Lo sfogo di Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo: «Andrò fino in fondo, Luigi ha agito senza informarmi». Il ministro sospetta che il leader con Di Battista voglia uscire dal governo. «Questa volta non può finire a tarallucci e vino, questa volta andrò fino in fondo». La questione è semplice, a volerla guardare senza veli: Giuseppe Conte non si fida più di Luigi Di Maio. Di più, il presidente del Movimento 5 stelle è convinto che il ministro degli Esteri lo voglia disarcionare. Che intenda farlo rinunciare a guidare il Movimento.
Così scrive Annalisa Cuzzocrea su La stampa dopo le vicende pentastellate dell’elezione quirinalizia. Se tutti i protagonisti del sistema partitico ne escono malconci, ancor più di come vi erano entrati, il discorso vale in modo del tutto particolare per il M5S. Il grillismo è finito da tempo, la rivolta popolare, che aveva trovato in esso lo sfogo e la rappresentanza, si è sciolta nella pochezza oserei dire nella totale incapacità politica di questo movimento. La gente si lascia fuorviare, ma non esita a tornare sui propri passi. La crisi pentastellata è di tipo esistenziale: stare al governo e all’opposizione non ha funzionato, sedere nelle istituzioni e incarnare l’antipolitica non può reggere a lungo. San Beppe Grillo ha mostrato gli inganni e ricominciare daccapo è impresa (quasi) impossibile.
Si sono affidati a Giuseppe Conte, dietro il quale si erano nascosti durante il periodo governante, al suo stile da “coccodrillone”, al suo doroteismo di ritorno: non poteva e non può bastare. Senza storia, senza cultura, senza classe dirigente, senza legami seri col territorio non si va molto lontano. Dietro le schermaglie tra Conte e Di Maio non c’è nulla di interessante: sono due corvi che si litigano una misera preda. Conte vuole trasformare Gian Burrasca in Garrone: Di Maio vuole salvare l’insalvabile e breve storia del grillismo senza Grillo.
Non ho capito bene su cosa si siano scontrati prima e durante l’elezione del Presidente della Repubblica: probabilmente ha prevalso il minimalismo del “si salvi chi può fin che si può”, alludo alla salvaguardia della legislatura che sta per finire. Fortunatamente il tutto è servito a rilanciare la candidatura di Sergio Mattarella: tutto il mal non vien per nuocere. Adesso si è aperta la resa dei conti tra due leader di legno.
Il partito democratico dovrà riflettere su un alleato recalcitrante ed inesistente: scegliere fra una parziale caccia al voto grillino e la prosecuzione di un patto senza l’interlocutore. La crisi pentastellata rischia infatti di ripercuotersi sul cosiddetto centro-sinistra indebolendolo ulteriormente e creando confusione. Si chiude amaramente un periodo e se ne apre uno pieno di incognite. Credo non sia il caso di insistere.
Il rammarico riguarda il tempo sprecato e la delusione di tanti elettori che bene o male avevano trovato una casa in cui vivere l’antipolitica. Dietro Grillo non c’è niente, si diceva all’inizio dell’avventura: previsione azzeccata. I cessi di Mediaset restano in attesa di pulitori: così aveva sentenziato impietosamente Silvio Berlusconi, che voleva impiegare i grillini in questo “umile” compito. Rimane un dato positivo: l’elettorato raccolto da Grillo avrebbe potuto finire molto peggio. A qualcosa il M5S è servito. E ora chi lo ha votato non so dove andrà politicamente a finire. Signori, siamo al capolinea, si scende.