Mettiamo la Repubblica nelle mani dei Santi e dei Martiri

L’elezione del presidente della Repubblica del 2022 passerà alla storia per le situazioni anomale in cui avviene e che la stanno condizionando in modo decisivo e negativo. Sono tante e vanno valutate anche per tentare, nei limiti del possibile, di evitarne le tristi conseguenze.

Innanzitutto il parlamento allargato che ne sarà protagonista è un “mostro” istituzionale, in attesa di essere sforbiciato di brutto da una riforma costituzionale affrettata ed assai discutibile. Una riduzione all’osso del parlamentarismo per combattere costi, inefficienze e affarismi della politica, che lascia dietro di sé una scia di opportunismi deresponsabilizzanti: molti deputati e senatori non torneranno più sulla scena del delitto e allora tanto vale commettere qualche delitto per procacciarsi il massimo possibile dei vantaggi economici e pensionistici. Molti si stanno scandalizzando del fatto che Silvio Berlusconi, nella vergognosa ma coerente ricerca di consensi verso la sua paradossale candidatura al Colle, tenti di attingere al serbatoio grillino: i voti dei nemici giurati valgono doppio e si conquistano non in campo aperto ma in trattative inconfessabile e prosaiche. Parlamentari improvvisati, rimasti senza capo e senza coda, possono tranquillamente essere indotti in tentazione e liberarsi a suon di favori dal male che avevano individuato nell’odiato nemico.

Questo parlamento, oltre che essere istituzionalmente in bilico, non è rappresentativo degli attuali indirizzi popolari: è stato tenuto in piedi con le stampelle mattarelliane nella preoccupazione di ricorrere anzitempo ad elezioni col rischio di rendere ancor più precaria la situazione politica; forse, del senno di poi son piene le fosse, era meglio prendere il toro per le corna e tornare al voto staccando la spina ad una legislatura disgraziata. Politicamente parlando, c’era la preoccupazione che potessero cambiare gli equilibri a favore del centro-destra col rischio di rimettere la nomina del presidente della Repubblica alla mercé di un centro-destra sempre più di destra e sempre meno di centro, sempre più populista e sempre meno democratico, sempre più nazionalista e meno europeista. E ora siamo lì a fare i conti con l’armata Brancaleone dei pentastellati e con un centro-destra spiazzato e devitalizzato dal governo Draghi, ma condizionato dai bollenti spiriti di un redivivo Silvio Berlusconi e dalle confuse tattiche di un inquieto Matteo Salvini.

A fronte di un parlamento debole e inguardabile, abbiamo un Governo forte(?) e ingombrante, che col suo premier sta interferendo nella nomina del capo dello Stato, perpetuando l’opzione della tecnica al posto della politica, mettendo il Paese nelle condizioni di un gatto che si morde la coda. È indubbio che l’anomalia di un governo tecnico stia dilagando e diventando anomalia dell’intero quadro istituzionale. A complicare il discorso si è aggiunto l’atteggiamento rinunciatario di Sergio Mattarella, che giustamente non vuole fare ulteriormente il “reggicoda” di Draghi, ma che toglie al quadro, già di per se stesso complicato, l’unico elemento di chiarezza e garanzia. La gente, che capisce molto più di quanto si possa immaginare, ha colto i rischi di questo inopinato abbandono mattarelliano e fa voci e strepiti per mantenere un minimo di equilibrio alla situazione.

L’assenza della politica è poi causa effetto di una spaventosa carenza di classe dirigente: si fa molta fatica a individuare personaggi in grado di ricoprire degnamente la carica di presidente della Repubblica. Un tempo si parlava di riserva della repubblica e ad essa in passato si fece ricorso anche per nominare il capo dello Stato. Con Mario Draghi si è raschiato il barile di tale riserva. Resta solo una possibilità: quel Giuliano Amato per certi versi legato al passato inguardabile dell’affarismo craxiano, ma tuttavia dotato di qualità più che adeguate al ruolo presidenziale. La mancanza di una classe politica degna di questo nome è comunque una anomalia che ci sta condizionando e rovinando.

Aggiungiamo pure alla torta (sarebbe meglio dire alla ciambella senza buco) la tragedia della pandemia, in cui la politica sta inciampando in modo vergognosamente contraddittorio e scandalosamente evasivo: non cerchiamo un presidente che si limiti a mettere il coperchio sulla ribollente e fuorviante pentola vaccinale. Non facciamo sì che l’emergenza sanitaria copra le malefatte della politica con la benedizione del nuovo capo dello Stato. Alla gente interessa uscire dalla pandemia e non capisce la politica politicante: un motivo in più per dare ai cittadini una dimostrazione di serietà. Al momento ci siamo assai lontani.

Cosa può saltare fuori da un simile labirinto politico ed istituzionale? Non ho la più pallida idea. Ci vorrebbe un vero e proprio miracolo. Non resta che pregare i santi della politica italiana del dopoguerra: Alcide De Gasperi, Giorgio La Pira, Aldo Moro. E ancor prima i santi della Resistenza e i martiri delle battaglie per la giustizia e la pace. Dopo aver pregato, mi permetto di ipotizzare di partire dall’inizio, dalla classe dirigente, non dalla riserva della repubblica, ma da quel po’ di emergente che il Paese evidenzia al riguardo. Insisto sul sindaco di Milano Giuseppe Sala (non sto a ripetere i motivi di questa, per certi versi estemporanea, opzione: ne ho scritto in un precedente commento a cui rimando). Con lui non si partirebbe in quarta, ma in prima, come è giusto fare, senza che la fretta sia cattiva consigliera e senza rischiare di rovinare del tutto la logora macchina che ci è rimasta.