Il Papa ha aperto i lavori, insieme al premier italiano Mario Draghi, degli Stati Generali della Natalità promossi dal Forum delle Associazioni familiari e dedicato al destino demografico dell’Italia e del mondo: da una parte, lo “smarrimento per l’incertezza del lavoro”, dall’altra, i “timori dati dai costi sempre meno sostenibili per la crescita dei figli” e la “tristezza” per le donne “che sul lavoro vengono scoraggiate ad avere figli o devono nascondere la pancia”. Sono tutte “sabbie mobili che possono far sprofondare una società” e che contribuiscono a rendere ancora più “freddo e buio” quell’inverno demografico ormai costante in Italia.
La denatalità ha indubbiamente cause strutturali, plasticamente, mirabilmente e provocatoriamente individuate dal Papa, riconducibili peraltro alla crisi dell’istituto famigliare. Mi sono chiesto spesso però se la “stitichezza procreativa” sia una variabile dipendente dagli andamenti socio-economici o indipendente da essi e strettamente connessa alla mentalità egoista ed edonista che caratterizza il nostro tempo.
Qualche tempo fa un caro amico mi comunicò una semplice ma profonda riflessione: se i nostri nonni avessero indugiato nel fare valutazioni economiche e sociali, non si sarebbero mai sposati e non avrebbero certo fatto figli: c’era una miseria nera, imperversava la disoccupazione, la casa era un optional…Non vorrei quindi che le motivazioni attualmente addotte, peraltro oggettivamente ed indiscutibilmente realistiche, fossero un alibi, una sorta di copertura rispetto alla mancanza di coraggio e di spirito di sacrificio che, comunque, occorrono per decidere di sposarsi o convivere e di mettere al mondo dei figli.
Un tempo per giustificare certi comportamenti di chiusura egoistica si ricorreva alla strategia cognitiva del “tengo famiglia”: la giustificazione morale di comportamenti normalmente considerati esecrabili fa appello alla necessità di rendere compatibili le proprie scelte con l’esigenza di salvaguardare l’integrità o la sussistenza, fisica o economica, della cellula familiare di chi le mette in atto, anche solo per garantirne la persistenza di uno status sociale o del livello raggiunto nel tenore di vita (perfino in presenza di alti livelli di benessere materiale, come accade, in molti casi, nei fenomeni della corruzione politica e dell’evasione e della frode fiscale)). La funzione consolatoria agisce anche in condizioni più affievolite, quando le azioni poco commendevoli siano ispirate dalla volontà di tener immune la propria famiglia da generiche ricadute negative. Questo atteggiamento rientra in una retorica dell’attaccamento alla famiglia (di cui il «tengo famiglia!» è l’espressione caricaturale) con cui è possibile giustificare, di fatto, ogni “rifiuto ad assumere impegni con estranei” e permette sempre di sottrarsi a responsabilità rischiose o gravose con pretesti legate alla sfera delle responsabilità familiari.
Oggi il discorso viene prevalentemente capovolto e di fronte alle difficoltà di vario genere ci si rifugia in un “non posso tenere famiglia”, che blocca le dinamiche etiche, demografiche e sociali. Con questo non intendo togliere la responsabilità a chi governa la società e l’economia, ma l’illusione che basti una diversa politica per sbloccare la situazione di una società ripiegata su se stessa e disperatamente vocata alla propria fine ingloriosa.
L’equilibrio passato era sostanzialmente garantito dal ruolo della donna, che fungeva da spugna rispetto ai problemi famigliari e sociali: svolgeva diligentemente la funzione riproduttiva, educava i figli, gestiva la famiglia, quadrava i conti, lasciava al marito il compito professionale, qualche volta si dedicava persino a qualche lavoro artigianale svolto all’interno delle mura domestiche, tra una cucchiaiata di pappa somministrata ai bambini e una scrupolosa pulizia dell’ambiente casalingo.
Il ruolo della donna e i rapporti interpersonali all’interno della coppia sono cambiati e si è tuttora alla ricerca di nuovi equilibri con l’aiuto degli appoggi esterni, più privati (i nonni) che pubblici (asili, scuole, etc. etc.), con il peso di una vera e propria inflazione educativa (scuola di danza, di musica, di nuoto, di ginnastica, di lingue, di tutto e di più), con l’assillo del divertimento a tutti i costi (week end, vacanze invernali, vacanze estive, etc. etc.).
Ricordo di avere captato i discorsi fra mamme: si lamentavano degli eccessivi impegni appioppati da loro stesse sulle deboli spalle dei figlioletti e facevano l’elenco simile a quello di cui sopra, in fondo aggiungevano il corso di catechismo. È detto tutto sul corto circuito educativo che regna in capo ai bambini. Forse c’è effettivamente un po’ di confusione in un palleggiamento di responsabilità fra persone e istituzioni, risultato finale: niente figli o figli educati alla meno peggio. Aggiungiamoci pure la mancanza della chioccia parrocchiale che un tempo funzionava fin troppo bene.
Il discorso del destino demografico va quindi posto, ma rimettendo ordine nei valori personali, nelle priorità educative, nel ruolo dei vari soggetti operanti e nelle politiche dei governanti. Non illudiamoci di partire dal fondo.