La lotta al covid prescinde dalla carità

“Covid. Dallo stop al catechismo ai controlli. Nelle diocesi è l’ora della prudenza. L’impennata dei contagi modifica l’agenda ecclesiale. La sospensione degli incontri per i ragazzi. Green pass per le attività parrocchiali. I casi di non far distribuire l’Eucaristia ai non vaccinati”. Così il quotidiano Avvenire sintetizza l’atteggiamento della Chiesa di fronte alla recrudescenza pandemica.

Dal momento che “si vive anche di ricordi”, la mia memoria, chissà perché, mi rimanda ai rapporti burrascosi o freddi, strani o eterei, intercorsi, direttamente o indirettamente, con la Gerarchia cattolica parmense ai massimi livelli.  Non ritorno su vicende passate: non è il caso di rivangare polemiche ed esperienze negative. Mentre mia sorella Lucia mi ha insegnato e testimoniato una partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale, io ho stravolto il suo insegnamento, partecipando poco e criticando molto. Questo mio atteggiamento mi ha costretto in uno splendido isolamento con rare anche se fondamentali eccezioni a livello clericale e laicale: ho vissuto uno stupendo rapporto con pochi ma carissimi amici preti e laici, che bontà loro, hanno capito la mia buona fede nella critica e la mia ansia di carità nella pur distaccata ed episodica partecipazione alla comunità.

Cosa c’entra tutto ciò con l’atteggiamento prudenziale della gerarchia cattolica in merito al covid? Il fatto che la lettura delle burocratiche misure adottate abbia toccato un nervo scoperto inerente il mio rapporto con la Chiesa la dice comunque lunga, anche se voglio farla breve. L’approccio è purtroppo sempre lo stesso: prima vengono le fredde cautele burocratiche e poi i caldi rapporti con le persone. Come se Gesù, prima di guarire i lebbrosi, anziché toccarli, li avesse tenuti a debita distanza per paura che fossero contagiosi (e lo erano veramente!).

Un simpatico, acuto ed ironico sacerdote ha recentemente ridicolizzato le preoccupazioni clericali in ordine alla partecipazione all’eucaristia in clima pandemico: “L’importante è sanificarsi le mani, indossare la mascherina, rispettare le distanze. Poi, se uno non si confessa da dieci anni e/o pensa ai fatti suoi durante la celebrazione, non ha alcun rilievo…”.

E le persone lasciate morire sole come i cani? E il divieto di fare visita in ospedale ai propri cari? E la dimensione caritativa all’interno della lotta al virus? Tutto lasciato ai pochi o tanti eroi che bazzicano come assistenti religiosi le corsie degli ospedali? Beata la Chiesa che non ha bisogno di eroi, ma che predica e pratica l’eroismo della carità cristiana! Il bollettino comportamentale varato dalla gerarchia ha il sapore di un freddo e burocratico dpcm, niente di più e niente di diverso.  Se mi chiedessero: “Hai letto le direttive della Chiesa in materia di covid?”, non esiterei a rispondere: “Ho avuto l’impressione di leggere una circolare del ministro della salute!”.

Forse l’ho presa su un po’ troppo alla larga, forse sono stato, per l’ennesima volta, impietoso verso le gerarchie cattoliche locali e periferiche, ma sono arrivato al dunque: la Chiesa vuol fare o no il proprio “mestiere”, quello di predicare e praticare il Vangelo? Tutto il resto lasciamolo ai pubblici poteri, che di regole ne fanno già anche troppe.

Quando a mio padre rimproveravano di essere esageratamente permaloso di fronte a certe espressioni, era solito affermare convintamente: «L’ è al tón ch’a fà la muzica…». Il tono dei pronunciamenti anti-covid da parte dei vertici della Chiesa, da cui sono partito, fa una gran brutta musica: la freddezza che smorza sul nascere ogni e qualsiasi bisogno di aiuto e comprensione.

Ho citato mia sorella Lucia, persona cattolica, umile nella sua fede ma orgogliosamente spinta nella sua verve critica; voglio fare riferimento anche ad un altro grande maestro amico, Gian Piero Rubiconi, il cui ricordo mi accompagna e mi sostiene. Non ho mai capito e, per la verità non ho mai cercato di capire, fin dove si spingesse la fede di Gian Piero a livello religioso, se fosse credente, diversamente credente, ateo. Il suo atteggiamento di fronte alla religione lo colloco all’interno di due piccole ma significative coordinate. Un giorno ebbe a dirmi: «Non ho dubbi, il vangelo è il più bel libro che sia mai stato scritto…». A cosa intendesse alludere veramente non ebbi l’ardire di chiederlo.  Un’altra volta assistemmo silenziosamente ad un episodio sgradevole. Eravamo andati a colloquio, sui problemi culturali parmensi, con un pezzo grosso della curia diocesana. Nel chiostro del vescovado, appena prima di entrare nel salottino in cui saremmo stati ricevuti, si fece vedere un accattone che stando in disparte chiedeva l’elemosina. L’altolocato sacerdote mise sbrigativamente una mano in tasca, ne estrasse una monetina e la lanciò al poveraccio che si precipitò a raccoglierla. Né più né meno come si fa gettando un osso ad un cane. Al momento non facemmo alcun commento. Passò qualche giorno e Gian Piero, dopo avere evidentemente riflettuto sull’episodio di disgustosa indifferenza verso “i poveri cristi” da parte di chi in essi dovrebbe vedere Cristo, mi disse con alquanta indignazione: «Hai visto, l’altro giorno in vescovado? che roba! Non è possibile…». Da credente e praticante risposi amareggiato: «Vedi Gian Piero, non giudicare la Chiesa da questi assurdi comportamenti, la Chiesa non è quella…». «Certo, ho capito cosa vuoi dire, ma comunque…lo scandalo rimane…». Il discorso finì lì. Lasciammo perdere, ma aveva ragione da vendere.