Il cosiddetto jobs act è stato il tentativo legislativo portato avanti nel 2015/2026 dal governo allora guidato da Matteo Renzi, segretario del PD, in ordine alla “disideologizzazione” e modernizzazione del mercato del lavoro, che, introducendo maggiore flessibilità, avrebbe dovuto portare a maggiore occupazione.
Non sto a incaponirmi in una demonizzazione di questo provvedimento, ma devo purtroppo prendere atto che non ha sortito gli effetti sperati e ha comportato una ulteriore precarizzazione del lavoro.
Non ho approfondito il significato e la portata dell’iniziativa della CGIL volta all’abrogazione per via referendaria delle leggi riguardanti appunto il jobs act nel suo complesso: mi propongo di farlo rispolverando anche le mie conoscenze scientifiche (?) in materia.
Per ora mi pare che possa rappresentare un bel sasso in piccionaia e solo Dio sa di quanti sassi ci sarebbe bisogno per smuovere la piccionaia di un sistema economico-sociale sempre più ingiusto e discriminatorio.
Il PD è in chiara difficoltà fra l’adesione all’iniziativa sindacale e la più o meno aperta sconfessione delle politiche portate avanti in passato dal partito in senso riformista (?). Elly Schlein ha superato perplessità e indugi, ha deciso di firmare i referendum, lasciando comunque agli esponenti del partito la libertà di aderire o meno. Si tratta della formula della libertà di coscienza allargata a temi non proprio di stretta pertinenza “valoriale”.
La posizione di Elly Schlein ha comunque immediatamente e oserei dire inevitabilmente innescato polemiche tra le componenti del partito più radicali e quelle riformiste. Forse era meglio se si fosse aperto un dibattito serio all’interno del partito per cercare una linea al riguardo, anche se ammetto la necessità di rispondere in tempi stretti alle provocazioni sindacali e del movimento cinque stelle.
Non so se questa materia possa essere effettivamente lasciata in bilico nel dibattito politico di partito e se possa diventare materia di vera e propria deflagrazione all’interno degli organismi e anche fra gli iscritti al partito.
Il partito democratico, come sostiene la segretaria, è un partito plurale che assembla opinioni diverse su temi anche rilevanti pur riconducibili ad una comune visione progressista della società. Dovrebbe essere compito della dirigenza del partito perseguire la giusta combinazione tra pluralismo culturale e linea politica. Non vedo sinceramente l’autorevolezza e la credibilità per un simile delicato ruolo né in Schlein né in altri. È l’iniziale scommessa costituente del PD, che non ha trovato risposte adeguate nella fusione fra diverse culture e storie. L’incompiutezza del processo di fusione si continua a ripresentare ad ogni piè sospinto: finora ha prevalso la ragionevolezza partitica rispetto all’istinto movimentista. Non so fino a quando. Questa accelerazione impressa da Elly Schlein potrebbe causare qualche pericolosa enfatizzazione delle divisioni.
Non nascondo che esista una sorta di revanchismo rispetto alla passata segreteria di Matteo Renzi, fomentata anche dall’interessato, che mira scopertamente a spaccare il PD per appropriarsi delle componenti più moderate. Non sono inoltre molto favorevole alle logiche referendarie, che, volenti o nolenti, non si capisce mai se tendano a supplire alle manchevolezze dei partiti presenti in Parlamento o se intendano dare ad essi un’utile scossa.
Il passaggio politico che si sta aprendo è molto delicato e merita prudenza di valutazione associata a coraggio di iniziativa: due elementi apparentemente in contrasto, ma siamo sempre lì, la politica dovrebbe essere in grado di coniugarli e renderli compatibili. Non invidio Elly Schlein, che sconta tuttavia i propri errori e soprattutto i propri limiti. Non fa parte della storia della sinistra italiana, non proviene dalle culture a monte del PD, non interpreta un comune sentire dell’elettorato potenziale di questo partito. Per sua stessa ammissione, è arrivata di soppiatto e ha vinto proprio per questo. Adesso però viene il bello… e forse non ci si può girare intorno all’infinito.