Donald Trump scivola nei sondaggi: il 51% degli americani interpellati in un rilevamento The Economist/YouGov ne disapprova l’operato, mentre il 43% lo approva. Lo stesso sondaggio due settimane fa aveva visto l’opinione pubblica divisa: 48% favorevoli e 49% sfavorevoli. Le due settimane hanno visto le mosse dell’amministrazione sui dazi che hanno messo le borse mondiali sulle montagne russe. Trump ha cominciato il suo secondo mandato con livelli di popolarità più alti che in ciascun punto del primo incarico da presidente. Il sondaggio ha toccato anche la questione dei dazi: il 52% è contrario alle misure adottate.
Intanto il presidente Usa, difende la sua politica tariffaria. Sta “funzionando molto bene” ha affermato nonostante la Cina abbia aumentato i dazi sui prodotti statunitensi al 125%, in una guerra commerciale tra le due maggiori economie mondiali. La portavoce Karoline Leavitt ha aggiunto che “il presidente è stato molto chiaro: quando gli Stati Uniti vengono colpiti, lui risponderà con ancora più forza”. Ieri il presidente cinese Xi Jinping ha rilasciato le sue prime dichiarazioni sulla questione, affermando – hanno riportato i media – che il suo Paese “non ha paura”. Xi ha aggiunto che l’Unione Europea e la Cina dovrebbero “resistere congiuntamente alle pratiche di intimidazione unilaterale”. Giovedì Trump aveva ribadito di voler raggiungere un accordo con Xi nonostante le crescenti tensioni. “È un mio amico da molto tempo. Penso che finiremo per trovare un accordo che sia molto positivo per entrambi i Paesi”, aveva detto e nelle ultime ore ha cercato di placare i timori sul dollaro. “Siamo la valuta preferita. Lo saremo sempre… Penso che il dollaro sia formidabile”, ha detto ai giornalisti a bordo dell’Air Force One.
Ma il nervosismo sui mercati non si calma. I controdazi della Cina contro gli Stati Uniti preoccupano e causano volatilità sulle piazze finanziarie, alimentando i timori sullo stato dell’economia globale. Le borse del Vecchio Continente hanno chiuso tutte in rosso, con Francoforte maglia nera d’Europa in calo dello 0,92%. Parigi ha perso invece lo 0,30% mentre Milano è arretrata dello 0,73%. Incerta in avvio di seduta, Wall Street ha chiuso in rialzo rassicurata dalla Fed pronta a intervenire per aiutare la stabilità sui mercati. Il Dow Jones ha segnato un aumento dell’1,56% e il Nasdaq del 2,06%. Lo S&P 500 ha guadagnato l’1,81% e archiviato la sua migliore settimana dal 2023, salendo del 5,7%. Le tensioni restano però alte sul dollaro e sul mercato dei Treasury, dove l’ondata di vendite non accenna a fermarsi facendo volare i rendimenti. Quelli sui titoli di stato a 10 anni sono saliti fino a quasi il 4,6%, mezzo punto in più rispetto alla settimana scorsa, mentre per i Treasury a 30 anni l’aumento è stato di 16 punti base a quasi il 5%. Un trend al rialzo che preoccupa gli economisti e gli analisti perché sembra indicare il trattamento dei titoli di stato americani come “asset rischiosi” e non più come il bene rifugio per eccellenza insieme all’oro. Il dollaro invece continua a perdere terreno nei confronti delle principali valute e scivola ai minimi da tre anni. (La Stampa – Redazione web)
Mentre le chiacchiere si sprecano, meglio partire dai dati oggettivi. Non accontentiamoci di stigmatizzare le turbe psicologiche di Donald Trump, non limitiamoci ad irridere ai volteggi di Giorgia Meloni nel barile internazionale, non giochiamo allo sfascio internazionale e post-valoriale.
I punti d’attacco per un discorso minimamente realistico e di qualche prospettiva mi sembrano sostanzialmente tre. Il primo riguarda la tenuta del consenso americano sulla presidenza Trump: qualcosa sembra muoversi. Può darsi che il favore popolare sia molto meno granitico del previsto e che basti qualche buccia di banana ben posizionata per metterlo in crisi. Forse alla facilità con cui si raccoglie consenso fa riscontro quella con cui lo si perde: tutto è ondeggiante e precario.
Il secondo punto è relativo alla forza economico-finanziaria e all’abilità diplomatica della Cina. Non so come se la potrà mettere Trump di fronte al regime cinese, che non ha problemi di tenuta interna e viaggia sulle ali dell’espansionismo all’esterno.
Il terzo aspetto dipende dal sistema finanziario molto complesso e refrattario alle stringenti logiche trumpiane: non bastano i ricchi epuloni insediatisi alla Casa Bianca a frenare i Lazzaro imbizzarriti e incontrollabili.
In questo bailamme internazionale manca il peso dei Paesi europei: anti-trumpiani sì ma solo un pochettino, filo-cinesi sì ma fino a mezzogiorno, uniti sì ma contro loro stessi. Non c’è la strategia dell’Unione, ma nemmeno la tattica della disunione. Occorrerebbe coraggio. Chi vieta all’Europa di tentare un avvicinamento alla Cina? Chi vieta all’Europa di varare una politica economicamente espansiva e finanziariamente innovativa? Chi vieta all’Europa di rivedere seriamente l’atlantismo nei suoi meccanismi e nelle sue istituzioni fregandosene altamente degli ultimatum bellicisti e riarmisti? Chi vieta all’Europa di farsi promotrice di un nuovo ordine internazionale tenendo conto dei Paesi sciolti e in balia dei neocolonialismi imperialistici odierni?
In estrema sintesi, ai potenti della terra, che ne fanno una più di Bertoldo, non accontentiamoci di contrapporre la trovata di genio di Bertoldo stesso consistente nel chiedere che venga esaudita la nostra ultima volontà: quella di poter scegliere la pianta a cui essere impiccati.