Il calcio è bello perché è var

Appena il tempo di registrare una bella variante al solito andazzo pseudo-sportivo, mi riferisco al clima signorile della semifinale del calcio europeo (Italia- Spagna all’insegna del fair play), ed ecco profilarsi l’ennesima “sporcaccionata” che rovina tutto.

Andiamo con ordine. Il campionato mondiale di calcio 1966 o Coppa del Mondo Jules Rimet 1966 (in inglese: 1966 World Cup Jules Rimet), noto anche come Inghilterra ’66, fu l’ottava edizione del campionato mondiale di calcio per squadre nazionali maggiori maschili, organizzato dalla FIFA ogni quattro anni. Si svolse in Inghilterra dall’11 al 30 luglio 1966, con l’affermazione dei padroni di casa, vittoriosi in finale sulla Germania Ovest al termine dei tempi supplementari, grazie ad un gol fantasma assegnato all’Inghilterra.  La palla non era entrata in porta, ma…ad arbitro e segnalinee non parve vero poter concedere la rete agli inglesi, padroni di casa, che così si aggiudicarono il torneo.

È stato forse uno degli errori (?) arbitrali più clamorosi, che, a distanza di tanti anni, ha indotto il sistema calcio a introdurre il VAR, vale a dire il Video Assistant Referee, un assistente che collabora con l’arbitro in campo per chiarire situazioni dubbie (quelle specificatamente previste dal regolamento), avvalendosi dell’ausilio di filmati e di tecnologie, che consentono di rivedere più volte l’azione, a velocità variabile, da diverse angolature etc. etc.

Vengo al dunque. Durante la partita Inghilterra-Danimarca, giocata a Wembley (un indubbio vantaggio per la nazionale inglese), valida quale semifinale del torneo europeo è stato assegnato ai padroni di casa un rigore decisivo sul risultato finale, che io giudico inesistente, anche se dopo l’introduzione del VAR si parla di penalty concessi con generosità (un modo di dire per scusare gli arbitri che se ne fregano altamente della moviola perché vogliono favorire una squadra), nel caso specifico per motivi geo-calcistici (aggiungo io). C’è persino mancato poco che il Kane si mordesse la coda o, come si diceva in fanciullezza, che san Giovanni facesse vedere gli inganni: l’attaccante inglese si è visto infatti parare il tiro dal dischetto, ma è riuscito a ribadire in rete sulla respinta del portiere (un tap-in sul velluto), salvo poi gioire in modo spropositato e ingiustificato per una prodezza regalata due volte (prima l’arbitro e poi la buona sorte).

Cambiata la legge rispetto al 1966, trovato il solito inganno a favore del più forte di turno, l’Inghilterra appunto. In questi casi, per verificare se trattasi di errori arbitrali commessi in buona o mala fede, sono solito ipotizzare la situazione a parti invertite. Un rigore così generoso sarebbe stato concesso ai danesi? La domanda resta in sospeso o meglio la risposta tutti la sanno e nessuno la può dare apertamente.

Questo ennesimo episodio mi consiglia di ripiegare, come spesso mi succede, sugli insegnamenti paterni.  Ebbene, mio padre dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un protagonista necessario ma ininfluente, un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come la grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: non mi abbasso a questionare con un soggetto in divisa. Può fare quel che vuole e meno male che è così, altrimenti sarebbe una bolgia. Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Ed aggiungeva, dicendo una cosa vera fino ad un certo punto, ma che può essere una sana regola calcistica: “Butta dentor dil bali int la rej e po’ l’arbitro al gh’ à poch da móvor”.

Torno ai danesi indirettamente tartassati dall’arbitro: potevano ben immaginare quel che è successo e allora dovevano fare qualcosa di più in campo. In tribunale per vincere una causa bisogna avere ragione, ma anche trovare un giudice che te la riconosce. Se tanto mi dà tanto, nel calcio, come diceva mio padre, per vincere bisogna buttare il pallone in rete, ma trovare un arbitro che possibilmente non ti ostacoli o non giochi contro di te. La nazionale italiana, che incontrerà quella inglese nella bolgia di Wembley per la finale del campionato europeo, è avvisata e, se vuole stare nel sicuro, dovrà fare molti gol, sperando che non glieli annullino e che non vengano concessi troppi calci di rigore agli inglesi. Oltre tutto, quando due squadre si equivalgono, basta poco per far pendere la bilancia da una parte. Staremo a vedere…