Biancagiorgia e la gente nana

Non c’è nulla di più insidioso per un governo di una baruffa strumentale tra i partiti di governo. E non per gli effetti politici che la lite produce ma per i danni che questa miscela corrosiva provoca nel rapporto con l’opinione pubblica. È chiaro che lo scontro dell’altro ieri in maggioranza non mette in discussione la stabilità dell’esecutivo e dell’alleanza, ma comporta intanto la perdita di una piccola quota del credito che i cittadini ripongono in chi è chiamato a risolvere i problemi e non a crearli. Giorgia Meloni è consapevole di questa condizione, primo stadio di una difficoltà che, se non venisse affrontata e risolta rapidamente, causerebbe danni molto più seri. Perché la dinamica del braccio di ferro nel centrodestra esplicita come le relazioni politiche siano prive della solidarietà che dovrebbe invece accomunare forze alleate. È evidente infatti che il taglio di venti euro del canone Rai proposto da Matteo Salvini non fosse la riduzione delle tasse che il Paese si aspetta. Semmai è parso un gesto teso a provocare il fallo di reazione di Forza Italia, perché il tema delle tv ha evocato il conflitto d’interessi e lo ha scaricato sul partito di Silvio Berlusconi sorretto oggi dai suoi eredi.

La reazione c’è stata ed è così che si è prodotto il cortocircuito in Parlamento: per la prima volta dopo due anni di governo, Meloni ha visto la sua maggioranza dividersi in un voto. E questi derby, di piccolo o grande cabotaggio a seconda delle opinioni, tolgono energie alla coalizione e distolgono l’attenzione dell’esecutivo dalle prove che lo attendono. Di più. Per Meloni inducono i cittadini a pensare che «ci risiamo», che anche stavolta sia come tutte le altre volte. Perciò la presidente del Consiglio vuole intervenire per non far passare questa tesi che considera una minaccia più di quanto oggi non le appaiano le battaglie dell’opposizione. Ma imporre una linea che sia condivisa dagli alleati vuol dire avere una soluzione che li soddisfi. Non è un problema di poltrone. Oggi il governo deve fare i conti con tre riforme che per ragioni diverse sono ancora ferme: dal premierato all’autonomia regionale, fino alla revisione del sistema giudiziario. (dal “Corriere della Sera” – Francesco Verderami)

Nel governo esistono idee confusamente diverse, dettate più da interessi elettorali che da analisi politiche. Ci sono due motivi per essere preoccupati. Il primo riguarda il non poter contare, in mezzo a mille difficoltà, su un governo degno di tale nome. Il “tanto peggio tanto meglio” non può funzionare, perché purtroppo al momento non esistono alternative, se non nella improbabile inventiva costituzionale ed emergenziale di Mattarella. Un governo fine a se stesso, equivale ad un non-governo, che è ancor peggio di un governo balordo.

Il secondo motivo di preoccupazione è relativo al fatto che la convinzione democratica del Paese è vacillante: la gente non si rende conto di quel che stiamo rischiando e tutto passa (quasi) inosservato. Non ho idea di quanto tempo occorrerà per destarsi dal sonno: solo un evento clamoroso, come fu per il covid, potrebbe dare uno scossone. I danni provocati dal governo Meloni saranno incalcolabili sul piano istituzionale, politico e programmatico. Il sindacato sta tentano di suonare la carica, ma temo finisca col provocare solo alibi repressivi e reazionari in capo al governo.

Non prendo in considerazione la portata politica dell’opposizione, tanto appare stucchevolmente modesta: stiamo interessandoci del duello fra Grillo e Conte, roba da matti! E allora? Non vedo altro che una paziente ed insistente resistenza culturale attiva a livello di base. Cosa voglio dire?  Parlare, discutere, dialogare, confrontarsi a livello di base su un piano pre-politico per affondare i colpi al momento opportuno: prima o poi non mancheranno le occasioni al di là dei dibattiti sempre più scontati e superficiali offerti dai media.