La deriva parolaia dell’anti-calcio

Il fenomeno calcistico è ormai costretto a vegetare fra due confini uguali e contrari: da una parte il bisogno sempre maggiore di soldi a fronte di un ambaradan incontrollabilmente spendaccione e dall’altra l’inflazione di chiacchiere che ormai copre la voce sportiva e spettacolare del calcio giocato. Una sorta di magro gatto pallonaro che si morde la coda parolaia.

Mio padre era un pragmatico profeta: per evitare accuratamente le scorie accumulate pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

E il prepartita? Grazie a Dio, non era fatto delle odierne chiacchiere assurde di schiere di commentatori prezzolati o dei rituali tafferugli tra gruppi di tifosi, ma era costituito dall’osservare da vicino il riscaldamento degli atleti di “casa”, i miei beniamini (mi accontentavo di poco rispetto alle star superpagate di oggi), negli spiazzi intorno alle gradinate. Mio padre accondiscendeva a costo di perdere qualche buona posizione sulle gradinate di curva e sopportando un piccolo quanto innocuo cedimento al divismo: non ricordo con precisione, ma credo che qualche volta, per conferire una punta di umanità alla scena, mi abbia supportato nello stringere la mano a quelli che lui sapeva essere i miei “preferiti” (ricordo con tanta nostalgia Beppe Calzolari fra tutti). Allora tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.

Oggi le chiacchiere la fanno da padrone prima, durante e dopo la partita: il mezzo televisivo che dovrebbe valorizzare al massimo le immagini è ridotto al tourbillon di commenti stereotipati di una schiera interminabile di soggetti capaci di rovinare il bello della diretta e di introdurre la penosa elaborazione dell’ovvio (forse non è un caso che l’intercalare asfissiante dei discorsi sia proprio l’avverbio “ovviamente”).

Il calcio è uno sport di squadra e allora cosa c’è di tanto originale nel fatto che la forza di una squadra di calcio stia nel gruppo o nel collettivo? Salvo poi estrapolare i divi in campo e metterli a confronto in una sarabanda mediatica teorica e fuorviante. Vincerà Ronaldo o Lukaku a prescindere dalle squadre a cui appartengono?! E infatti sono entrambi usciti dalla competizione nonostante la loro bravura.

Il calcio è bello perché è imprevedibile: il più debole può mettere in difficoltà e prevalere sul più forte. E allora che senso ha ricercare in modo parossistico la funzionalità degli schemi di gioco e puntare su teorizzazioni che vengono regolarmente smentite nello spazio di alcuni istanti. Quante volte capita di osservare come la squadra che viene considerata prevalente nel gioco sia immediatamente destinata a soccombere per uno strano episodio, che butta all’aria tutte le previsioni e le constatazioni.

Le partite si decidono a centro-campo. Mia madre, nella sua ingenua e simpatica verve critica, pensava che giocare a centro-campo significasse rimanere rigidamente nel cerchio disegnato sul terreno di gioco, così come si chiedeva se il goal fosse valido quando la palla entra in porta e poi esce.  Mio padre, molto più smagato, sosteneva che per vincere le partite bisognava tirare in porta con insistenza e coraggio: “Se net tir miga in porta sarà difficil cat fag goal…”. Gli stucchevoli teorici del centro-campo erano serviti e umiliati nelle loro assurde farneticazioni tattiche.

Loro sono forti, ma noi vogliamo batterli. Altro approccio scontato e ridicolo alla gara. Ci mancherebbe altro che qualcuno giocasse per perdere…anche se a volte viene qualche sospetto, che poi magari diventa certezza…

Un rosario di sciocchezze propinato ad una platea imbambolata dalle chiacchiere: aggiungete la retorica dell’amor di patria o di club, le lisciate al pelo delle tifoserie, gli osanna spropositati al vincitore di turno, i sentimentalismi fuori luogo, le reiterate moviole, le discussioni fra addetti ai (non) lavori per arrivare al disgustoso salotto, che fa di tutto per rovinare il più bel gioco del mondo.

Forse sarebbe il caso di riprendere le drastiche esclamazioni di mia madre di fronte alla baraonda degli uomini che ruotano attorno al calcio: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”.  Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente ed in effetti qualche importante cedimento ha cominciato a verificarsi.