Un conto è parlar di voto, un conto è votare. Così si può spiegare la schizofrenica dicotomia esistente nel raffronto fra i dati certi, seppur parziali, emergenti dalle urne della recente consultazione amministrativa e quelli ipotetici propinati dai sondaggi in vista di eventuali elezioni politiche generali. Infatti, mentre il voto espresso nei comuni ha registrato un netto successo del Partito Democratico, una inarrestabile discesa del M5S ed una pesantissima sconfitta del centro-destra, i sondaggi confermano il prevalente consenso dei cittadini intervistati verso i partiti di centro-destra, soprattutto FdI, primo partito in graduatoria, e Lega, comunque attestata oltre il 20%, mentre Forza Italia naviga su uno striminzito 7%. Complessivamente la contraddittoria e conflittuale coalizione di centro-destra sfiora il 50% dei consensi. Il M5S manterrebbe comunque un ragguardevole serbatoio di voti. Il PD non prenderebbe alcun volo, rimanendo inchiodato sotto il 20%.
Qualcuno fa riferimento a precedenti vicende storiche, peraltro poco paragonabili alla situazione politica odierna, per giustificare un comportamento elettorale diversificato dei cittadini: da una parte pragmaticamente costretti a scegliere i loro amministratori municipali e dall’altra propensi a giudicare la classe politica in base a discorsi di carattere generale se non addirittura in base a schemi ideologici.
Sono portato a dare scarso significato e discutibile attendibilità ai sondaggi: sono più un modo per influenzare che per registrare le tendenze. Tuttavia rimane un punto interrogativo da sciogliere. Un motivo potrebbe essere quello di un maggior radicamento territoriale e di una maggiore adeguatezza di classe dirigente nel partito democratico rispetto alla infatuante vaghezza dei punti d’attacco della destra, messi peraltro in discussione dal clima pandemico dominante. Questa spiegazione non regge però se si consideri che la recente batosta elettorale amministrativa ha colpito molto anche la Lega, dotata di un indiscutibile collegamento territoriale e sociale nonché di una dirigenza periferica piuttosto collaudata.
Alcuni osservatori danno una certa importanza alle divergenze parallele del centro-destra nei confronti del governo Draghi. Forza Italia è più draghista di Draghi; la Lega sta con un piede dentro e uno fuori per accontentare il suo tessuto imprenditoriale nordista e per accarezzare la piazza in subbuglio; FdI sta decisamente all’opposizione cavalcando, non senza qualche ragione plausibile, tutte le proteste possibili e immaginabili. Gli elettori nel breve periodo avrebbero penalizzato queste divisioni tattiche in attesa di ridare fiato alle convergenze parallele di tipo strategico.
Lega e FdI vorrebbero comunque passare in fretta alla cassa per monetizzare i consensi emergenti dai sondaggi tramite la promozione di Mario Draghi al Quirinale, la conseguente fine del governo tecnico e l’immediato ricorso alle urne per ridare al Paese un governo politico. Berlusconi fa il pesce in barile, non si capisce dove voglia e possa parare: probabilmente intravede la possibilità di favorire e guidare un raggruppamento di centro europeista e moderato capace di condizionare il risorgente bipolarismo.
Il M5S a guida (?) Giuseppe Conte sfoglia la margherita: col Pd o contro il Pd, con la politica o con l’anti-politica, al governo o in piazza. Il serbatoio elettorale di questo partito, pur in gravissimo calo, sembra tenersi intorno ad un 16%, percentuale di per sé tutt’altro che irrilevante e disprezzabile.
Il Partito democratico, per dirla con le parole di un Enrico Letta piuttosto soddisfatto, prende atto di un trionfo nei comuni senza illudersi di portare avanti un cammino trionfale verso le prossime elezioni politiche. La prospettiva di un centro-sinistra aperto e allargato esce bene dalle urne municipali, ma non trova facile riscontro nei possibili interlocutori, inclini a rifiutare il ruolo di meri cespugli.
Sondaggi a parte, qualcosa è cambiato. Tutti i partiti ne dovranno tenere conto. Cambierà il Presidente della Repubblica, forse il cambiamento più grosso e pieno di incognite. Sarà un presidente continuista che porterà il governo Draghi alla scadenza del 2023 o sarà un notaio che vorrà rimettere a posto il sistema politico, privilegiandolo rispetto a quello istituzionale e socio-economico? I cittadini hanno detto la loro, seppure in periferia e solo in una parte del territorio. Probabilmente la politica che a parole vorrebbe fare i conti con gli elettori, quando gli elettori presentano il conto, preferisce mandarlo indietro o rinviarlo a data da destinarsi (a breve o lunga scadenza a seconda dei vantaggi di parte), rifugiandosi nei sondaggi.