vita altrui.
La telenovela dei vaccini rappresenta la ciliegiona sulla torta: tutti parlano del quando, del chi e del come sottoporre al vaccino le persone e poi si scopre che il vaccino non c’è. È stato pubblicato un bando per la realizzazione dei padiglioni identificati da una primula dove dovrebbero essere somministrati i vaccini alla popolazione. La primula è il simbolo scelto per la comunicazione del piano vaccini ed è stato ideato dall’architetto Stefano Boeri. «È un messaggio di fiducia e di serenità», ha spiegato il commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri. Sì, la primula rossa, perché il vaccino non si trova… E allora si viene colti da un senso di sconforto: ammesso e non concesso che esso possa veramente e stabilmente immunizzarci, se non lo possiamo utilizzare, psicologicamente parlando tutti i sacrifici diventano inutili. È come difendersi dalla bomba atomica con un ombrellino da spiaggia, quando i rifugi non esistono o restano chiusi.
Ricordo un mio compagno di classe: durante un’esercitazione orale impostò la soluzione di un problema, dando per scontato un dato che alla fine del ragionamento si rivelò inesistente. L’insegnante la considerò quasi una presa in giro e lo rimproverò aspramente. Assomigliamo un po’ tutti a quel mio simpatico amico: sfuggiamo dalle nostre responsabilità, addossandole agli altri e dando per scontato ciò che scontato non è.
La scena è molto complessa, preoccupante e frastornante. Alla fine ritorno al punto da dove sono partito: non resta che agire con serietà, prudenza, correttezza e…sperare bene. La speransa di mäl vesti, ch a faga un bón invèron?