Il ping-pong sulla pelle dei disperati

Nel giorno in cui si fa un gran parlare della sconfitta sardagnola di Giorgia Meloni via Paolo Truzzu, sindaco di Cagliari, per il gusto di andare controcorrente e per la necessità di fare qualche riflessione (possibilmente a freddo), preferisco affrontare la triste e sempre più impellente contingenza del problema del suicidio assistito, rinviando ai prossimi giorni il mio commento alle elezioni regionali in Sardegna. D’altra parte si può trovare in modo piuttosto macabro e, se volete, di cattivo gusto, una certa qual analogia fra la questione drammatica del suicidio assistito in senso propriamente esistenziale e quello in senso politicamente figurato degli italiani alle prese con una destra disperante: la meloniana batosta può rappresentare la cura palliativa alternativa al suicidio assai poco assistito degli italiani alle prese con la loro deriva destrorsa? Ne parleremo! Vado per ora sul vero e delicato problema di chi vorrebbe chiudere la propria esistenza per motivi assai più seri che non lo spadroneggiamento politico della destra.

Sulla delicatissima materia del cosiddetto “fine vita” la Corte costituzionale, da un lato, tutela l’autodeterminazione del malato nel «congedarsi dalla vita» con assistenza di terzi e, dall’altro, rispetta proprio il concetto di dignità della persona che non vuole il mantenimento artificiale in vita e il diritto di rifiutarlo. La Corte pone, tuttavia, dei criteri ben precisi perché sia depenalizzato il suicidio assistito ma ci sia tutela dagli abusi. Questi i criteri per tutelare dagli abusi: la persona deve essere affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili; tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale; pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Deve esserci il rispetto della normativa sul consenso informato, le cure palliative e la sedazione profonda continua. Devono essere verificate le condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e le relative modalità di esecuzione affidata, in attesa dell’intervento legislativo, a strutture pubbliche del Ssn e sentito il parere del Comitato Etico territorialmente competente. (da quotidianosanità.it – Lucio Romano)

Il Parlamento a tutt’oggi non è stato in grado di legiferare adeguatamente e allora vige una sorta di situazione provvisoria caratterizzata appunto dai criteri fissati dalla Consulta. Quella del Parlamento è una manchevolezza gravissima ammantata di pretestuose motivazioni etiche, mentre in realtà si tratta di una cronica incapacità politica di affrontare laicamente il problema. Le regioni stanno cercando di ovviare al colpevole silenzio parlamentare con iniziative particolari volte a rendere agibile sul piano concreto quanto stabilito in linea teorica dalla Corte costituzionale.

In Veneto non è passata la legge, su cui si era impegnato il presidente Zaia, che stabiliva i modi e i tempi delle risposte ai malati, e le modalità di coinvolgimento delle Asl con tanto di squallida polemica politica trasversale.

Il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini ha cercato di evitare un “Veneto bis”, anticipando il voto d’aula con una delibera di giunta regionale che dà applicazione alla sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale. La delibera, infatti, dettaglia il percorso per il suicidio medicalmente assistito: la richiesta va inviata dal cittadino che desidera ricorrervi alla Direzione sanitaria dell’Ausl, che la passa alla Commissione di valutazione di Area Vasta, che effettuerà una prima visita al paziente. In 20 giorni questa dovrà produrre una relazione che invierà al Corec, il Comitato regionale per l’etica nella clinica. Quest’ultimo esprimerà un parere (non vincolante) entro sette giorni, mentre la Commissione stilerà la relazione conclusiva. Entro ulteriori 7 giorni, se la Commissione darà il via libera, si avvierà la procedura. Ma perché Bonaccini non ha portato la legge al voto dell’aula? «Semplicemente perché rischia di non avere voti sufficienti» osserva Valentina Castaldini, consigliera regionale di Forza Italia. (dal quotidiano “Avvenire”)

L’iniziativa emiliana ha scatenato un dibattito teoricamente interessante (?) fra palliativisti ad oltranza e possibilisti con moderazione, tra politici eticamente bloccati e amministratori laicamente disponibili: la questione rimane conseguentemente in una situazione di stallo con tante stucchevoli chiacchiere e nessun passo avanti.

