La narrazione diegetica e le dissidenze incarnate

Ero un bambino, in quell’età in cui si sommergono i genitori con strani e imbarazzanti quesiti. «Papà, cos’è la filosofia?» chiesi un giorno a mio padre, senza girarci intorno e senza rendermi conto dell’enormità culturale del quesito che stavo ponendo. Forse sbagliai addirittura e la chiamai “fisolofia”.

Lui avrebbe potuto tranquillamente cavarsela, rinviandomi a data da destinarsi o indirizzandomi al mio maestro. Invece provò a rispondermi aiutandosi paradossalmente con il dialetto: «Vèddot cla matita chi? Ela ‘na matita o sèmmia nuätor ca la vedda acsì? Còssta l’é la filozofiä…». In quel momento mi bastò. Progredendo negli studi, anche per merito suo che me lo consentì economicamente e socialmente, ho scoperto progressivamente che mio padre aveva usato l’approccio filosofico risalente al “mito della caverna” di Platone ed alla distinzione tra “fenomeno e noumeno” proposta dal filosofo tedesco Immanuel Kant: c’è differenza  tra il come una cosa ci appare e come realmente è in sé stessa; nel nostro modo di percepire non siamo in grado di raggiungere la realtà in sé stessa, ma sempre e solo di coglierla nel suo apparire. Quella che noi percepiamo non è la realtà vera e propria, ma solo un suo riflesso, costruito partendo dal nostro sistema di conoscenze.

Non ho mai capito e mai capirò se mio padre avesse leggiucchiato Platone e/o Kant o qualche commento sul loro pensiero filosofico. Propendo per una libera e paradossale intuizione tutta sua. Intelligenza ed erudizione non vanno di pari passo. Cultura? Non vuol dire sapere tante cose, ma usare ciò che si sa per porsi al meglio di fronte alla realtà. In questo senso mio padre era un uomo di cultura. Sono sicuro che mi frenerebbe con la sua sincera modestia: «Veh, lasa lì äd dìr dil stupidädi…».

Ho voluto partire da questo ricordo per alludere al problema della narrazione della situazione internazionale con cui facciamo i conti e che è molto parziale e, per certi versi, fuorviante. Tutta la storia è sempre stata narrata attraverso le gesta dei personaggi: un limite che attualmente ci sta affliggendo ancor più, considerato il fatto che oltre tutto mancano i grandi personaggi e quindi siamo costretti a confrontarci con una narrazione estremamente superficiale, semplicistica, opportunistica, incompleta e faziosa.

Vengo al dunque: non sembra forse che tutti gli israeliani siano d’accordo con la delinquenziale politica di Netanyahu, che tutti i russi siano culturalmente implicati nel regime putiniano, che tutti gli americani pendano dalle labbra di Trump, che tutti i cinesi siano coinvolti nel vigente, imperante e paradossale comunismo capitalista o capitalismo comunista e persino che tutti gli ucraini siano allineati e scoperti dietro Zelensky?

Il minimo comune denominatore di questa narrazione è la propensione alla guerra: guerra zarista di aggressione nel caso della Russia; guerra di vendetta nel caso di Israele; guerra protezionista nel caso di Trump; guerra imperialista nel caso della Cina; guerra resistenziale nel caso dell’Ucraina.

Probabilmente non è proprio così. Faccio di seguito alcuni esempi prendendo le mosse da alcune notizie che vengono riportate con scarsa evidenza, soltanto da alcuni organi di stampa e che non incidono sull’opinione pubblica rigidamente bloccata sulla narrazione corrente.

Gli ultimi sono stati duecento ex ufficiali di polizia. Almeno fino ad ora, perché la mobilitazione cresce di ora in ora. Uno dopo l’altro, migliaia di riservisti delle forze di sicurezza israeliane – in maggioranza pensionati ma anche in servizio attivo – si stanno unendo al grido della società per la fine della guerra a Gaza. O, meglio, come recita la formula scritta e pubblicata in ebraico e in inglese, per un accordo che riporti a casa i 59 ostaggi ancora nelle mani di Hamas «anche se ciò significa mettere fine al conflitto». (“Avvenire” – Lucia Capuzzi)

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Ieri decine di gruppi sindacali, ambientalisti e pro-immigrati (insieme a sigle abortiste) ci hanno provato di nuovo, nella speranza che gli americani che non hanno reagito agli attacchi alla magistratura o alla sospensione degli aiuti umanitari internazionali fossero spinti a sfilare dal crollo della Borsa e dalla paura di una recessione. Forse, si sono detti, il torpore nel quale il pubblico statunitense sta assistendo alla concentrazione di potere nelle mani del presidente sarebbe stato scosso dalle conseguenze delle guerre commerciali dichiarate da Trump. In realtà i risultati non sono stati impressionanti. I cortei sono stati tanti, coinvolgendo più di 1.000 città e quasi mezzo milione di persone, ma la maggior parte non ha superato i 100 partecipanti. (“Avvenire” – Elena Molinari)

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In America, come in Italia, l’unica opposizione a Trump è la Magistratura. Il giudice federale James Boasberg ha riconosciuto la sussistenza degli elementi per ritenere l’Amministrazione Trump colpevole di oltraggio alla corte per aver deliberatamente disobbedito al suo ordine di sospendere immediatamente le espulsioni degli immigrati illegali ai sensi dell’Alien Enemies Act, la legge di fine ‘700 raramente utilizzata.  L’ordinanza del giudice Boasberg offre all’Amministrazione un’ultima opportunità di conformarsi, ma afferma che altrimenti adotterà misure per identificare le persone specifiche che hanno violato la sua sentenza del 15 marzo, successivamente revocata dalla Corte Suprema, per deferirle all’autorità giudiziaria. (Dagospia – LaPresse)

