L’albero del trumpismo e i meloni nostrani

Riprendo testualmente dal quotidiano Avvenire e riporto di seguito quanto scrive Antonella Mariani in un pezzo da incorniciare.

Come si dice a una persona di 52 anni che oggi, tra poche ore, morirà? A Lisa Montgomery il 13 gennaio è arrivata una lettera di poche righe, in cui le si notificava che per lei era pronta l’iniezione letale. E possiamo solo immaginarla, l’altalena di sentimenti che avrà provato: ma come, solo poche ore prima un giudice aveva sospeso l’esecuzione della sua condanna a morte per consentire una perizia psichiatrica e ora, invece, questa lettera? La Corte Suprema americana, come è noto, aveva confermato a tempo di record che sì, Lisa doveva morire, e la brutale pena essere eseguita seduta stante. E lei diventare la prima donna condannata a morte per una esecuzione federale dopo 70 anni.

Ma, seppur nell’inevitabile formalismo, colpisce quel “cara” all’inizio della lettera. Davvero Ms. Montgomery è “cara” al signor T.J. Watson del carcere federale di Terre Haute, nell’Indiana? E, in fondo, anche quel “Sincerely” stona parecchio. Una formula di rito, certo, che in inglese magari suona diversa che in italiano (forse “gentile” e non “cara”, forse “cordialmente” e non “sinceramente”) ma cosa c’è di “sincero” nel mettere a morte una persona, nel punire una donna senz’altro colpevole di un brutale omicidio nel 2004, uccidendola a sua volta?

Cara Ms. Montgomery – recita la missiva – l’intento di questa lettera è informarla che è stata fissata la data per l’esecuzione della sua condanna a morte (…). Questa lettera costituirà notifica ufficiale (…) Il 13 gennaio 2021 è la data per la sua esecuzione tramite iniezione letale“. Freddo, asettico, se non fosse per quelle due parole all’inizio e alla fine: incongrue, perfino agghiaccianti visto il contesto. E se non fosse che non si riferisce all’arrivo di un pacco di Amazon o alla notifica di una promozione al lavoro. In ogni caso, addio “cara” Lisa Montgomery. “Sinceramente”, fino all’ultimo avevamo sperato che non accadesse.

Spero abbia ragione Massimo D’Alema quando afferma che negli Stati Uniti la pandemia ha significato una riscossa valoriale a livello culturale, un rigurgito di vitalità democratica, sfociati nel risultato elettorale che ha bocciato Trump riportando il mondo intero sul difficile ma giusto cammino della democrazia.

Ho seri dubbi vista la resistenza che il populismo oppone ad un ritorno alla normalità: la tragica pagliacciata di Washington lo dimostra e la lezione dovrebbe valere per tutti, Italia più che mai compresa. La Corte Suprema americana mi preoccupa. Se la giustizia americana mantiene la pena di morte e addirittura ne fa un beffardo uso burocratico, c’è da tremare. Purtroppo l’aria che tira è questa ed è un venticello subdolo che parte adagio e in lontananza, ma poi diventa un vento impetuoso e inarrestabile. Lo sappiano quanti giocano al trumpismo, quanti pensano che sia un pericolo lontano e facilmente scampabile ed anche e soprattutto coloro che ammirano Trump perché dopo aver tirato il sasso è capace di nascondere la mano.

Peraltro leggo che Donald Trump userà il potere di grazia fino all’ultimo (ne hanno abusato peraltro anche i suoi predecessori), a favore di parecchi colletti bianchi e di personaggi suoi chiacchierati alleati; e lo ha già usato in precedenza a favore del suo entourage, parenti inclusi. Per un po’ ha pure considerato di perdonare il più vicino a lui di tutti, e cioè se stesso.

Un buontempone, una di quelle persone che non si riesce mai a capire fino in fondo se “ci arrivano o ci marciano”, era uno specialista nel collocare le trappole per catturare i topi (almeno così diceva lui). Era però talmente di buon cuore che, dopo averli catturati non trovava il coraggio di ucciderli. Allora cosa faceva? Inforcava la bicicletta e li portava in aperta campagna, poi li liberava in qualche prato. Una volta ritornato frettolosamente a casa, si trovò di fronte ancora a due bei ratti in piena forma. Li guardò con stupore e disse tra sé, ma anche rivolto a loro: «Dio av maledissa, siv béle chi, iv fat pu a la zvèlta che mi a tornär indrè?».

Sempre in tema di topi, ad un conoscente di mio padre avevano appioppato il soprannome di “sorghén”. Forse perché piccolo e paffutello, forse perché aveva la bocca sempre in movimento per mangiare, forse perché abitava in una topaia. Fatto sta che una volta si trovò in compagnia di amici ad incontrare occasionalmente una bella “pónga”, che girò loro in mezzo ai piedi. Uno di essi, rivolto a sorghén, disse: «At miga visst? É pasè tò mädra…». Maleducati, ma simpatici.

Ai tempi della contestazione giovanile si gridava: “Fascisti carogne, tornate nelle fogne”. Forse è tempo di aggiornare lo slogan: “Populisti pongoni, andate a mangiare meloni”.