Papocchio 3.0 L’impertinente speranza nell’antipapa Leone

Durante la visita di papa Leone XIV al Quirinale mi sono molto commosso ripensando alla sobrietà cerimoniale osservata da papa Francesco in simili occasioni: tutto cambiato, tutto riportato alla tradizionale stucchevole pompa. Qualcuno mi critica perché continuo ad insistere su questa discontinuità tra i due papi. Sì, lo faccio perché mi sento defraudato di un patrimonio di semplicità e povertà di stile, acquisito durante il papato bergogliano: sono un figlio che ha l’impressione di assistere allo scialacquamento dell’eredità paterna. Il mio cuore batte così anche se il cervello mi consiglia di aspettare con pazienza i contenuti dottrinali che si prospettano molto interessanti e quelli pastorali ancora tutti da scoprire, non fermandomi ai gesti ed agli atteggiamenti iniziali.

Ho provato quindi in questi giorni a mettere da parte il bicchiere mezzo vuoto della mia verve ipercritica rispetto al papato di Leone XIV per guardare al bicchiere mezzo pieno di un pontificato che potrebbe segnare, nel bene e nel male, l’inizio della fine del papismo.

È indubbio come da Giovanni Paolo II in poi l’identità cattolica si sia espressa quasi esclusivamente nell’azione pastorale del papa: chi dice Chiesa dice papa e viceversa.

Io, ad esempio tanto per rendere l’idea, ho una originale opinione riguardo all’atteggiamento dei papi verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna; papa Francesco ha scelto coraggiosamente di brandire e usare, oserei dire esclusivamente, l’arma evangelica facendo scoppiare le contraddizione nelle coscienze.

Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa.

La mia consolatoria e un tantino maliziosa speranza è che il papato di Leone XIV sia talmente poco carismatico e profetico, ma così umile e disponibile, da innescare un meccanismo di relativizzazione papale a vantaggio di una forte attenzione e di un concreto coinvolgimento di tutte le esperienze comunitarie in atto, talvolta assai nascostamente, nella Chiesa.

In questa nuova logica, finalmente conciliare e sinodale, ci troveremmo a fare i conti con una rischiosa ma benefica vivacità di idee e proposte incarnate in diverse esperienze di vita cristiana, che si allargherebbero oltre la sempre più ristretta cerchia clericale.

E, per dirla tutta, nemmeno molti uomini di Chiesa riescono a far brillare la bellezza di Dio. Più che testimoni, spesso sembrano burocrati del sacro, funzionari di un’agenzia extraterrestre che promette viaggi premio in un altro mondo. (da una recente omelia di don Umberto Cocconi)

Forse verrebbe superata la ormai sterile parrocchialità a favore del fecondo impegno nel sociale; forse cadrebbe il dramma della crisi delle vocazioni religiose per puntare sul rimescolamento delle vocazioni e delle ordinazioni; forse il ruolo della donna verrebbe veramente riconosciuto e valorizzato; forse il sesso entrerebbe positivamente nella condizione esistenziale di tutti i cattolici; forse diventerebbe normalità quanto testimoniato dal cardinal Martini così come ricordato nel terzo anniversario della sua morte.

«Tre anni or sono moriva il card. Carlo Maria Martini, grande studioso della Bibbia, pastore e profeta. Sulle orme di Gesù, partendo dalla giustizia quale conseguenza della fede, era aperto alle persone, non facendosi mai imprigionare dagli e negli schemi,  con una grande attenzione ai non credenti, ai poveri, ai malati, agli indigenti, agli stranieri, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati risposati, ai detenuti, financo ai terroristi; affrontava serenamente il dialogo con le altre religioni, si poneva, a cuore aperto, davanti alle problematiche sessuali, alla bioetica, all’eutanasia, all’aborto, all’accanimento terapeutico, all’uso del preservativo, al sacerdozio femminile, al celibato sacerdotale. Sempre pronto all’incontro con gli “altri”, con tutti» (Luciano Scaccaglia ricorda il Cardinale Carlo Maria Martini)

Finirebbe una buona volta il clericalismo di preti e laici: ricordiamoci che Gesù non era un prete…

Mi illudo (?) cioè che possa terminare la visione unilaterale e verticistica del “papacentrismo”: la Chiesa Cattolica è una comunità ed al suo interno esistono carismi (servizi) fra i quali c’è anche quello del Vescovo di Roma. A tutti i livelli, la Chiesa deve esprimere, all’interno e all’esterno, la piena e totale adesione allo stile evangelico, liberato dalle incrostazioni della tradizione e dai lacci dell’esercizio del potere. Quindi la procedura delle scelte deve essere rivista sostanzialmente e formalmente in un bagno di partecipazione e condivisione coinvolgente: bisognerebbe partire dall’assoluto primato della dimensione  pastorale rispetto a quella istituzionale; al centro dello stile ecclesiale si dovrebbe porre la collegialità episcopale; la vita dell’istituzione e la stessa pastorale andrebbero sclericalizzate, liberate dall’affarismo, ridotte all’essenziale in senso economico ed organizzativo e subordinate alle esigenze evangeliche; occorrerebbe puntare al forte coinvolgimento del laicato ed alla imprescindibile valorizzazione della presenza femminile.

Al di là dei limiti legati alla persona del papa sottratto alla (s)comoda infallibilità, bisogna prendere coscienza della fragilità cronica di una Chiesa incapace di leggere i segni dei tempi e di andare incontro ai problemi dell’uomo, della donna, della società, del mondo. Il fatto strano non è l’autocoscienza della fatica di un papa, ma il vero dramma è una Chiesa capace solo di succhiare il latte dalle mammelle più o meno floride del successore di Pietro, che aspetta sempre il “la papale” per suonare e cantare qualsiasi motivo musicale,  che si piange addosso, che si guarda l’ombelico, che arranca rispetto alle sfide del mondo contemporaneo, che si rifugia nello sterile dogmatismo e nel penoso rigorismo, che si limita a rammaricarsi della scarsità degli operai nella vigna e della propria appassita capacità all’impegno evangelico, che vive spesso di campanilismo ecclesiale o di retrograda contrapposizione alla modernità, che non rispetta la laicità dello Stato, che si compromette col potere, che difende ipocritamente la vita con i principi irrinunciabili senza condividere i drammi delle persone.

Occorre finalmente un colpo di reni evangelico raccogliendo le provocazioni del Concilio Vaticano II e sviluppando la debole ma vitale testimonianza di papa Francesco e magari approfittando degli spazi concessi da un discreto e delicato papa Leone: la collegialità vissuta come partecipazione di tutti, la centralità del Popolo di Dio, l’apertura al ruolo della donna nella pastorale e nei sacramenti, una visione nuova e gioiosa della sessualità nel rispetto delle tendenze personali e intime e, soprattutto, una Chiesa povera, trasparente a livello economico, esperta in comprensione, quella di Gesù, e non in condanne e anatemi.

La forte presa di coscienza ed il coraggio del dialogo interno ed esterno in stile comunitario saranno il miglior viatico per promuovere un rinnovamento di metodo e di merito. La Chiesa ha bisogno di cambiare. Non basta pregare e tacere. Credere e obbedire al papa. Ogni cristiano ed ogni comunità deve portare il proprio contributo critico alla vita della Chiesa. All’attesa si devono accompagnare la riflessione, la provocazione, la protesta, la proposta, l’impegno, la testimonianza, la condivisione.