Nell’aprire i lavori del sinodo sulla sinodalità (uno scioglilingua abbastanza eloquente sulla inconcludenza di queste occasioni ecclesiali regolarmente sprecate) papa Francesco ha dimostrato la solita lucida e coraggiosa analisi della Chiesa. Riporto di seguito un brano del suo intervento iniziale.
“Il Sinodo, proprio mentre ci offre una grande opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria e anche ecumenica, non è esente da alcuni rischi. Ne cito tre. Il primo è quello del formalismo. Si può ridurre un Sinodo a un evento straordinario, ma di facciata, proprio come se si restasse a guardare una bella facciata di una chiesa senza mai mettervi piede dentro. Invece il Sinodo è un percorso di effettivo discernimento spirituale, che non intraprendiamo per dare una bella immagine di noi stessi, ma per meglio collaborare all’opera di Dio nella storia. Dunque, se parliamo di una Chiesa sinodale non possiamo accontentarci della forma, ma abbiamo anche bisogno di sostanza, di strumenti e strutture che favoriscano il dialogo e l’interazione nel Popolo di Dio, soprattutto tra sacerdoti e laici. Perché sottolineo questo? Perché a volte c’è qualche elitismo nell’ordine presbiterale che lo fa staccare dai laici; e il prete diventa alla fine il “padrone della baracca” e non il pastore di tutta una Chiesa che sta andando avanti. Ciò richiede di trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via.
Un secondo rischio è quello dell’intellettualismo – l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte –: far diventare il Sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di “parlarci addosso”, dove si procede in modo superficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo.
Infine, ci può essere la tentazione dell’immobilismo: siccome «si è sempre fatto così» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 33) – questa parola è un veleno nella vita della Chiesa, “si è sempre fatto così” –, è meglio non cambiare. Chi si muove in questo orizzonte, anche senza accorgersene, cade nell’errore di non prendere sul serio il tempo che abitiamo. Il rischio è che alla fine si adottino soluzioni vecchie per problemi nuovi: un rattoppo di stoffa grezza, che alla fine crea uno strappo peggiore (cfr Mt 9,16). Per questo è importante che il Sinodo sia veramente tale, un processo in divenire; coinvolga, in fasi diverse e a partire dal basso, le Chiese locali, in un lavoro appassionato e incarnato, che imprima uno stile di comunione e partecipazione improntato alla missione”.
Sono decisamente stanco di ascoltare belle parole dal papa, regolarmente disattese nella prassi ecclesiale di livello vaticano e non solo. Quanto al formalismo, la dimostrazione si è avuta immediatamente nel giorno successivo con la solita spettacolare celebrazione liturgica: un autentico pugno nello stomaco del Sinodo, devitalizzato in partenza, ridotto a lussuosa, pomposa ed oceanica adunata clericale. Se tanto mi dà tanto…
Per quanto concerne l’intellettualismo, c’è troppa gente che chiacchiera nei salotti teologici e poca che lavora nella messe: sono molti i progettisti e pochi gli operai. Non sarà il caso di smetterla di ridurre la Chiesa ad una cerchia di esperti al di sotto della quale collocare un popolo di pecoroni? Verranno sfornati documenti sinodali, che resteranno lettera morta come quelli conciliari. Gesù non era un intellettuale e non si circondò di intellettuali, non scrisse niente di teorico, parlò in dialetto e operò a contatto con la gente. Il papa dice che il sinodo non deve essere una convention ecclesiale: staremo a vedere…
Rivado alla vita di mio zio Ennio sacerdote, negli anni trenta e quaranta del secolo scorso. I report, che i responsabili della scuola di Teologia, frequentata da lui, inviavano alla Curia Vescovile di Parma, contengono, in mezzo ai giudizi sul profitto, una osservazione critica sulla sua condotta: era un po’ distratto. Ebbene, si dirà, può capitare a tutti di distrarsi durante le lezioni più impegnative e dure da digerire. Non si trattava di questo, don Ennio non leggeva cose profane e non si perdeva a guardare fuori della finestra, come fanno gli allievi in vena di evasione intellettuale. Era al contrario troppo attento, ma ai problemi dei ragazzi di borgata coi quali trascorreva parecchio tempo ed ai quali dedicava il cuore dopo aver rivolto la mente agli insegnamenti teorici. Criticandolo, seppure in tono garbato, gli facevano, a mio giudizio, il più bello degli elogi. Era portato ad interessarsi degli emarginati, soprattutto i bambini: era vicino agli ultimi in stile prettamente evangelico. Quando gli proposero un incarico pastorale in cui rischiava di prevalere la cura di interessi economici, pur legittimi, a livello di benefici parrocchiali, preferì declinare l’invito per dedicarsi ad incombenze di ben più “alto” respiro. Le sue scelte don Ennio le fece, riuscendo a coniugare teologia e solidarietà a favore dei poveri e dei giovani, riuscendo a miscelare impegno ecclesiale e impegno civile.
Da ultimo e non ultimo l’immobilismo: è sotto gli occhi di tutti, i soliti riti, le solite parate, i soliti dibattiti, il solito centralismo, il solito burocratismo, il solito clericalismo. Le novità sono “marce patocche”, ma non arrivano mai. Non faccio esempi, perché temo di rendermi scontato al limite del ridicolo.
Il cardinal Carlo Maria Martini, profeta, alla vigilia della sua morte, diceva: «Dove sono le persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove». Il cardinal Martini era stato in odore di papato durante il conclave che sboccò nella nomina a pontefice del cardinale Ratzinger. Si disse che Martini si ritirò dallo scontro elettorale per motivi di salute. Qualcuno vide un atto di responsabilità nel non mettere la Chiesa in un vero e proprio scontro. Qualcun altro sostiene che venne stipulato una sorta di patto (il lodo Cantalamessa), regolarmente violato da Benedetto XVI e dalla sua “cricca” curiale. Quando leggo e rileggo il pensiero di Martini e ricordo il suo stile pastorale, concludo che non avrebbe mai potuto diventare papa. Perché? Troppo avanzato per una Chiesa di perpetua retroguardia! Bergoglio sembrava avere ricevuto da Martini il testimone: comincio ad avere seri dubbi. Forse gli manca il carisma, forse il coraggio, forse lo torturano. Badateci: la sua bianca tonaca è lisa e ingiallita nella parte inferiore. Il logorio dovuto alle continue attenzioni curiali: la stiracciano in continuazione. E lui…