Draghi: passi felpati ma incontenibili

Non ho avuto il tempo (bisognerà trovarlo), ma soprattutto non ho la competenza per giudicare la riforma della giustizia varata dal governo ed elaborata dal ministro Marta Cartabia. Vado pertanto a impressioni di metodo, consapevole che spesso tradiscono la realtà del merito. Credo comunque di non sbagliarmi di molto.

Innanzitutto intravedo un certo qual decisionismo spinto da parte del premier Draghi, il quale non si perde nei meandri ministeriali e parlamentari e, dopo aver ascoltato a destra e manca, chiarisce la indiscutibile direzione di marcia. Guai a lui se non facesse così. È stato capace di guidare con mano ferma la Bce e di condizionare fortemente l’Unione Europea nei suoi indirizzi economici, figuriamoci se non sarà capace di superare gli scogli italiani: lascia lavorare i ministri, lascia parlare i partiti, poi decide. Penso sia successo così anche per la riforma della giustizia. Tecnicamente si fida della competenza del guardasigilli, sa di avere l’appoggio incondizionato del Quirinale, ha promesso alla UE di rendere credibile il PNRR accompagnandolo con le indispensabili riforme strutturali, ha peso e ruolo a livello internazionale, non ha certo paura di cadere sotto i colpi della politica politicante. Leggo sul suo volto una sorta di labiale: se vogliono mandarmi a casa, si accomodino pure, io vado avanti per la mia strada e chi vivrà vedrà.

Draghi ha la forza dei nervi distesi, come diceva un vecchio spot pubblicitario. Non si fa certo impressionare dalle sparate di tizio o caio: sa dove vuole arrivare e non si fa distrarre da nessuno: “Mi avete cercato, mi avete incaricato, mi avete dato fiducia, adesso vado avanti. Se non avrò il vostro gradimento me ne andrò a casa. Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di liquidarmi”. C’è indubbiamente in questo presumibile atteggiamento una punta (?) di presunzione tecnocratica, un certo freddo (?) compiacimento della propria forte personalità irrobustita dal consenso popolare in patria e dalla stima conquistata sul campo a livello europeo ed internazionale, una certa ragionata consapevolezza della debolezza della politica dei cani che abbaiano ma non mordono. Fatto sta che Mario Draghi sta governando sul serio e non si lascia logorare, ma logora gli altri.  Probabilmente, bene o male, riuscirà a superare i limiti che tutti gli ponevano, vale a dire il Piano Nazionale di ripresa e resilienza e la gestione dell’emergenza Covid. Si spingerà sul terreno delle riforme di sistema: è una scommessa in un certo senso pericolosa, ma inevitabile e rispettabile, oserei dire auspicabile.

La seconda impressione riguarda i balbettii delle forze politiche: davanti a Mario Draghi non sanno cosa dire e cosa eventualmente controproporre. Non so fino a qual punto sia merito del premier o demerito dei partiti. Certo la debolezza della politica è preoccupante, ma meno male che c’è Draghi. Sul capitolo giustizia si sta scatenando la tempesta nel bicchiere pentastellato.

Giuseppe Conte vuole riconquistare dignità e capacità governativa, i più scalmanati vogliono recuperare un feeling con l’elettorato smarrito per strada, Grillo vuol cambiare il suo ruolo da leader a bullo magari vantandosi un po’ del draghismo della prima (?) ora.

Dopo il varo della riforma della giustizia in consiglio dei ministri sono scesi in campo Alessandro Di Battista (il vaffanculista per antonomasia), l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede (l’incapace che vuole riscattarsi a tutti i costi) e l’ex premier Giuseppe Conte (il potenziale leader in cerca di leadership): “Non canterei vittoria, non sono sorridente sulla prescrizione, siamo tornati all’anomalia italiana. Chi canta vittoria su questa soluzione non trova il mio consenso”.

Di Battista è violentissimo, definisce i ministri 5S “incapaci, pavidi e inadeguati” e critica il Movimento stesso colpevole “di essersi calato le braghe sulla prescrizione”. Bonafede dal canto suo dà un pesante giudizio negativo: “La norma votata ieri, a mio modesto parere, rischia di trasformarsi in una falcidia processuale che produce isole di impunità e che, comunque, allungherà i tempi dei processi. È vero. Parliamo di una norma che non andrà a regime prima del 2024 e che ‘concede’ un po’ di tempo in più per i reati di corruzione. Ma è veramente troppo poco perché è troppo lontano da quello che abbiamo promesso e realizzato”.

Se questi sono gli oppositori, Mario Draghi può stare ulteriormente tranquillo. Rischia di rimanere a palazzo Chigi per tutta la vita o comunque fino al giorno in cui si stancherà di avere a che fare con il nulla politico. Sì, perché alla lunga la politica dovrà pure ricominciare a farsi spazio. Draghi permettendo, ma soprattutto intelligenza consentendo.