Non ho particolari simpatie per gli esponenti della gerarchia vaticana, in carica o in pensione che siano, non mi curo molto delle loro opinioni in materia di fede, figuriamoci in materia civile, quindi ho ascoltato con molto distacco quanto affermato da monsignor Carlo Maria Viganò in materia di pandemia. Ho cercato di non farmi influenzare dai suoi discutibili trascorsi, che non voglio assolutamente richiamare, ho valutato senza pregiudizi quanto da lui dichiarato con un linguaggio tutt’altro che felpato come usano fare i suoi colleghi (e questo forse è un suo merito).
Vado alla sostanza, sfrondandola dall’enfasi polemica e provocatoria comprensibile, ma stucchevole, adottata dal vescovo in pensione. Al di là delle iperboliche asserzioni ha espresso sostanzialmente tre concetti. Ha parlato di psicopandemia forse non tanto per negare il covid 19, ma per stigmatizzare il panico indotto sulla gente già sufficientemente spaventata. Ognuno ha soffiato sul fuoco per diversi motivi: i pubblici poteri per coprire i loro ritardi e le loro contraddizioni; gli scienziati per confermare le loro scarse e contraddittorie teorie; i media per essere protagonisti dell’emergenza con tutti i vantaggi del caso.
In secondo luogo ha dato voce ad un convincimento che aleggia fra le persone dotate di un po’ di spirito critico: ci hanno ingannato per quasi due anni, raccontandoci cose che non corrispondono alla verità o quanto meno, aggiungo io, cose che non possono pretendere di costituire la verità assoluta. Mai come in questo periodo si è capito che la verità non ce l’ha in tasca nessuno anche se si è venuta a creare una sorta di pensiero unico, inaccettabile da tutti i punti di vista e facilmente smontabile alla luce dei tira e molla continui che ci vengono propinati. Ragion per cui ha preso atto con una certa sarcastica soddisfazione che una parte della gente è stanca e protesta.
Ha poi sparato contro i media di regime, che tacciono sistematicamente e legano l’asino dove vuole il padrone, salvo cambiare opinione non appena cambia il padrone. Il comportamento dei media in questi due anni è stato effettivamente inqualificabile o meglio squalificabile per superficialità, strumentalità, opportunismo e conformismo.
Ho cercato di cogliere il significato delle accuse rivolte da monsignor Viganò, sfrondandole dal comprensibile ma inopportuno livore di stampo più anarchico che evangelico. Da tempo esprimo dubbi e perplessità in gran parte coincidenti con le sue idee e quindi non mi sono né sorpreso né scandalizzato. Non intendo qui ritornare su concetti e ragionamenti riconducibili ai miei numerosi dubbi a confronto con le ostentate certezze circolanti. Con me monsignor Vigano ha sfondato una porta aperta.
Mi ha infastidito l’aria sussiegosa con cui i giornalisti hanno riportato il fatto, tendendo ad accreditarne, seppure tacitamente, una versione caricaturale: la smettano ed imparino a fare il loro mestiere con correttezza ed obiettività. Tutto ormai è mediaticamente plasmato e quindi lor signori si sentono i padroni del vapore. Guai a chi li tocca nel vivo.
Una cosa mi è rimasta però in gola e la debbo sputare: la vomitevole reazione di Bruno Vespa, che ha commentato la performance di Viganò con un penoso “che Dio lo perdoni”. Una simile presunzione, da parte di un operatore mediatico che ha brillato nella sua vita per “leccapiedismo” nei confronti dei potenti di turno, non la posso accettare. Anche ammettendo che monsignor Viganò, parlando fuori dai denti, abbia commesso qualche peccato, a Vespa, che evidentemente deve essersi sentito addosso le critiche del vescovo pensionato, vorrei ricordare quanto dovrebbe rispondergli Dio stesso: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Io, che non sono Dio, dico a Vespa di andarsi a nascondere, come è solito fare, all’ombra di chi comanda e di guardarsi allo specchio per verificare che Viganò non ha tutti i torti.