Il passaggio dalla vigliaccheria al coraggio

Mi sento in dovere di dedicare un commento all’evento degli eventi, vale a dire la Passione e morte di Gesù, mischiando, forse impropriamente, laicità e religiosità in una franca revisione di vita personale.

Recentemente un mio caro amico mi ha chiesto, con provocatoria stima, a quale personaggio del Vangelo mi sento più vicino e somigliante.

Dopo attenta riflessione ho risposto Nicodemo: un intellettuale vigliacchetto in assoluta buona fede, amico segreto di Gesù, in cerca di verità, che ha il buon senso di difendere Gesù davanti al sinedrio chiedendo che prima di condannarlo sentissero le sue ragioni, quelle che lui aveva ascoltato negli incontri notturni (In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”), ma non ci va fino in fondo (è qui la mia somiglianza…), ha però il coraggio di partecipare alla deposizione e sepoltura del corpo di Gesù.

Gli elementi di somiglianza sono sostanzialmente due: l’ansia della ricerca della verità e la… vigliaccheria.

Sul primo non mi soffermo anche perché è abbastanza trasparente il mio impegno di approfondimento, peraltro un po’ troppo asetticamente intellettualoide, sulla parola di Dio e sul messaggio evangelico in particolare.

Il Venerdì Santo, ad esempio, mi sono sempre concentrato sulla celebrazione liturgica della Passione che è cosa ben diversa dalla Via Crucis: la prima punta in modo austero e profondo sul racconto evangelico per farlo seguire dalla stupenda preghiera universale, dall’adorazione della Croce e dalla Comunione eucaristica; la seconda è una “spettacolarizzazione” della Passione, che, al di là del rispetto delle tradizioni popolari e dei contenuti delle meditazioni (a volte troppo sofisticate), ne enfatizza l’aspetto oserei dire mediatico, rischiando di ridurla a una versione da favola, che oltre tutto non finisce con i cristiani che vissero insieme felici e contenti. Non viviamo insieme: ognuno va egoisticamente per la sua strada! Non viviamo felici: siamo tristi al limite della disperazione! Non viviamo contenti: siamo insoddisfatti, ci manca sempre qualcosa! Grava su di noi il macigno della sofferenza.

Sul secondo aspetto, quello della “vigliaccheria”, parto da una considerazione di carattere generale su (quasi) tutti gli interlocutori di Gesù: per essi il dato comune e fondamentale è proprio la vigliaccheria. Se escludiamo le donne, vale a dire Maria, la Maddalena, le parenti, le amiche, finanche la moglie di Pilato, tutti sono più o meno dei vigliacchi, che scantonano nei momenti fondamentali. All’acme dei farisei, dei dottori della legge, degli scribi e dei sinedriti fa riscontro il piattume degli amici, dei curiosi finanche dei beneficiati.

Persino Giovanni Battista, pur nella dedizione totale alla causa fino allo spargimento del sangue, ha i suoi dubbi sulla messianicità di Gesù e infatti non lo segue, non diventa suo discepolo: questa titubanza viene giustificata considerando il precursore come uomo-testimone del passaggio fra antico e nuovo testamento. Fatto sta che forse assomigliava più a suo padre Zaccaria, il quale razzola male e parla benissimo a cosa fatte, che a sua madre Elisabetta, la quale, come Maria, crede subito e fino in fondo, prima di vedere i miracoli e tutto quel che segue.

Nicodemo ne è l’esempio più sotterraneo, ma non per questo meno colpevole. Non ha il coraggio di andarci fino in fondo, tentenna, ha paura di compromettersi, vuole salvare capra e cavoli, etc. etc. Solo dopo la morte di Gesù ha un coraggioso gesto di pietà: un po’ tardi direi…

La mia mancanza di coerenza, di perseveranza, di dedizione totale mi rendono molto simile a Nicodemo: della serie “cristiano sì, ma non troppo”. Il cristianesimo non è un fatto intellettuale, ma una vita spesa per gli altri.

Mi permetto di fare degli esempi: come si concilia la generosità con la previdenza; come mettere insieme le cose di lassù con quelle di quaggiù se non ponendo tutto a disposizione di tutti; come si può essere inflessibili con gli altri e indulgenti con se stessi; come considerare la vita alla stregua di un servizio gratuito per poi badare al proprio tornaconto individuale.

Quando si afferma che Gesù lo abbiamo inchiodato alla croce con i nostri peccati, si può intendere proprio questo: non siamo meglio di Caifa, di Giuda, di Pilato, degli apostoli, etc. etc.

Nicodemo a parte, si tratta di un’utile, implacabile auto-critica: molto attento, persino talora scrupoloso, al rispetto della pratica religiosa, poco dedito a tradurre la fede nella concretezza dell’esistenza quotidiana. In poche parole, molta teoria formale e poca prassi sostanziale.

Il Padre Eterno non sarà così intransigente!? Lo spero perché altrimenti sarei spacciato.

E poi, dopo la Passione e la Morte, a cui ci siamo abituati, è arrivata la Risurrezione: qui al rischio della vigliaccheria si sostituisce quello della oltranzistica razionalità. Nel mio accidentato percorso di fede tendo a capovolgere la Pasqua, giustificando la Risurrezione con la Passione e la Morte: della serie una simile fine per Gesù, che sciorinava e comunicava continuamente parole di vita eterna, era ed è impossibile a credersi più della Risurrezione.

È più colossale la beffa del nulla oltre la morte che la fiducia nel tutto prima della morte, assieme alla morte e dopo la morte.