Una capo-classe senza classe

Solo una volta mio padre si prese la libertà di esprimere il suo dissenso rispetto al mio maestro di quarta e quinta elementare (persona che ricordo con tanto affetto e riconoscenza). Riferivo in famiglia, come sono soliti fare i bambini, che il maestro chiamava alla lavagna un alunno per segnare i nomi dei compagni buoni e cattivi: si diceva e si scriveva proprio così, vale a dire per segnalare chi, magari durante la momentanea assenza del maestro, si comportava in modo più o meno indisciplinato. Era una prassi decisamente discutibile sul piano etico-educativo ed umano e mio padre, senza dirlo apertamente e, quindi, senza censurare direttamente la caduta di stile del maestro (peraltro bravo, aperto e moderno), mi consigliò, in modo pacato ma convincente, di opporre, nel caso mi fosse rivolto l’invito, il mio rifiuto a contribuire a quella sciocca schedatura dei compagni di classe. Rispondi educatamente così: “Signor maestro Le chiedo di poter rimanere al mio posto e, se possibile, di non avere questo incarico”.

Si trattava di una piccola, bella e buona, obiezione di coscienza, volta ad evitare confusione di ruoli, a rispettare la dignità degli altri ragazzi, a rifiutare ogni e qualsiasi tentazione per forme più o meno velate di delazione. Capii  abbastanza bene il suggerimento paterno e non mancai di metterlo in pratica alla prima occasione: il maestro, persona molta intelligente, girò  in positivo il rifiuto di fronte alla classe,  quasi sicuramente capì che non si trattava di farina del mio sacco, trovò subito chi era disposto a sostituirmi, assorbì, è il caso di dire in modo magistrale, il colpo che non gli bastò per interrompere una prassi piuttosto generalizzata, ma non per questo meno sbagliata e insulsa, probabilmente rifletté sull’accaduto: il risultato era stato raggiunto. Da mio padre s’intende. Non ricordo neanche se riferii l’accaduto anche perché il fatto poteva considerarsi chiuso.

Ho riportato questo episodio della mia infanzia per motivare il fatto che nella mia vita non accetto chi si erge a giudice senza averne i requisiti e ancor meno chi vuol fare il primo della classe senza esserlo. La scolaretta Cocomeri fa parte di queste antipatiche ed inaccettabili categorie. Pur prescindendo, per carità di patria, dal merito di quanto dice e fa, è il tono che non mi va giù e, come diceva mio padre, «l’è al tón ch’a fà la muzica…».

Quell’atteggiamento da sbruffoncella riveduta e scorretta, quell’aggressività sintomo di estrema debolezza, quel vittimismo studiato a tavolino, quella sicurezza di sé ostentata a copertura dell’inadeguatezza lampante, quello scaricare sistematicamente sugli altri le proprie pecche e i propri errori, sono decisamente insopportabili.

Nel suo famoso pizzino Silvio Berlusconi giudicava così il comportamento di Giorgia Meloni: “1.supponente, 2.prepotente, 3.arrogante, 4.offensivo, 5.ridicolo. Nessuna disponibilità ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo”, scriveva il Cavaliere. Parole astiose ma azzeccatissime. Ho impressa nella memoria l’espressione facciale di Berlusconi: il sopracciglio alzato mentre Giorgia Meloni si autocandida a presidente del Consiglio all’uscita dai colloqui col Presidente della Repubblica (nemmeno il buongusto di farlo fare a uno dei suoi alleati/sponsor).  In quella piccola gag è detto tutto. Andrebbe vista e rivista prima e dopo tutte le pubbliche performance meloniane.

I cortigiani del ducato mantovano liquidano le sbracate impennate di Rigoletto in difesa dell’onore della figlia con le seguenti amare parole: «Coi fanciulli e coi dementi meglio giova simular…». Giorgia Meloni difende goffamente l’onore italiano e copre penosamente il suo disonore politico con le continue sbruffonate esaltate dall’opportunistico e prezzolato clamore mediatico: «Coi fanciulli e coi dementi meglio giova simular…». Con una piccola differenza: Rigoletto aveva mille ragioni per incazzarsi, mentre Meloni ha mille ragioni per fare incazzare tutti coloro che tendono all’onore del vero.