Nei giorni scorsi è girato sui social un video di un sacerdote calabrese in opportuna vena di mixare il sacro col profano. Parlando ai fedeli, durante la messa (o alla fine della stessa), dell’importanza delle parole che usiamo nel nostro linguaggio, ha fatto riferimento ad un episodio gustoso, che però era passato sotto silenzio. Il ministro degli esteri nonché traballante leader (?) del M5S, dopo essersi incontrato con Mario Draghi, ha dichiarato, bontà sua, di avere riportato una buona impressione dall’ex governatore della Bce.
Il parroco ha provato a mettere a confronto i due curriculum di questi personaggi da cui è uscito un vero e proprio paragone impossibile. Con tutto il rispetto per i più umili mestieri non sapevo che l’eclettico Di Maio si fosse dedicato anche alla vendita di birre allo stadio san Paolo. “Ho lavorato qualche estate al San Paolo, ma stavo in giacca e cravatta, accoglievo i cosiddetti vip in tribuna autorità, tra cui il presidente del Napoli e tutti gli altri”, ha spiegato. “Fare il manovale, il cameriere, sono esperienze che ti forgiano. Come si dice dalle mie parti, saper campare te lo insegna il lavoro”, ha aggiunto il capo della Farnesina. Non credo però che fare lo steward allo stadio insegni a fare il ministro del Lavoro o degli Esteri. Ancor più ridicola del curriculum è la pretesa dimaiana di porre sotto esame Draghi. Sarebbe come se io, ha detto il prete, andassi a colloquio con papa Francesco e tornando in parrocchia riferissi di avere avuto una buona impressione. Tutti mi prenderebbero per matto, in preda ad un delirio di onnipotenza.
Tirando le conclusioni il simpatico e intelligente sacerdote ha sottolineato come dando a Di Maio notevoli responsabilità politiche sia stato fatto il suo male oltre che naturalmente il male del Paese. Se fossi giovane, ha aggiunto sconsolatamente, me ne andrei dall’Italia.
Ho raccontato male un video che è invece bellissimo, divertentissimo ed eticamente ineccepibile. La morale della favola è molto chiara e trasparente: i nani vogliono censurare Biancaneve e le ballerine vogliono imporre la loro musica. Nessuno cioè sa stare al proprio posto e tutti puntano ad occupare abusivamente il posto altrui.
Per rendere l’idea vado in prestito da mia madre, che acutamente ed ironicamente osservava, sferzando la rivoluzione avvenuta nei costumi e nei ruoli: «Il dònni i volon fär i òmmi e i òmmi i volon far il dònni: podral andär bén al mónd?».
“Adésa il donni i vólon fär anca i prét!”. Risposta laconica e spassosa: “Za il cézi j én mezi vódi, se j a vólon vudär dal tutt, chi fagon pur!”. Se di rimando incalzavo e rincaravo la dose: “Mo ti t’ andrissot a confesär da ‘na donna?”, Lavinia mi teneva bordone e coglieva al volo le mie battute di “spalla”. Rispondeva: “Ah no po’, mi putost a vagh davanti al Sgnór e ghe dmand pardón. S’ al me vól pardonär bén, senò vrà dir ch’ andrò a l’ inferon…”. Mia sorella controbatteva: “Parchè, co’ gh sariss äd straordinäri, se ‘na donna la fiss al prét?”. Ma mia madre non mollava l’osso: “Bén insomma, mi ‘na donna a fär al prét ne gh la vedd miga, vala bén!”.
Ebbene, se le donne hanno sacrosanti diritti pregressi e repressi da far valere in campo famigliare, sociale ed ecclesiale, i Di Maio dovrebbero avere il buongusto di stare al proprio posto, non dico dietro la lavagna, ma nemmeno in cattedra a giudicare i professori. Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.
Non so come finirà la crisi di governo più pazza del mondo e di tutti i tempi. Di una cosa sono certo: se Renzi vuol fare il premier senza esserlo, se Conte vuol fare il fenomeno senza averne le caratteristiche, se i parlamentari giocano a fare gli strateghi anziché preoccuparsi di varare buone leggi, se i ministri pretendono di gestire una fetta di Paese preoccupandosi solo di accaparrarsi fette di torta, se parecchi senatori puntano a dimostrare senso di responsabilità una tantum, se i politici pensano che la buona politica dipenda dal tenere competizioni elettorali ad ogni stormir di fronda, podral andär bén l’Italia?
Mio padre lasciava volentieri a mia madre il compito di tenere i rapporti con la maestra, poi il maestro, poi i diversi professori della scuola media inferiore e dell’istituto tecnico commerciale. Non se ne disinteressava, ma riteneva che mia madre fosse più adatta a svolgere questo ruolo, per il suo tratto elegante, per il suo carattere molto controllato e per la spiccata virtù di sapere stare al proprio posto. Si era imposto una inderogabile regola: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”. Se i politici avessero un po’ dell’umiltà praticata da mio padre e cedessero qualche volta il passo a chi ha esperienza amministrativa, capacità professionale e preparazione tecnica, forse non saremmo sempre in braghe di tela. Il primato della politica non si esercita con velleità tuttologhe. Ho sempre avuto una certa antipatia per i primi della classe: li sopportavo e li sopporto solo se lo sono veramente e soprattutto se lasciano copiare il compito in classe. Ebbene, Di Maio è il capoclasse tollerato da Beppe Grillo, non è certo il primo della classe a giudicare dalle fandonie che snocciola in continuazione. Bisogna assolutamente che il preside sospenda a tempo indeterminato chi vuole trasformare l’Italia nel paese degli asini.