“Crescono le tensioni nella maggioranza per le misure anti-Covid e il voto sul Colle. Il capo del governo cambia strategia: non parla in pubblico e appare meno forte”. Così scrive Federico Geremicca su La Stampa. La sensazione è questa: fintanto che si può giocare in casa – vale a dire economia soprattutto nei rapporti con la Ue – tutto va ben madama la marchesa, ma quando si affrontano le trasferte politiche – vale a dire politica soprattutto nel tenere legata una maggioranza composita e sfilacciata – casca l’asino.
Temo che dietro un decisionismo di facciata si celi una titubanza di fatto. Si pensi ai tira e molla sull’obbligo vaccinale e su tutte le misure anti-covid, si pensi ai golosi tentennamenti sulla presidenza della Repubblica, si pensi ad un governo che sta dimostrando tutta la sua debolezza alla faccia di un premier così forte che più debole non si può.
Da mesi Draghi avrebbe dovuto chiarire di non essere minimamente interessato a salire al Colle, smorzando sul nascere ogni e qualsiasi balletto al riguardo e precisando di voler rimanere al proprio posto di combattimento. Invece è tutto un non dire che lascia intendere una voglia matta di fare il salto, tutto un ammiccare battutista che sa tanto di strizzata d’occhio alla politica, che, da parte sua, non sa che pesci pigliare. Da lui sinceramente non me l’aspettavo!
Tutto il draghismo si sta sciogliendo come neve al sole. Anche in materia pandemica abbiamo il (quasi) nulla dietro la figura del generale Figliuolo. Sono mesi che si gira intorno all’obbligo vaccinale, ammesso e non concesso che possa essere la carta efficace nella lotta al virus: possibile che una ministra come Marta Cartabia, costituzionalista provetta, persona ferrata come non mai in materia giuridica, in tutto questo tempo non abbia studiato i profili giuridici di un problematico obbligo vaccinale, lasciando che il governo arrivasse al dunque per forza d’inerzia, tardi nei tempi, in modo opaco nel metodo e sconclusionatamente nel merito? Se questa è la potenza della tecnica, preferisco di gran lunga la debolezza della politica.
Ricordo come, agli albori del governo Draghi, il filosofo Massimo Cacciari avesse evidenziato come, per avviare un percorso di riforme tanto radicali come quelle richieste dalla Ue oltre che dal drammatico passaggio storico che stiamo vivendo, ci sarebbe voluto un governo Moro-Berlinguer. Confesso che mi irritai pensando: dal momento che i Moro e i Berlinguer non esistono più, bisogna accogliere coi dovuti modi i Draghi. A distanza di qualche mese comprendo cosa volesse dire Cacciari: la politica non può essere bypassata, quando ci vuole, ci vuole. Il tempo gli sta dando ampiamente ragione.
Il problema non è tanto parlare o non parlare in pubblico: Giuseppe Conte parlava troppo, Mario Draghi all’inizio taceva poi ha cominciato a parlare, non sempre a proposito. Quando le situazioni sono difficili e ingarbugliate, a parlare si sbaglia sempre. A Mario Draghi non imputo quindi reticenza, semmai titubanza non tanto nel parlare, ma nell’agire. Non bastano l’esperienza e la preparazione tecnico-professionale, non basta l’autorevolezza acquisita nel tempo, non bastano il consenso popolare e mediatico, non bastano gli applausi parlamentari. La politica è un’arte e per esercitarla bisogna essere artisti. Purtroppo Mario Draghi non è tale. Finirà al Quirinale? Lo ammetto con un velo di delusione rispetto alle speranze che nutrivo: io non sono nessuno e sarò presuntuoso, ma da lui mi aspettavo molto di più. Veda di rimediare restando a Palazzo Chigi…