La Consulta giustamente chiede al Parlamento di intervenire, il Parlamento fa orecchie da mercante etico, le Regioni si vedono costrette a coprire in qualche modo l’assenza di una normativa nazionale, ma rimangono vittime dello scontro etico-politico tra i partiti, all’interno dei partiti, nel mondo scientifico e in campo sanitario. Il tutto avviene sulla pelle di chi versa in situazioni di gravissime difficoltà psico-fisiche. Non sono un fanatico dell’iperattivismo e dell’autonomia differenziata delle Regioni, ma in questo caso mi sento di spezzare una lancia a loro favore. Tutto sommato, paradossalmente parlando, meglio il suicidio assistito a macchia di leopardo che il negazionismo opportunista e centralista.

La Chiesa Cattolica, tanto per cambiare e per (non) aiutare il legislatore e le autorità sanitarie, ci aggiunge il solito dogmatismo, mettendo del sale clericale sulla coda laica della politica. Anche il cardinale Zuppi, seppure in modo pastoralmente sofferto e teologicamente articolato, non riesce a trovare la quadra squisitamente e laicamente evangelica. Pensiamo proprio che il Padre Eterno sia così fiscale da sottilizzare davanti al dolore inumano dei suoi figli?

Scrive al riguardo Paolo Benciolini, ordinario i.q. di Medicina legale dell’Università di Padova, già presidente del Comitato Regionale di Bioetica della Regione Veneto, in un interessantissimo articolo pubblicato da “Viandanti.org”: «Devo dichiarare il mio forte sconcerto per una (categorica) affermazione contenuta nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (2020) “Samaritanus Bonus”. Nel capitolo dedicato al “discernimento pastorale verso chi chiede eutanasia o suicidio assistito, si afferma che “non è ammissibile da parte di coloro che assistono spiritualmente questi infermi alcun gesto esteriore che possa essere interpretato come una approvazione dell’azione eutanasica, come, ad esempio, il rimanere presenti nell’istante della sua realizzazione. Tale presenza può essere interpretata come complicità. Questo principio riguarda in particolar modo, ma non solo, i cappellani delle strutture sanitarie ove può essere praticata l’eutanasia, che non devono dare scandalo, mostrandosi in qualsiasi modo complici della soppressione di una vita umana”. Condivido il pungente commento di Corrado Viafora: “Si ha l’impressione purtroppo che in questo caso la logica del buon samaritano ceda il posto alla logica del sacerdote e del levita” (“Samaritanus Bonus. La dignità al centro”, Il Regno Attualità, LXV, 22/2020, p.665).

Non oso pensare cosa ne dirà chi, inchiodato ad un letto e/o attaccato a macchinari vari, desidera ardentemente soffrire meno o mettere addirittura fine alle proprie sofferenze. La palla rimbalza tra coloro che ipotizzano il “fine vita mai” e quanti non riescono a sviscerare la materia in modo da garantire i diritti ed evitare gli abusi: il ping-pong della serie “chi è disperato si tenga la sua disperazione”.

Al centro-destra (non tutto per la verità) non par vero di ergersi a paladino della difesa della vita strizzando l’occhio ai cattolici in vena di integralismo; il Partito democratico trova nel suicidio assistito il motivo per aggiungere un elemento ulteriore di litigio al proprio interno, temendo di rinunciare a quel che rimane dell’umanesimo cristiano e di trasformarsi in un partito radicale di massa (il rischio c’è a prescindere dal suicidio assistito). Il Pd fra l’altro ha da tempo una posizione unitaria possibilista sul fine vita, espressa in un disegno di legge che porta il nome di Bazoli, già approvato in un ramo del Parlamento nella scorsa legislatura: che lo riprendessero e lo portassero avanti con forza, sarebbe un modo ammirevole di recuperare identità e ruolo, ma scatterà il solito freno filo-clericale ed elettorale.