Ho seguito l’intervista rilasciata da papa Francesco al direttore del Tg1, con molta attenzione come di figlio smarrito nella tragica confusione del mondo in cui viviamo, e con altrettanto interesse, come di uomo stordito dai silenzi in ascolto dell’unica voce credibile ed autorevole nel deserto esistenziale che stiamo attraversando.
Mi sarei aspettato qualcosa di più dall’intervistatore: non ha colto l’occasione per uscire dagli insopportabili schemi mediatici ed è rimasto inchiodato ad una vomitevole routine in cui si dibatte mamma Rai. L’efficacia di un’intervista dipende molto dall’intelligenza e dalla professionalità dell’intervistatore. Ne è uscita una melassa scontata. Mi è parso che lo scopo fosse quello di devitalizzare l’intervistato, omologandolo al ruolo di mestierante del paradosso evangelico. Non doveva far male alla politica italiana e infatti così è stato.
Di ciò non faccio alcuna colpa a papa Francesco, che tuttavia dovrebbe essere più attento a non farsi strumentalizzare e soprattutto a non farsi marginalizzare. I suoi consiglieri potrebbero essere un po’ più vigilanti al riguardo. La parte più subdola dell’intervista ha riguardato il discorso migratorio. Sembrava quasi una benevola umana solidarietà per le sofferenze della premier italiana, dovute allo scherzo telefonico subito in questi giorni: il realismo papale in soccorso del “nullismo” governativo.
Ma ben altra e più profonda impressione ho ricavato: una serena ma triste ammissione di essere arrivato al capolinea del suo pontificato, di avere sparato tutte le cartucce che aveva nella sua giberna, di avere scoccato tutte le frecce al proprio arco, sia all’interno della Chiesa che nel mondo. Non riesce più ad andare oltre la pur accattivante ripetizione delle sue definizioni di principio: siamo nella fase in cui, dopo aver elaborato in modo esauriente un componimento, non c’è più niente da aggiungere e quindi si passa alla fase della sottolineatura o dell’evidenziazione.
Il pur provvisorio ed interlocutorio esito del sinodo ne è una diretta dimostrazione: da questa Chiesa papa Francesco non riesce a spremere niente di più di quanto abbia potuto ottenere fino ad ora. Non sono in grado di capire se l’imminente e immanente stallo sia dovuto ad umana stanchezza, a consapevolezza dei propri raggiunti limiti, a scontro con le resistenze conservatrici, alla solitudine evangelica del buon pastore, alla presa d’atto di un’epoca troppo complessa per essere in qualche modo indirizzata e condizionata.
Probabilmente il pontefice si sta accorgendo di avere messo troppa carne al fuoco e di non avere il forno adeguato a cuocerla nei dovuti modi a causa delle divisioni della cucina vaticana, ma anche delle complicazioni provenienti da una storia in continuo tragico divenire e sempre più difficile da interpretare.
Penso di poter individuare lo stallo in alcune questioni dirompenti e dirimenti. La guerra è sempre ingiusta, ma come dimostrarlo concretamente nelle scelte pastorali della Chiesa a tutti i livelli. L’immigrazione è la piaga costante dell’umanità, ma come ascoltare il grido disperato degli immigrati e come accoglierli concretamente. La Chiesa deve essere aperta a tutti, ma come, dopo aver spalancato le porte, si deve vivere in autentica comunione di vita con tutti, senza se e senza ma.
Papa Francesco su queste tematiche ha favorito notevoli passi avanti, ma siamo ben lontani da risultati esaurienti nel tessuto vitale della Chiesa intesa come comunità e come istituzione. L’attuale pontefice ha il merito di aver messo all’ordine del giorno questioni imbarazzanti, di avere avviato discussioni aperte e sincere, di avere posto le persone prima delle regole e delle strutture, di avere collocato il Vangelo alla base di tutto e di tutti, di avere privilegiato la semplicità del cuore rispetto alle sofisticate elaborazioni dottrinali.
Ora però viene il bello. Bisognerebbe avere il coraggio di “deregolamentare” la Chiesa, di sfrondarne e rifondarne le strutture, di ripensarla e di buttarla nel mondo senza omologarla al mondo. Ho l’impressione che nessuno abbia aiutato papa Francesco al di là degli elogi più o meno sinceri: “Va’ avanti ti c’am scapa da ríddor”. Gli abbiamo fatto portare la croce e noi ci siamo limitati a cantar messa. Forse lui se ne sta accorgendo fino in fondo e ha tratto la conclusione che sia ora che qualcun altro vada avanti. La strada è lunga, lui ha fatto il suo pezzo con grande spirito evangelico. Se è vero come è vero che la Chiesa non è solo il Papa, tocca a tutti portare la croce possibilmente senza smettere di cantar messa.