Il delirar non vale

Il nuovo allenatore della Roma José Mourinho è arrivato nella Capitale nel primo pomeriggio. Ad attenderlo all’aeroporto di Ciampino centinaia di tifosi che hanno sfidato il gran caldo e lo hanno accolto con cori e applausi. Lo Special One ha lasciato l’aeroporto in automobile, salutando i supporter agitando una sciarpa giallorossa. Successivamente ha raggiunto il centro sportivo di Trigoria. Qui Mourinho si è affacciato dal terrazzo dell’impianto per salutare i tifosi in delirio.

I deliri calcistici sono assurdi: generalmente scoppiano dopo importanti vittorie (speriamo nella vittoria della Nazionale al campionato europeo, possibilmente senza delirio pre o post partita). Figuriamoci l’assurdità se si scatenano addirittura alla sola vista di un nuovo allenatore, che promette sfracelli trionfali per la squadra di calcio, nel caso la Roma.

In un capitoletto del libro dedicato a mio padre ed ai suoi pulpiti educativi, tra cui aveva un posto di primo piano lo stadio, entra in gioco la figura dell’allenatore: mio padre lo considerava “un professionista” da giudicare come tale, senza sottovalutarlo ma anche senza enfatizzarne il ruolo. Mi sembra che l’attuale andamento del mondo calcistico tenda ad esagerarne la funzione e di conseguenza a scaricargli addosso meriti, colpe e responsabilità eccessive.

Come non ricordare quando di fronte ad errori clamorosi di un giocatore (occasione da goal fallita, passaggio decisivo totalmente errato etc.) mio padre provocatoriamente affermava: “L’ é tutta colpa ‘d l’alenadór”. Lo scarica barile è un mezzuccio che non risolve i problemi, intendeva dire.

Consentitemi di riportare un piccolo episodio, questa volta, davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

 A proposito di allenatori poco fortunati ne voglio citare uno del Parma (non chiedetemi i periodi e le date perché non li ricordo) un certo Canforini, tecnico che dalle formazioni giovanili era approdato alla prima squadra. Le cose obiettivamente non andavano bene, la squadra era indiscutibilmente in crisi e – succedeva purtroppo anche allora – scattò la contestazione dei tifosi. Ognuno è libero di esprimere le proprie critiche, più che mai in un ambiente come lo stadio, ma a tutto c’è un limite. Al termine dell’incontro, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita dagli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache del giornale, perché evitava scrupolosamente i dopo-partita più o meno caldi. Ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: “E vót che mi, parchè al Pärma l’à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì.” Mio padre esercitava il mestiere di imbianchino e quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. E continuò dicendo: “Bizòggna ésor stuppid bombén, a ne s’ pól miga där dil cozi compagni.”

É una delle cose dette da mio padre che mi è rimasta più impressa. Peccato che allo sfortunato Canforini non bastò ad evitare l’esonero, ma fu sufficiente, senza saperlo, ad avere la solidarietà di un uomo che lavorava e sbagliava né più né meno come lui. Non so come proseguì la carriera di Canforini, se tornò ad allenare le giovanili, se cambiò squadra, se cambiò mestiere, se cambiò città, ma continuò ad avere tutta la mia “guidata ed ispirata” solidarietà.

Ma torniamo ai nostri giorni, alla Roma ed al suo nuovo allenatore. Quasi quasi ci scappava un’autentica e preventiva incoronazione di José Mourinho. Come successe tanti anni fa con Zico incoronato re di Udine al suo arrivo nella città friulana: cose da pazzi! Mio padre lo aveva soprannominato “col da la ghirlanda”, in quanto gli avevano messo una corona d’alloro al collo. Oltre tutto e forse prima di tutto non accettava gli ingaggi miliardari, ne avvertiva l’assurdità prima dell’ingiustizia, faceva finta di scandalizzarsi, ma in realtà coglieva le congenite contraddizioni di un sistema sbagliato. Mi riferisco al sistema calcio ma anche al sistema più in generale. Sogghignava di fronte agli scandalosi ingaggi: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”.  Scherzi a parte mio padre era portatore di un’etica del dovere, del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.

Amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè.”

È arrivato José Mourinho e la solfa è sempre la stessa, forse anche peggio, perché Sofia Loren era un’artista dello schermo cinematografico, mentre Mourinho è un artista dei miei stivali.