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“Vogliamo che lo sentano tutti: questa non è la nostra guerra. Questo non è il nostro governo. Vogliamo vedere l’Ucraina recuperare i propri territori e i prigionieri politici uscire dal carcere”. Il dissidente russo Vladimir Kara-Murza è accerchiato dalla folla. Stringe le mani alla gente, parla con i giornalisti, autografa libri. Fino a qualche mese fa era rinchiuso in un carcere di massima sicurezza dove stava scontando una pena di 25 anni con l’accusa di alto tradimento per aver contestato l’invasione russa dell’Ucraina. Oggi è libero, grazie al maxi scambio di prigionieri avvenuto nell’agosto scorso tra Russia e Occidente. Ed è tornato a guidare i cortei di protesta, come faceva a Mosca in un passato che sembra lontanissimo.

Oggi si sono riunite migliaia di persone per dire di no alla guerra, no alla dittatura di Putin, no ai crimini di guerra che questo dittatore sta compiendo in Ucraina a nome del nostro Paese. La propaganda russa vuol far credere che tutti sostengono questa aggressione, e che tutti i cittadini russi sono a favore di questo regime. Cercano di dimostrarlo con i risultati di quelle che loro chiamano elezioni, e mostrando sondaggi che non hanno alcun valore sotto una dittatura. Sa, ci si può inventare qualsiasi risultato elettorale, si possono inventare gli esiti dei sondaggi, ma non ci si può inventare quello che abbiamo visto oggi: migliaia e migliaia di persone scese in strada qui a Berlino per dire no alla guerra, no al regime di Putin. (LIFEGATE/DAILY – da Berlino – Lucia Bellinello)

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Negli ultimi giorni, il dibattito sulla natura democratica dell’Ucraina si è riacceso dopo le polemiche internazionali scatenate da Trump che ha definito Zelensky un “dittatore”. Vi è una questione su cui riflettere.

Infatti il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, pur essendo stato eletto democraticamente, guida oggi una nazione in cui sono stati messi fuori legge i partiti di opposizione. Per “legami con la Russia”. E in più ha fatto scalpore l’arresto di esponenti politici, come il deputato di maggioranza Oleksandr Dubinsky, anch’egli eletto democraticamente, ma detenuto con l’accusa di “disinformazione”.

Eppure il portavoce della Commissione Europea, Stefan de Keersmaecker, ha recentemente dichiarato che l’Ucraina è una “democrazia”, mentre la Russia di Putin non lo è. La sua affermazione è stata una risposta alle parole dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

L’Unione Europea non ha però preso posizione sulla messa al bando dei partiti di opposizione in Ucraina, un atto che in altri contesti sarebbe stato oggetto di condanna internazionale.

La dichiarazione della Commissione Europea non affronta in buona sostanza la questione delle restrizioni alla libertà politica all’interno dell’Ucraina in guerra.

É giusto che in guerra l’opposizione venga messa fuorilegge?

La domanda cruciale oggi in Ucraina pertanto è: può un Paese essere definito pienamente “democratico” se in tempo di guerra reprime l’opposizione parlamentare e la mette fuorilegge? (PeaceLink – Alessandro Marescotti)

 

Torno a mio padre, da cui sono partito e ai pulpiti da cui mi impartiva le sue lezioni di vita: i più improbabili, i più strani ma forse i più credibili. “Da che pulpito viene la predica” si è soliti dire per screditare l’imbonitore di turno e Dio sa quanti imbonitori esistano anche oggi nella cosiddetta era mediatica. Nel mio caso, o meglio nel caso di mio padre, uno dei pulpiti era il teatro lirico.

Era un loggionista sui generis e con lui ho scandagliato il loggione di Parma, facendomi un’idea positiva, ma assai critica, di questo “fenomeno socio-culturale” parmense.

Mio padre rifiutava le ostentazioni, le presunzioni, le esternazioni volgari: andava al sodo. Molto spesso mi invitava a non farmi impressionare dai giudizi gridati, ad ascoltare e giudicare con le mie orecchie, a non cadere nella trappola del conformismo o dell’anticonformismo, ad avere un giusto senso di umiltà nel giudicare chi fa musica e chi canta, partendo dal convincimento che non si tratta degli ultimi arrivati.

Gli piaceva il clima del loggione e francamente piaceva anche a me: un ambiente attento alla sostanza dello spettacolo, molto reattivo e sanguigno. Ma non per questo ne condivideva le intemperanze gratuite e le sparate esibizionistiche.

Ebbene il discorso valeva e vale a trecentosessanta gradi. Allarghiamo il teatro da luogo di pubblico spettacolo a sede della vita: in fin dei conti, per dirla con Luigi Pirandello, non c’è poi una grande differenza.

Non fermiamoci alle apparenze, anche quelle autorevolmente e insistentemente fornite nel contesto di una narrazione sostanzialmente anti-democratica in quanto chiusa alle voci del dissenso e dell’opposizione. Proviamo a scalfire la scorza sotto la quale la realtà è almeno in parte sicuramente diversa da quella che si vuol far credere. È anche un modo per uscire dal paralizzante scetticismo che ci opprime e aprirci a qualche ossigenante speranza.