Il mesto flop partecipativo verificatosi in occasione dei cinque referendum, che sono andati ben lontani dal raggiungere il previsto quorum del 50% + 1 di votanti, impone alcune serie riflessioni in ordine alle motivazioni di chi li ha promossi e sostenuti e di chi li ha respinti o snobbati.
Ormai purtroppo la disaffezione alle urne da parte dei cittadini sta diventando cronica e tutto sommato questo fatto non disturba la nostra penosa classe politica, che trova il modo di nascondere così le proprie malefatte nonché il modo di prescindere da un vero e proprio giudizio dell’elettorato: siamo tra la rassegnazione e l’opportunismo, mentre per i cittadini siamo fra la, per certi versi comprensibile, protesta silenziosa e l’ingiustificabile menefreghismo egoistico.
Speravo che i referendum rappresentassero comunque una occasione per incanalare nelle urne la generica protesta invece purtroppo hanno vinto l’egoismo sociale e l’indifferenza, che a volte diventa persino ostilità, verso i problemi del mondo del lavoro e dell’integrazione migratoria.
Al di là del merito dei quesiti pensavo potesse essere un’occasione per smuovere le acque stagnanti della politica italiana con la possibilità di invertire la tendenza all’astensionismo e di lanciare un messaggio di cambiamento per quanto concerne la squallida azione di un governo inqualificabile, mettendolo almeno un po’ alla punta e facendogli sentire il fiato degli elettori sul collo.
Nel merito speravo che la coscienza dei cittadini venisse toccata dalla precarietà del lavoro giovanile, dalla insicurezza nei rapporti di lavoro, dalla rischiosità delle condizioni di lavoro e dalla incertezza di vita dei migranti presenti da tempo nella nostra società, invece tutti parlano di sicurezza a senso unico come se tutto potesse dipendere dalla lotta alla delinquenza, come se i lavoratori fossero delle sanguisughe e come se i migranti fossero un corpo estraneo.
Ci sono poi alcuni gatti che si mordono la coda. Mi riferisco alla scarsa rappresentatività e capacità di mobilitazione dei sindacati, che erano i promotori principali di questi referendum. É il caso di ricordare un famoso detto: “piazze piene e urne vuote”. Un conto è infatti promuovere e tenere manifestazioni pubbliche colme di partecipanti, altra cosa è intervenire nella politica e sulle leggi che da essa promanano. Anche la CGIL evidentemente non riesce a influenzare e sensibilizzare i propri iscritti che preferiscono rifugiarsi in uno sterile corporativismo.
La nostra società, pur con tutto il rispetto per la dirigenza sindacale e per Maurizio Landini in particolare, non è più contenibile nel quadro classico del rapporto di lavoro dipendente e quindi risulta una pia illusione quella di sostituire gli inconcludenti e teorici partiti con i vivaci e concreti sindacati, considerato anche il fatto che i sindacati dei lavoratori sono piuttosto trasversali rispetto agli schieramenti politici (mi risulta che ad esempio tanti iscritti alla CGIL siano di estrazione politica leghista…).
Non parliamo dei partiti di sinistra che scontano enormi ritardi nell’analisi e nella comprensione dell’evoluzione della nostra società e nella presa d’atto dei problemi reali emergenti dalle nuove povertà, preferendo rifugiarsi negli schemi sociali classici non più sufficienti a rispondere alle ansie, alle preoccupazioni e alle problematiche attuali: i referendum di questa tornata erano forse un po’ troppo caratterizzati da sociologismo datato, caricaturalmente contrastabili come rimasugli ideologici e non sufficientemente puntati e spiegati nella loro attenzione ai soggetti deboli.
C’era poi da rimuovere il macigno della incoerenza di una sinistra che tempo fa ha tentato un po’ velleitariamente di rendere flessibili i rapporti di lavoro al fine di creare occupazione (era questa per dirla in breve la logica del jobs act di renziana memoria) per poi arrivare dopo alcuni anni a rimangiarsi queste scelte dopo averne verificato l’impatto molto discutibile o addirittura piuttosto negativo sul lavoro. Sono errori e azzardi ammissibili, ma che storicamente e politicamente si pagano caro.
Sono sicuro che chi scommetteva politicamente sui risultati di questo referendum per trarne una prospettica alternativa popolare rispetto all’ultimo voto politico a livello nazionale si rifugerà nella comunque ragguardevole messe di “sì”, che, volenti o nolenti, suonano come un atto di sfiducia verso gli attuali governati e la loro maggioranza sostanzialmente basata sull’astensionismo. In dialetto parmigiano si dice: “Putost che nient è mej putost”. Un modo come un altro per non ammettere di avere perso e di avere sbagliato nel coltivare i referendum come una scorciatoia politica e una spallata al governo.
Mio padre anche in campo calcistico parmense non si lasciava troppo condizionare dai media dell’epoca. L’unica eccezione era la lettura dell’opinione di Curti, pubblicata sul quotidiano locale del lunedì, un commento essenziale ed equilibrato che finiva, quasi sempre, con la solita sconsolata espressione “un’altra partita da dimenticare”. E mio padre chiosava: “Pri tifóz dal Pärma a gh vól la memoria curta”.
Alla fine ingloriosa dei referendum si può sconsolatamente affermare: “un’altra occasione politica sciupata malamente”. Mio padre, ricorderebbe, amaramente e provocatoriamente, un famoso proverbio: “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Tra il serio ed il faceto, dava però una sua versione: “Chi è causa del suo mal pianga me stesso”. Ed infatti c’è molto di cui piangere sugli altri, ma anche su se stessi!