Coccodrilli senza lacrime

Viviamo immersi in un tempo in cui tutto ci appare visibile, eppure nulla ci attraversa davvero. Siamo esposti – ogni giorno, ogni ora – a notizie, immagini, testimonianze di dolore. Eppure la realtà, quella viva e drammatica, non ci scuote più. La guardiamo, ma non ci guarda. Ci sfiora, ma non ci ferisce. È come se un vetro spesso ci separasse dal mondo: vediamo tutto, ma non sentiamo più niente. Non si tratta solo di indifferenza, ma di qualcosa di più profondo, più inquietante: una forma di anestesia collettiva. Un ottundimento morale che ci impedisce di provare compassione, di lasciarci interrogare dalla sofferenza dell’altro. Non siamo diventati cinici, ma stanchi. (da “Avvenire” – Paolo Venturi)

Questo campanone d’allarme è suonato anche nella mia vita. In questi giorni, davanti alle tristissime e drammatiche realtà che ci vengono proposte, ho sentito la tentazione di scappare, di cambiare canale televisivo, di pensare ad altro, di scaricare sui governanti ogni e qualsiasi responsabilità per autoassolvermi dalla mia colpevole dimestichezza col male.

Dopo la strage di bambini inizia quella dei giornalisti: il tutto ha un filo perverso che intende legare i cervelli all’ammasso della guerra a tutti i costi. Dopo l’invasione dell’Ucraina sono paradossalmente gli ucraini nell’occhio del ciclone: in fin dei conti cosa vogliono? Non ci rompessero i coglioni più di tanto…non rimane loro che arrendersi all’invasore, affidandosi alle nostre promesse da marinaio.

Mia sorella andava profondamente in crisi di fronte alle immagini dei bimbi denutriti o morenti: si commuoveva, pronunciava parole dolcissime di compassione e spesso si allontanava dal video non reggendo al rammarico dell’impotenza di fronte a tanta innocente sofferenza. Sì, perché il cuore viene prima della mente, la sofferenza altrui deve essere interiorizzata prima di essere affrontata sul piano della concreta solidarietà e della risposta politica.

Ebbene è venuta meno questa capacità di andare in crisi e di interiorizzare la sofferenza altrui. Se non abbiamo il coraggio di immergerci interiormente nel mare di sangue che ci avvolge e restiamo sulla riva a calcolare diplomaticamente i pro e i contro, ad aspettare che qualcuno lanci le scialuppe di salvataggio, andremo tutti a fondo.

Sotto sotto proviamo vergogna nel prendere atto di situazioni per le quali abbiamo tante responsabilità dirette e indirette. È da una vita che facciamo finta che…i palestinesi siano dei terroristi, i migranti siano dei delinquenti, gli africani siano degli irresponsabili sfornatori di figli, gli abitanti dei Paesi est-europei siano la inevitabile triste propaggine del comunismo sovietico, i cinesi siano le formiche del nostro disastro geopolitico, gli americani siano i salvatori delle patrie, e via discorrendo.

Adesso da masochisti piangiamo a secco lacrime di coccodrillo per interposta persona, vale a dire con gli occhi dei nostri sadici governanti. In una stupenda commedia in dialetto parmigiano, una protagonista, ad un certo punto della vicenda, partecipa ad un funerale e al rientro a casa continua a ripetere: “Am son pràn divartidä, am son pran divartidä…”.

Forse non arriviamo a tanto, ma alla noia ci siamo già arrivati. Non ne possiamo più, non per esaurimento emotivo o emozionale, ma per (dis)umana insensibilità.  Ci distraiamo in tanti modi illusori: i fantasmi però non ci lasceranno in pace, le coscienze presenteranno il loro conto e sarà pianto e stridore di denti.