È, almeno per me, consolante e incoraggiante vedere i responsabili delle nazioni riuniti per dialogare sui problemi del pianeta in un clima umanamente e simpaticamente disteso. Lasciamo perdere il fatto che in queste occasioni ci sia un’eccessiva ritualità, una spettacolarizzazione nella mobilitazione delle misure protettive, un certo e lussuoso spreco di risorse, una penosa mobilitazione mediatica.
Mio padre avrebbe detto con riferimento alla cena di gala offerta al Quirinale: «Co’ garani dè da magnär? Dò sigòlli da po pociär?». Poi però avrebbe sicuramente aggiunto: «Mej acsì. Is càton insèmma par ciciarär e magnär e… sperama chi tenon lontán il guéri».
La politica anche e soprattutto a livello internazionale può adottare infatti la chiave conflittuale o quella solidale, basarsi sull’intolleranza o scommettere sull’integrazione e sulla solidarietà.
Richiamando la battuta di mio padre più volte citata “s’a t’ tén la man saräda a né t’ cäga in man gnan ‘na mòsca “, bisognerebbe nel primo caso stravolgerla in “s’a t’ tén la man saräda nisón a t’ gnirà a rompor i cojón”.
La politica, scegliendo la prima strada, prende atto degli egoismi individuali e sociali, se ne appropria, li coltiva, li promuove anche e soprattutto a livello mediatico e li trasferisce sul piano legislativo, amministrativo e persino istituzionale. Faccio solo un esempio: pensare di risolvere il problema dell’immigrazione creando barriere, mettendo paletti, respingendo i flussi (regolarli in un certo modo vuol dire respingerli: se io fisso una regola con la quale ammetto in casa mia le persone alte più di due metri non potrò dire di essere ospitale. Viene in mente il cartello esposto in certi negozi in cui si fa credito ai novantenni accompagnati dai genitori). È illusorio oltre che ingiusto, se non addirittura, a volte, masochistico.
Questa deriva conflittuale viene presentata come linea difensiva dei valori (quali sono i valori che prendono spunto dall’egoismo?), delle regole (quali? Quelle assurde dette in precedenza? Quelle che partono sempre dall’anello più debole della catena? Quelle che risolvono il problema negando che esista?) e del vivere civile (e cosa vuol dire che chi è in difficoltà non deve disturbare?).
Ho detto due strade: la seconda è quella solidale, che al conflitto preferisce l’integrazione, alla difesa l’apertura, al rigorismo il dialogo, e via di questo passo. Avrete capito che io mi sento di aderire a questa mentalità prima ancora che a questa linea politica: della “mano aperta” che proclamava e praticava mio padre.
Oggi si chiama multilateralismo: un insieme di azioni o comportamenti coordinati di Stati o altri soggetti di relazioni internazionali che coinvolgono almeno 3 interlocutori. Si contrappone all’unilateralismo e al bilateralismo sia dal punto di vista quantitativo (numero degli attori coinvolti in questioni di rilevanza internazionale) sia da quello qualitativo. Il multilateralismo consiste nell’orientamento ad assumere politiche comuni e coordinate in luogo di decisioni unilaterali o azioni bilaterali. Accordi multilaterali precisano le modalità per l’attuazione di azioni comuni mediante la creazione di codici di comportamento, regole, norme e istituzioni cui vengono attribuiti poteri gestionali e decisionali al fine di concretizzare gli accordi.
Il recente G20 celebrato a Roma, bene o male, si inserisce in questa logica partendo dal presupposto, se non ideale almeno pragmatico, che nessuno può bastare a se stesso, nessuno può illudersi di risolvere i problemi in proprio senza confrontarsi e collaborare con gli altri. Sembrerebbero discorsi scontati, ma la storia è stata ed è tuttora carica di esempi in grave controtendenza rispetto a questo presupposto.
Che il nostro Paese sia convinto promotore di questa linea di politica internazionale deve essere di grande soddisfazione. Certo di chiacchiere se ne fanno molte e ad esse non sempre corrispondono concreti comportamenti. Meglio però chiacchierare di pace che concretizzare le guerre.