Eravamo nei primi mesi del 1969, avevo in tasca un fresco e brillante diploma di ragioniere, avevo appena incominciato a lavorare al centro elaborazione dati della Barilla, ero stato assunto in prova, c’era lo sciopero generale di solidarietà per i dipendenti della Salamini, azienda che stava per fallire. Ricordo con emozione il caso di coscienza che mi si poneva: aderire allo sciopero comportava qualche rischio non essendo ancora dipendente a titolo definitivo, gli stessi sindacalisti interni mi avevano concesso di comportarmi liberamente, i colleghi anziani facevano strani discorsi sull’opportunità di uno sciopero a loro avviso inutile, gli impiegati più scettici temevano di danneggiare ingiustamente la Barilla per colpa della Salamini. Credevo nel sindacato, nella solidarietà tra lavoratori, nello sciopero come diritto e come strumento di lotta, mi importava dei lavoratori della Salamini i quali stavano rischiando il loro posto e non mi preoccupava il fatto di creare problemi al mio datore di lavoro. Alla fine andai a lavorare col “magone” dribblando il cordone sindacale posto all’ingresso della fabbrica. In un certo senso aveva vinto l’egoismo anche se gli stessi sindacalisti non avevano preteso da me un atto di coraggio.
Mi è tornato alla mente questo piccolo episodio della mia vita in concomitanza con la riproposizione del dibattito sull’arma dello sciopero. Non mi interessa rivangare quella passata vicenda, ma sento il dovere di tornare, tramite essa, su un argomento storicamente usato dai reazionari per squalificare le battaglie sindacali bollandole come iniziative velleitarie ma soprattutto disfattiste. C’è in ballo la proclamazione da parte di CGIL e Uil di uno sciopero generale contro il governo. Il Garante ha sollevato eccezioni riguardo alla natura di questo sciopero ed alle sue modalità. Il governo si è detto pronto ad intervenire, emanando precettazioni a raffica (evviva il dialogo con le parti sociali…).
L’intervista rilasciata dal noto giuslavorista professor Pietro Ichino al quotidiano “La Stampa” mette tuttavia correttamente e intelligentemente il dito sui punti controversi, vale a dire i rapporti tra diritto di sciopero e diritto al lavoro, tra iniziativa sindacale e rappresentatività dei sindacati, tra efficacia dello strumento dello sciopero e oggetto onnicomprensivo della protesta, tra autonomia sindacale e posizionamento politico dei partiti, tra intolleranza governativa e dialogo con le parti sociali.
Nel momento storico che sta vivendo il Paese credo non sia il caso di sottilizzare, ma di valutare realisticamente come la protesta dei lavoratori debba trovare comunque uno sbocco democratico e come la piazza debba farsi sentire per evitare il peggio che si va profilando.
A tale proposito ricordo una gustosa barzelletta di quel tale che scopre la moglie a letto con l’amante e preso dalla rabbia la uccide usando un ferro da stiro. Al processo il giudice chiede conto all’imputato del perché avesse usato un corpo contundente così spropositato. Al che l’uomo risponde con estrema sincerità e grande sarcasmo: “Parchè l’era adrè ciapär ‘na brutta pìga”.
Può darsi che lo sciopero generale sia uno strumento esagerato, ma bisogna comunque tenere conto che la politica governativa sta veramente prendendo una gran brutta piega. Voglio però essere obiettivo e ammettere che restano i rischi che intravedeva mio padre e di cui bisognerebbe tenere conto, anche perché non vorrei che lo sciopero più o meno generale nascondesse prevalentemente l’ansia dei sindacati volta a recuperare consenso dopo un lungo letargo.
«I gh’ la fan» diceva mio padre fra sé, seduto davanti al video, ma in seconda fila, come era solito fare, per dare libero sfogo ai suoi commenti al vetriolo senza disturbare eccessivamente. Stavano trasmettendo notizie sulle battaglie sindacali a tappeto. Mi voltai incuriosito, anche perché, forse volutamente, la battuta, al primo sentire piuttosto ermetica, si prestava a contrastanti interpretazioni. «Co’ vot dir? A fär co’?» chiesi, deciso ad approfondire un discorso così provocatorio e intrigante. «A ruvinär l’Italia!» rispose papà in chiave liberatoria, sputando il rospo. Badate bene, mio padre era un antifascista convinto, di mentalità aperta e progressista, un tantino anarchico individualista: tuttavia amava ragionare con la propria testa e si accorgeva come a volte la strategia sindacale esageri ed esasperi le situazioni rendendole troppo conflittuali e poco costruttive.
Qualcuno penserà che stia dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Sono soltanto portato a ragionare e a riconoscere la legittimità e l’opportunità di questa pesante iniziativa sindacale senza però illudermi sui suoi risultati in un momento così complicato e delicato. In conclusione, ripiegando sul vernacolo romanesco di Trilussa, quanno ce vo’ ce vo’.